NYsferatu. Quante idee nella matita di Andrea Mastrovito

NYsferatu Andrea Mastrovito
Finalmente sono riuscito a vedere alla Fondazione Stelline il film di Andrea Mastrovito NYsferatu. Synphony for a Century, il remake del Nosferatu di Murnau disegnato fotogramma per fotogramma dall’artista bergamasco e la sua bottega (un corpus di 35mila disegni). La vicenda di Hutter, sua moglie e del Conte Orlok (Dracula) viene ripresa passo passo, immagine per immagine, ma a cambiare è l’ambientazione. Wisborg diventa la New York post 11 settembre e la Transilvania la Siria contemporanea devastata dalla guerra.
Come al solito il lavoro di Mastrovito abbonda, esonda, tracima. L’ambizione del progetto quasi gli sfugge di mano (non aspettatevi una sceneggiatura alla Sorkin). Ma a Mastrovito si perdona tutto in virtù della sua schiettezza, della sua immediatezza, della sua irruenza. Ma anche la sua delicatezza, la sua visionarietà, il suo umorismo.

Quante idee nella sua matita. Una su tutte, e forse quella centrale in questo film: la lacrima che scende sulla guancia della Statua della Libertà. Un’immagine che ha dentro un romanzo intero di domande: perché piange? Chi potrà consolarla?

Oggi si scrivono libri per rispondere a questi che sono gli interrogativi sulla crisi delle democrazie liberali in Occidente. Nella mia testa Mastrovito entra nella stanza dove stanno discutendo, tra gli altri, Pankaj Mishra (L’età della rabbia, Mondadori), Vittorio Emanuele Parsi (Titanic. Il naufragio dell’ordine liberale, Il Mulino)e Mattia Ferraresi (Il secolo greve, Marsilio). Entra nel dibattito da artista e da tifoso dell’Atalanta: lanciando fumogeni, scoppiando petardi e sfanculando la polizia.

Andate a vederlo, alle Stelline lo proiettano fino al 18 aprile

NYSFERATU ANDREA MASTROVITO

Filippo De Pisis. Rapidità ansiosa

DE PISIS Venezia-Marina 1930
Filippo De Pisis, Venezia-Marina, 1930

Tornare a vedere Filippo De Pisis per cercare di capire il perché di questo ostinato oblio che lo circonda. Eppure, poco lontano dal Museo Ettore Fico, dove fino al 22 aprile si può visitare “Filippo de Pisis – Eclettico connoisseur fra pittura, musica e poesia”, alla GAM di Torino è esposto nella stessa sala di Giorgio Morandi. E si capisce il perché. Che il Meridiano di Roberto Longhi si intitoli Da Cimabue a Morandi e non Da Cimabue a De Pisis, spiega solo in parte perché il pittore bolognese abbia avuto una fortuna infinitamente più ampia rispetto all’artista di Ferrara (che pure stava appeso con una natura morta nella sala da pranzo del grande critico). Probabilmente la semplice complessità di Morandi si offre in modo generoso a una lettura “concettuale” della sua monastica ossessione per la luce che si distende sugli oggetti.

E De Pisis? No, De Pisis è molto meno incasellabile nelle categorie del gusto corrente. E, diciamolo, la sua è una pittura che muore se riprodotta. Così, complici anche le cornici orribili e polverose, è facile scambiare queste opere vibranti e inquiete per quadri da pizzeria.

In mostra viene riprodotto un brano di Giuseppe Raimondi che, nel 1941, fa riferimento a Manet per spiegare le nature morte marine di De Pisis:

Edouard Manet Sur la plage
Edouard Manet, Sur la plage, 1873

«Il quadro Sur la plage del ’73 è una straordinaria natura morta avente due grosse figure in primo piano, come mostruosi frutti di mare, e nel fondo la distesa delle acque verdi. Anche la sua tavolozza ne restò impressionata: l’uso delle lacche rosse, affondate nelle dolcezze delle terre gialle o bruciate; gli accordi sui complementari, giallo oro e blu di Prussia e l’infinita scala dei verdi accordata coi rossi. Ma inoltre si direbbe che il pittore dell’Olimpia ha suggerito a De Pisis l’ardito impianto di talune composizioni o piuttosto il modo irruento di aggiustarne gli oggetti. Qualcosa di brusco e violento nella presa, cui segue la rapidità ansiosa della rappresentazione, ottenuta con i mezzi più alla mano. (…) la rapidità di una visione mai disgiunta di una sorte di intellettuale ilarità»

