INTERVISTA A MARIA LAURA CONTE
Giornale del Popolo, 9 febbraio 2007
«Ci si deve arrendere alla complessità di questo enorme arcipelago. Tredicimila isole, 230 milioni di abitanti, 1000 etnie, 250 lingue. Provare a capire questo Paese è un grandissimo esercizio di sguardo sulla complessità. Noi in Occidente facilmente tendiamo ad applicare griglie mentali costruite sulla nostra tradizione che qui, purtroppo non reggono. Occorre cambiare proprio la prospettiva». È con un misto di stupore e incredulità che Maria Laura Conte, giornalista veneziana e membro del Centro Internazionale di Studi e Ricerche Oasis, racconta la “sua” Indonesia. Ha appena dato alle stampe per le edizioni Marcianum Press “Dove guarda l’Indonesia – Cristiani e musulmani nel Paese del sorriso”, un libro-reportage che prova a far luce su una realtà affascinante e, appunto, di una complessità disarmante. Le spiagge da sogno di Banda Aceh, il terribile incubo dello tsunami, certo. Ma chi sa che in Indonesia vivono più musulmani che in tutti i Paesi arabi del Nord Africa e del Medioriente? «Generalmente – dice ancora Maria Laura – quando pensiamo a un musulmano pensiamo a un arabo. L’Indonesia ci costringe a cambiare approccio a questa religione: non è un monolite, ma ha tanti volti e tante traduzioni storiche e anche tradizionali popolari».
Che Islam è, allora, quello indonesiano?
L’Islam è arrivato qui, come racconta Marco Polo nel Milione, «sulle navi dei mercatanti saraceni» e non si è propagato con la spada come nel bacino del Mediterraneo. Attraverso questi incontri e scambi, questa religione si è diffusa nel Paese lentamente impastandosi con le tradizioni locali, che a loro volta avevano già conosciuto l’Induismo e il Buddismo. Il risultato di questo lento processo, che si conclude nel XVI secolo, è un Islam che ha le caratteristiche proprie di questa terra.
In che senso?
Uno dei principi fondamentali della tradizione indonesiana, ad esempio, è quello che viene chiamato rukun. Il rukun è un valore che impone di evitare tutti gli atteggiamenti che possono stravolgere l’armonia. Più che un principio di armonia è un principio di elusione del conflitto. Fin da piccoli si è educati a non creare increspature nelle relazioni attorno a sé. Il compito dell’uomo, dunque, è quello di non infrangere il rukun né di rovesciarlo. Cercare un vantaggio per sé senza l’approvazione di tutta la comunità o combattere per progredire individualmente senza la partecipazione del gruppo sono gesti considerati offensivi. L’Islam indonesiano ha assorbito questa visione e ha ereditato un rito tradizionale, lo slametan (un pranzo rituale), che viene riproposto tale e quale nelle feste islamiche ma con l’aggiunta di una lettura del Corano.
Un Islam quasi idilliaco…
Un attimo, fammi finire… Dopo la colonizzazione portoghese e olandese e l’arrivo del cristianesimo, cominciano ad arrivare predicatori legati al mondo arabo e aumentano i pellegrinaggi alla Mecca. Nasce così una maggiore considerazione per l’idea di Umma, l’unica comunità islamica. Di fatto si vanno a formare due anime: una più vicina alla tradizione indonesiana e una che si riconosce nella vicinanza con il Mediorente. A seguito delle dinamiche del mondo globale anche qui sono arrivate le varie influenze dell’islam fondamentalista. È questa nuova presenza, oggi, il vero problema dell’Indonesia. Con il fondamentalismo è arrivato anche il terrorismo islamico legato ad al Qaida che ha colpito nel 2003 e nel 2005. Questi estremismi non hanno nulla a che vedere con la tradizione dell’Islam locale; sono importati da fuori e rischiano di stravolgere il “volto sorridente” del Paese.
Qual è il peso del fondamentalismo?
