A vederlo così, sembra un Hermann Hesse 2.0. Occhiali rotondi, volto scavato, cose del genere… Wolfgang Laib, artista tedesco di fama mondiale, è la quintessenza dell’uomo occidentale convertito sulla via dell’Oriente. Non è un caso che il Masi di Lugano, a pochi chilometri dalla residenza dell’autore di Siddhartha, gli abbia dedicato una personale in contemporanea con la grande (e molto ben fatta, a dire il vero) mostra “Sulle vie dell’illuminazione – Il mito dell’India nella cultura occidentale”.
Insomma, i pregiudizi non mancano, per chi, come chi scrive, non è mai stato attratto dalle sirene d’Oriente. Eppure il preconcetto si infrange davanti all’opera più importante e famosa di Laib: un campo quadrato di polline disteso sul pavimento della galleria. È di una bellezza profonda, acuta, disorientante. L’occhio fatica a mettere a fuoco la distesa gialla. Impossibile non pensare a un Rothko appoggiato per terra. L’opera è l’esito di un’attività certosina:
«Raccolgo il polline dai fiori, dai cespugli e alberi vicino al villaggio in cui vivo. Il processo comincia all’inizio della primavera con il nocciòlo e continua con il dente di leone, il ranuncolo e il pino. E un periodo di quattro o cinque mesi. Al termine, ho quattro o cinque barattoli di polline. Raccolgo il polline con le mie mani. È molto semplice».
I curatori non dicono quanti barattoli sono occorsi per realizzare l’opera al Masi. Dicono però che Laib, nel 2013, al Moma, per il suo intervento più grande, usò il polline raccolto in oltre vent’anni. C’è lentezza, una pazienza d’altri tempi. La stessa che lo sceriffo di Non è un paese per vecchi vide nell’uomo che aveva impiegato anni a scolpire nella pietra un grande abbeveratoio: «L’unica cosa che mi viene da pensare è che quello aveva una specie di promessa dentro il cuore».
C’è un tipo di poesia che si fatica a spiegare e l’esperienza di trovarsi a tu per tu con un’opera di tale forza costringe a mettere da parte ogni armamentario ideologico. Prevale lo stupore.