Mi pare che quel “rapidità ansiosa” e quel “brusco e violento” descrivano in modo preciso la dimensione elettrica della pittura di De Pisis. C’è un enigma di inquietudine scritto con quei geroglifici neri che innervano questi quadri. E se pizzeria deve essere, che sia la pizzeria del Four Season di New York per cui erano pensate le tele di Rothko ora alla Tate di Londra. Anche i fiori e le conchiglie di De Pisis toglierebbero l’appetito a chiunque (a meno che non si chiami Roberto Longhi).

Per questo sono convinto che occorra tornarci su questo artista. Almeno di tanto in tanto.

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Manifesto. A lezione di storia dell’arte da Cate Blanchet

Manifesto Cate BlanchetHo visto “Manifesto”, il film di Julian Rosenfeld con Cate Blanchet e mi è piaciuto moltissimo. Si tratta di una versione “in linea” dell’istallazione realizzata dall’artista tedesco nel 2015. Rosenfeld si immagina tredici situazioni nelle quali la grande attrice recita i testi di 54 manifesti artistici scritti tra il 1848 e il 2002. C’è davvero di tutto: da Karl Marx a Lucio Fontana, da Marinetti a Jim Jarmush, passando per Apollinaire, Kandinsky, Breton e Sol LeWitt. Le situazioni non hanno nessun nesso con i testi che vengono recitati. L’effetto è straniante.
La qualità delle immagini è indiscutibile e di grande fascino. Cate Blanchet è bravissima.
Di questo film mi colpisce da una parte il grandissimo lavoro di conoscenza che ha alle spalle (qui potete vedere chi sono gli autori e i testi che vengono utilizzati), dall’altra quando sia in grado di offrire conoscenza. Nel lungo secolo delle ideologie anche l’arte è stata investita dalla ubriacatura delle idee. Tantissimi artisti hanno creduto di poter dichiarare in anticipo le proprie intenzioni o dettare le proprie regole all’arte. È stato un atteggiamento che, a posteriori, appare tanto naif quanto violento, ma che non ha impedito a tanti di loro di fare grandi opere. È una riconferma di quanto l’arte visiti chi vuole quando vuole.
Quanta retorica. Quanta voglia di distruggere. Quanto desiderio di portare l’arte nel campo del “non senso”.
Eppure l’arte ha resistito. Anzi, ha utilizzato di questa furia per nutrirsi e viaggiare per le sue strade.

Dall’altra parte mi colpisce la qualità letteraria di alcuni di questi testi. Prendete le parole di “A Stident Prescription” (1921) di Manuel Maples Arce (personaggio a me sconosciuto, ammetto), pronunciate dalla Blanchet nei panni di una cantante punk:

«In my glorious isolation, I am illuminated by the marvelous incandescence of my electrically charged nerves»

C’è qualcosa di molto affascinante in questa operazione. Rigorosa, elegante, spiazzante. Mi sembra ci insegni quanto poco, in arte, le dichiarazioni di intenti siano da prendere sul serio, ma anche che le idee contino tanto quanto il talento (a volte il talento si esprime attraverso le idee).

Furbo Julian Rosenfeld a utilizzare Cate Blanchet come traghetto verso il grande pubblico. Brava la Blanchet a prestarsi per un’opera così intelligente.

