CRISTIANI IRACHENI IN LIBANO: UNO "TSUNAMI" UMANITARIO


Dal Giornale del Popolo del 2 novembre 2007

«È uno “tsunami” umanitario. Non so che altra immagine utilizzare. La situazione dei cristiani in Iraq è tragica, la loro stessa presenza nel Paese è ormai a rischio. Per questo fuggono e decine di migliaia di profughi giungono nei Paesi confinanti. Ma in pochi casi ottengono lo statuto di rifugiati. La loro diventa un’esistenza d’inferno, tutti i giorni confrontati con la paura di essere arrestati e rispediti nel loro Paese, dove è in atto una vera e propria persecuzione nei loro confronti». Così mons. Michel Kassarji, vescovo caldeo di Beirut, racconta il dramma dei cristiani iracheni che negli ultimi due anni, ormai, hanno cambiato la sua vita quotidiana. Ogni mattina, infatti, davanti alla porta del vescovado di Hazmieh, nei pressi di Baabda, la collina su cui sorge il palazzo del presidente libanese, si presentano una, due, tre famiglie di profughi fuggiti dall’Iraq che a lui chiedono aiuto. Sono clandestini e in Libano non potrebbero neanche starci. Il Libano ospita campi profughi palestinesi eredità del conflitto del 1948, ma non ha mai sottoscritto la Convenzione internazionale sui rifugiati del 1951, perciò non accetta profughi stranieri sul suo territorio se non nel caso di quelli a cui le Nazioni Unite rilascia un permesso temporaneo in vista del loro reisediamento in un Paese terzo.
«Oggi i cristiani iracheni – continua il vescovo caldeo – sono l’obiettivo diretto e programmato di una persecuzione che può essere paragonata a quella dei cristiani dei primi secoli. I fedeli vengono presi di mira dal fuoco delle squadracce sunnite e sciite, alcuni sacerdoti sono stati prima rapiti e poi uccisi, molte chiese sono state distrutte dalle autobomba». «Oggi a Baghdad – continua – un cristiano che passeggia per la strada con una croce al collo viene aggredito; in alcuni quartieri e in certe città vengono obbligati, pena la morte o la fuga, a pagare la “jizah”, l’antica tassa coranica imposta come tributo di soggezione a cristiani ed ebrei». Ma anche la fuga, la maggior parte delle volte, non sembra rivelarsi la soluzione. Le peripezie dei caldei iracheni in Libano, ad esempio, sono paradossali. Si spingono nel Paese perché sanno che lì vive una forte minoranza cristiana e che il capo dello Stato è cristiano. Ma presto scoprono una triste realtà. Attraversare la frontiera clandestinamente gli costa 200-300 dollari americani per persona, poi una volta entrati rischiano continuamente l’arresto per ingresso clandestino nel Paese. «Quando vengono presi – continua il vescovo – trascorrono dai tre ai cinque mesi in prigione in attesa del processo poi, dopo la sentenza, vengono espulsi. Molte volte ricevono telefonate dal Libano e dall’Iraq, anche nel cuore della notte, di parenti di persone arrestate che mi chiedono di intervenire. Io vado sempre alla prigione che spesso sono lontane dalla capitale e vicino al confine. Ho parlato diverse volte con il presidente, con il ministro dell’Interno, con responsabili dei servizi segreti, ma con scarsi risultati».
«La mia comunità caldea – dice mons. Kassarji – fino a un paio di anni fa era formata da circa 5000 fedeli. Oggi ci dobbiamo fare carico di 8000 fratelli iracheni. È quasi insostenibile, anche se noi facciamo tutto quello che possiamo fare». Quello messo in piedi dalla comunità caldea libanese è uno sforzo immenso: cinquecento pacchi alimentari al mese, 400 borse di studio per i figli dei profughi iscritti alle scuole cristiane libanesi, la scarcerazione di decine di arrestati, l’ottenimento del riconoscimento dello statuto di rifugiato per decine di profughi, la gestione di un doposcuola e di un corso di recupero serale per i ragazzi che di giorno lavorano. «È capitato – racconta ancora il vescovo – che uno di questi profughi è stato ricoverato in ospedale per una grave malattia. Dopo alcune settimana è morto. Sono andato all’ospedale per capire cosa fare per il funerale, ma mi è stato detto che il ricovero era costato diverse migliaia di dollari e fino a che il conto non fosse stato saldato da qualcuno, non mi avrebbero dato il corpo per seppellirlo. Cosa dovevo fare? Ho pagato e ho fatto il funerale».
Ma la sfida maggiore per mons. Kassarji è quella di tentare, insieme all’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite, di ottenere dallo stato libanese una politica più umana che permetta di dare a questi rifugiati un permesso di soggiorno temporaneo fino alla loro partenza verso altri Paesi. «Ma la nostra vera intenzione – conclude – è quella di provare, con le istituzioni internazionali e le ONG, di convincere il popolo iracheno a restare in Libano. Sono convinto che servirebbe a consolidare la presenza cristiana in Libano. Questa infatti è la condizione indispensabile perché il Libano continui ad essere un modello di convivenza tra cristiani e musulmani». Ma per realizzare quello che può sembrare un sogno, occorre che la Chiesa caldea libanese venga sostenuta, perché con proprie forze, non potrebbe mai farcela. Per questo Mons. Kassarji sta girando alcuni Paesi europei per chiedere aiuto e lancia un disperato appello: «Aiutate i cristiani dello “tsunami” iracheno».

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