Da un sondaggio realizzato recentemente dal Liberal Islamic Network, un’organizzazione moderata, emerge che il 18% della popolazione musulmana sostiene i gruppi estremisti, mentre il 6,5% vi partecipa attivamente. Percentuali modeste se considerati in sé, ma se riferiti alla popolazione di oltre duecento milioni di persone, assumono dimensioni preoccupanti.
Come si propaga l’estremismo?
In una baraccopoli di Giakarta ho conosciuto padre Ignatius Sandyawan, detto padre Sandy, un gesuita. Gestisce un’associazione per la cura di poveri e dei senza tetto e i suoi volontari sono per la maggior parte musulmani. Mi diceva però che i fondamentalisti del suo quartiere sono pagati per fare proselitismo. Questa è gente che se non ricevesse soldi dai fondamentalisti morirebbe di fame. In un Paese dove 37 milioni di persone vivono in condizioni di povertà è facile far leva sulla povertà e sulla disperazione.
E i cristiani? Come vivono il rapporto con i musulmani?
I cristiani che ho incontrato a Giakarta sono tutti assolutamente aperti all’incontro e al dialogo con la maggioranza musulmana. Partecipano ai tavoli di impegno per la salvaguardia della tradizionale tolleranza indonesiana. Nell’ufficio per il dialogo interreligioso della Curia di Giakarta lavora anche una musulmana. Curioso, no? Quando furono giustiziati i tre cristiani a Poso, a Giakarta i cattolici sono scesi in piazza per protestare e al loro fianco c’erano numerosi musulmani. Questi cristiani vivono la loro fede nella tranquillità, tutto sommato. Anche se ultimamente è diventato normale che nel periodo di Natale o delle grandi feste cristiane le autorità lancino l’allarme per il rischio di attentati islamici alle chiese. Ma anche qui: ad offrirsi per fare la guardia alle chiese sono dei musulmani.
Schezi?
Te l’ho detto che le cose sono veramente complicate laggiù.
Ma i cristiani non sono terrorizzati?
Il rischio di attentati c’è, ma è vissuto con molta tranquillità rispetto a quello che noi ci aspetteremmo. Non sto dicendo che non ci sono problemi. Ad esempio: da qualche tempo per costruire una chiesa occorre, oltre ai permessi ufficiali, anche il nulla osta di tutto il vicinato. Così basta che ci sia un fondamentalista islamico che si oppone e la chiesa non può essere costruita. Si scende quindi in piazza o per protestare contro la chiesa o per protestare contro il divieto.
Eppure nonostante le minacce e le difficoltà la comunità cristiana non si è chiusa su se stessa…
Ho incontrato gente vivace, attenta, presente nella società. Tra i poveri, nella scuola, negli ospedali e anche nel mondo dell’informazione. A Giacarta ho conosciuto padre Greg Soetomo, gesuita, direttore di Hidup che insieme a Raymond Toruan, ex direttore del Jakarta Post, il principale quotidiano indonesiano di lingua inglese, ha promosso e anima un gruppo di un centinaio di giornalisti cattolici impegnati a vigilare sulla libertà di stampa, sulle pieghe che prende l’informazione. Il loro problema è capire quale può essere il ruolo di una minoranza di giornalisti cristiani inseriti nei media in cui la maggioranza degli operatori e dei destinatari è musulmana. Questo è solo un esempio di una presenza cristiana viva e critica: aperta alle sfide della realtà.
Dove guarda l’Indonesia?
Siamo in una stagione decisiva per capire se questo Paese riuscirà nel rispetto della sua tradizione a mantenersi – come dice il suo slogan – «unito nella diversità» o se prenderà la deriva dettata dalla crescita nel Paese delle tendenze fondamentaliste. Questa resta una domanda aperta. Quel che penso è che occorra far conoscere il più possibile l’esperienza di questo Paese perché è utile per un approccio all’Islam anche in occidente. Sarebbe interessante che in Europa si desse più spazio alle voci dell’Islam indonesiano che costituiscono comunque un coro interessante nel panorama musulmano. Valorizzare all’estero queste voci realmente moderate darebbe loro più più forza all’interno del Paese.