Wolfgang Laib a Lugano. Una specie di promessa

 Wolfgang Laib Masi LuganoA vederlo così, sembra un Hermann Hesse 2.0. Occhiali rotondi, volto scavato, cose del genere… Wolfgang Laib, artista tedesco di fama mondiale, è la quintessenza dell’uomo occidentale convertito sulla via dell’Oriente. Non è un caso che il Masi di Lugano, a pochi chilometri dalla residenza dell’autore di Siddhartha, gli abbia dedicato una personale in contemporanea con la grande (e molto ben fatta, a dire il vero) mostra “Sulle vie dell’illuminazione – Il mito dell’India nella cultura occidentale”.
Insomma, i pregiudizi non mancano, per chi, come chi scrive, non è mai stato attratto dalle sirene d’Oriente. Eppure il preconcetto si infrange davanti all’opera più importante e famosa di Laib: un campo quadrato di polline disteso sul pavimento della galleria. È di una bellezza profonda, acuta, disorientante. L’occhio fatica a mettere a fuoco la distesa gialla. Impossibile non pensare a un Rothko appoggiato per terra. L’opera è l’esito di un’attività certosina:

«Raccolgo il polline dai fiori, dai cespugli e alberi vicino al villaggio in cui vivo. Il processo comincia all’inizio della primavera con il nocciòlo e continua con il dente di leone, il ranuncolo e il pino. E un periodo di quattro o cinque mesi. Al termine, ho quattro o cinque barattoli di polline. Raccolgo il polline con le mie mani. È molto semplice».

I curatori non dicono quanti barattoli sono occorsi per realizzare l’opera al Masi. Dicono però che Laib, nel 2013, al Moma, per il suo intervento più grande, usò il polline raccolto in oltre vent’anni. C’è lentezza, una pazienza d’altri tempi. La stessa che lo sceriffo di Non è un paese per vecchi vide nell’uomo che aveva impiegato anni a scolpire nella pietra un grande abbeveratoio: «L’unica cosa che mi viene da pensare è che quello aveva una specie di promessa dentro il cuore».

C’è un tipo di poesia che si fatica a spiegare e l’esperienza di trovarsi a tu per tu con un’opera di tale forza costringe a mettere da parte ogni armamentario ideologico. Prevale lo stupore.

Lucio Fontana all’Hangar Bicocca. Un paradosso

Lucio Fontana Ambienti SpazialiLa prima cosa da dire è che non è una mostra di Fontana ma su Fontana. E non è una differenza da poco. Il motivo è semplice: tutti e nove gli “ambienti” presenti all’Hangar per la mostra Lucio Fontana -Ambienti/Environments all’Hangar Bicocca di Milano, a cura di Marina Pugliese, Barbara Ferriani e Vicente Todolí, sono ricostruzioni, seppur filologiche, di interventi andati perduti. Questo, entrando in mostra, occorre averlo chiaro (e i curatori non lo nascondono) perché ci permette di comprendere un sottile paradosso. Questa esposizione restituisce alla nostra generazione Lucio Fontana per il precursore assoluto che è stato rispetto quella grande arte americana che ha riflettuto sulla luce e sullo spazio. James Turrell, Robert Irwin, Dan Falvin qui appaiono definitivamente come arrivati dopo. Le date non mentono: i neon di Fontana sono già del 1948-49, quando Dan Flavin portava ancora i pantaloni corti.
Ma dove sta il paradosso? Il punto è che senza gli americani a nessuno, probabilmente, sarebbe venuto in mente di mettere in atto una macchina così raffinata e costosa per “resuscitare” queste opere perdute. E senza di loro non potremo comprendere quanto davvero l’artista italiano sia arrivato prima.
Su questo Fontana non aveva dubbi. E lo rivendicava con forza. Una volta, rimproverando gli americani di sciovinismo e provincialismo, raccontò a Carla Lonzi, un dialogo avuto con un critico statunitense. «Ma sì, ma lei… lo spazio, ma cosa vuole, lei italiano, lo spazio… noi americani, i deserti dell’Arizona, lì…», fece quello. E l’altro: «Guardi, io non sono italiano, io sono argentino (era nato a Rosario, ndr) e ho la pampas che è dieci volte più grande dei deserti dell’Arizona… Ma lo spazio non è la pampas, lo spazio è un altro nella testa, capisce?».
Il problema, però, sta nel capire perché per Fontana non fosse importante che queste opere rimanessero, come invece è per i suoi colleghi d’oltreoceano. Perché non solo non si preoccupò che fossero conservate, ma nemmeno lasciò indicazioni su come istallarle nuovamente. È un enigma che la mostra non risolve. O forse l’enigma non c’è e per Fontana la mostra all’Hangar non andava fatta.

