INTERVISTA A GIANPAOLO PANSA
Giornale del Popolo, 19 dicembre 2006
Giampaolo Pansa è un giornalista di razza. Graffiante, caustico e scomodo. Scomodo, soprattutto, da quando si è messo a scrivere libri che raccontano la storia della resistenza italiana dal punto di vista di chi quella guerra civile l’ha persa. “Il sangue dei vinti” e “Sconosciuto
Pansa, qual è la “grande bugia” a cui si riferisce?
La grande bugia non è, come qualcuno cerca di farmi dire per ragioni di propaganda,
Non più accettabile? Perché?
Perché è un racconto troppo reticente e troppo falsato. In questo libro lo spiego con molta precisione e molti dettagli. È accaduto quello che succede sempre quando finiscono le guerre, soprattutto le guerre civili: uno vince, l’altro perde. Hanno vinto i partigiani e gli antifascisti, per fortuna aggiungo io, e hanno perso i fascisti. Poi a parlare sono stati solo i vincitori, mentre chi ha perso ha dovuto stare zitto perché gli è stato messo il sasso in bocca. Questa cosa non è durata solo un anno o due, ma è durata praticamente quasi sessant’anni. Parlando solo chi ha vinto, anzi il più forte tra i vincitori, il Partito Comunista Italiano, ne è uscita una storia autoritaria. Una storia in parte falsa: piena di pagine bianche, piena di omissioni, piena di mezze verità, piena di mezze bugie, piena di bugie totali, di storie non raccontate e di storie inventate di sana pianta. Dunque quello che è definito con una punta di disprezzo dagli agiografi della ricerca storica “il revisionismo” è un atteggiamento mentale assolutamente normale. Quindi non chiedermi se sono un revisionista, perché io sono un revisionista “ultrà”, nel mio dilettantismo. E penso che la storia della resistenza italiana sarebbe più accettabile, specialmente dalle nuove generazioni, se fosse più corretta. Se fosse meno scandalosamente faziosa e soprattutto se tenesse conto di tutti i fattori in gioco in quei venti mesi terribili.
Ma chi ha alimentato e ha avuto interesse ad alimentare questa bugia?
Come ho detto è stato il Partito comunista italiano. Perché il PCI aveva il problema di non potersi accreditare come partito nazionale e democratico se non riferendosi alla sua battaglia contro il fascismo.
In che senso?
Perché per il resto il PCI è stato un partito filosovietico legato agli interessi del comunismo internazionale, succube degli ordini che venivano da Mosca. E questo fin quasi alla caduta del muro di Berlino. E non poteva presentarsi con nessun’altra bandiera che non fosse quella dell’antifascismo. Ma l’antifascismo raccontato nel modo che faceva comodo a loro. Questa è una cosa talmente evidente a chi si occupa come me di storia del fascismo, anti fascismo e guerra partigiana, che non serve nemmeno dimostrarlo. Io comunque ho provato a dimostrarlo facendo una serie di esempi.
La sinistra ha reagito male ai suoi primi libri sulla resistenza a partire da “Il sangue dei vinti” passando per “Sconosciuto
…non della sinistra: ho detto del PCI, perché la sinistra non è solo il PCI o gli eredi del PCI. La sinistra italiana come soggetto unitario non esiste più, esistono tante sinistre diverse e tutte in rotta tra di loro. Anche all’interno dei DS ci sono degli atteggiamenti diversi sulla storia stessa del partitone rosso. Quindi non è vero che tutta la sinistra è contraria ai miei libri, è contraria quella sinistra post-comunista riconoscibile in quei partiti che hanno ancora questa parola nei loro simboli, in una parte dei DS e poi in quei circoli di ragazzi, ahimè ignoranti, che sono i no global. Questi, in particolare, che pensano di poter fare qualunque cosa in nome della resistenza e non si rendono conto di essere i primi a tradirla e a smentirla con il loro atteggiamento intollerante, violento e pronto a menar le mani.
Ma a quest’ultimo libro che reazioni ci sono state?
