“In un momento come il nostro in cui la parola è diventato il luogo dell’equivoco, il luogo della menzogna, il luogo del gioco, di questa svendita della parola stessa, beh, allora, è finita. E siccome io non sono ancora finito fin che si può, ogni possibilità di racconto non deve far altro che cercare, che ascoltare questo lacerto umano (ciò che resta dell’umano), entrarci dentro, perché non può stare fuori, mescolarsi con lui e pregarlo, supplicarlo attraverso tutto quello che è̀ possibile dalla preghiera all’abbraccio, all’insulto: tutto quello che è possibile per far in modo che questa umanità ripronunci la parola, perché io non credo che ci siano molte altre speranze e perchè il luogo e la ragione del raccontare oggi, come sempre ma oggi più che mai, è solo quella di difendere il diritto a parlare di chi non ha parola anche se gli viene concessa, gli vengono concesse tutte le parole, ma sono tutte parole prestabilite, tutte parole limate, tutte parole preparate. E’ una liberta di dire parole non libere. Forse ho già citato questo verso dell’Alfieri, del “Filippo”, ma mi piace citarlo qui, anche se nella sua fermezza di scultura. Ad un certo punto Perez, colui che difendeva la libertà degli oppressi, dei popoli oppressi da Filippo e la difendeva in questo processo intentato al figlio Carlo da Filippo dice: “Libero sempre non è il pensier liberamente espresso”. Non sempre libero è il pensiero liberamente espresso, non sempre libera è la parola liberamente espressa. Le parole che noi sentiamo, che leggiamo, sono quasi tutte parole che non partono da quella prima catena che è la sola che rende liberi, che è̀ la catena che ci lega a quel brandello umano, a quella realtà̀ umana, che siamo. Fuori da questa catena d’origine le parole non sono più libere, s’incatenano perchè́ sono uscite dalla sola catena che a loro appartiene, quella di restare, di partire, di generarsi all’interno dell’uomo e del rapporto tra uomini”.
Giovanni Testori
grazie a Riccardo per la segnalazione