La prima reazione è stata che in poco più di un mese è arrivato a nove edizioni per 350mila copie vendute. Questa accoglienza è stata al di là di ogni mia previsione e con decine di richieste di andare in giro per l’Italia a presentarlo. E ho potuto soddisfarne per ragioni di tempo la metà della metà. Poi se leggi l’Unità, se leggi Liberazione o se ascolti i discorsi dei Comunisti Italiani vedi che questo libro gli ha dato fastidio come una trave in un occhio. Però era scontato che avvenisse. Questi sono ancora inchiodati, per loro opportunismo partitico, a un’immagine della nostra guerra interna che non corrisponde a quella della verità storica. Certo, questi hanno rognato, ma se non avessero rognato mi sarei sentito nei guai.
Come si spiega invece il successo dei suoi libri precedenti?
Io non sono il primo che ha scoperto quello che è successo in Italia dopo il 25 aprile, ma sono stato il primo che l’ha raccontato in modo ordinato – sto parlando de “Il sangue dei vinti” uscito nel 2003 – coprendo quasi per intero l’Italia del Nord. Un testo così non c’era; c’erano tanti libri e libretti, oppure c’erano anche ricerche serie sulle varie zone, ma non c’era un racconto che riguardasse quella che poi è stata la patria della guerra di liberazione o della guerra civile. Era un libro che aspettavano sia i lettori di sinistra che quelli di destra. E soprattutto è stato accolto con un sospiro di sollievo da chi ha avuto parenti uccisi o scomparsi (perché sono tantissimi i casi di uccisioni senza il ritrovamento dei cadaveri) durante la fase successiva alla fine della guerra. E, bada, queste persone non sono mica tutti fascisti. Di questi molti hanno militato nella sinistra e sono diventati parlamentari di partiti di sinistra. Una persona mi ha detto che finalmente ha visto un autore che pur non appartenendo al loro mondo «ridava dignità ai loro morti». Questa frase mi ha molto colpito e mi risuona sempre nelle orecchie. In Italia si è abituati a una pubblicistica storica, per quel che riguarda la storia contemporanea, troppo legata al partitone e alle cattedre dei professori marxisti. La prima ragione del successo è stata che ad affrontare un tema tabù era un giornalista di sinistra, però laico, democratico, tollerante e antifascista. Se poi il successo è continuato per gli altri libri vuol dire che sono un autore credibile presso un pubblico molto largo.
Torniamo alla questione del revisionismo; in un’intervista ha dichiarato: «una sinistra riformista, se non è anche revisionista, che sinistra è?». Cosa intendeva?
Volevo dire quello che è chiarissimo. E cioè che se la sinistra che si dichiara riformista vuole riformare in senso moderno le strutture di questo Paese, la sua politica, la sua pubblica amministrazione, il suo bilancio, la sua economia, i suoi rapporti con i cittadini, deve per prima cosa leggere fino in fondo dentro la propria storia. Se no non è credibile. Faccio il revisionista fuori dal mio appartamento, ma nel mio appartamento invece dico che è sempre andato tutto bene? Mi rifiuto di vedere l’album di famiglia? Mi rifiuto di vedere cosa c’è negli armadi che mi hanno lasciato la nonna e poi la mamma e poi la zia? È assolutamente fatale questo. Questa è una mia opinione che sono pronto a discutere. Ma non so se è un’opinione anche dei capi dei partiti della sinistra riformista a cominciare dai leader dei DS. Questi leader la pensano esattamente come la penso io (lo so da colloqui privati), però non osano dirlo in pubblico perché hanno dei fatturati elettorali così striminziti che hanno paura di perdere il voto anche dell’ultimo partigiano dell’ANPI (Associazione Nazionale dei Partigiani Italiani, ndr).
Scriverà ancora libri su questi argomenti?
Questo se lo sapessi non te lo direi. Perché per scaramanzia non annuncio mai i miei programmi prima di averli impostati e soprattutto prima di averli realizzati. Non è detto, stiamo a vedere. Come dicono gli spagnoli: “mañana”, domani.