L’enigma di Andy Warhol

Andy Warhol, The Last Supper

Questo articolo è stato pubblicato sul numero di febbraio 2017 di Tracce

«Al momento della sua morte, che lo colse all’età di 59 anni, il 22 febbraio del 1987, Andy Warhol era per molti poco più che la parodia di un artista», ha scritto Jerry Saltz del New York Times: «Era considerato un parassita della società che viveva sulle spalle di artisti più giovani. Un individuo ormai cotto e sovraesposto, il mito di se stesso, un artista da night club che se ne andava in giro con Liza Minelli e faceva ritratti di gente famosa per soldi. Poi è morto e all’improvviso tutte le apparizioni mondane, le foto, gli show televisivi, i film, le riviste, perfino i quadri che tanta gente aveva sempre guardato con sospetto, hanno preso vita, crescendo di statura. La mia domanda è: come mai Warhol è più rispettabile da morto che da vivo?».

A trent’anni esatti dalla scomparsa del Pope of Pop, il papa del pop, ci sono diversi modi per rispondere a questa domanda. Un modo è considerare quanto accaduto alla messa di suffragio per Warhol, nella Cattedrale di Saint Patrick a New York a qualche giorno dalla morte. Per l’elogio funebre prese la parola il critico John Richardson che rivelò non solo che l’artista era un fedele volontario di una mensa per i poveri, ma che da cattolico di rito bizantino, fino agli ultimi giorni, frequentava la chiesa per la messa domenicale e per pregare durante i giorni feriali. «Chi di voi lo ha conosciuto in circostanze che erano l’antitesi dello spirituale sarà sorpreso che questo lato sia esistito», disse Richardson davanti a decine di celebrità: «Ma c’era eccome, ed è la chiave della sua mente di artista».

Per molti quel momento è stata l’occasione per riconsiderare l’opera di Warhol da un’altra prospettiva. Complice del grande fraintendimento fu lui stesso, che aveva fatto di tutto per confondere le carte: «Non prendete mai Andy alla lettera», si raccomandava Richardson. Eppure, a trent’anni di distanza, quello che appare un enigma non è stato del tutto chiarito. Come può un’arte intenzionalmente superficiale essere espressione autentica di un animo sinceramente religioso, per non dire cattolico?

I biografi hanno raccolto molti aneddoti che attestano il reale attaccamento di Warhol alla Chiesa. Qualcuno ha detto che tenesse sempre in tasca un rosario. L’amico Bob Colacello sostiene che dopo l’attentato del 1968, quando una squilibrata gli sparò lasciandolo in fin di vita, promise, se fosse sopravvissuto, di andare a messa ogni domenica. Esiste la fotografia del suo incontro con papa Wojtyla in Piazza San Pietro nel 1980. Sul suo comodino è stato trovato il libro di preghiere della sua infanzia. Richardson disse che Andy pagò il seminario a un nipote e, almeno in un caso, fu responsabile di una conversione (il critico non diede ulteriori particolari). Eppure tutti sapevano che Warhol non era un santo: la sua Silver Factory negli anni Sessanta fu per molti un luogo di autodistruzione (un esempio su tutti: il ballerino Fred Herko, che si gettò dal tetto dell’edificio). Debolezze ne aveva come tutti, e anche qualcuna in più. È evidente che il mistero non può essere risolto confidando solo sui dati biografici e limitandosi a constatare che, tra icone del consumismo e celebrità, nella sua produzione artistica compaiono anche soggetti religiosi.

Andy Warhol, Christ 112 timesSe esiste una chiave per risolvere l’enigma, essa va trovata – questa volta sì – in profondità, cioè nella concezione che Warhol aveva di ciò che gli interessava di più: le immagini. In questo senso serve sapere che la sua famiglia proveniva da un piccolo paese nei Carpazi – all’anagrafe era registrato come Andrew Warhola – e che, giunta a Pittsburgh, frequentava la chiesa bizantina cattolica di San Giovanni Crisostomo. Quella chiesa possiede un’iconostasi e i fedeli, come fanno anche gli ortodossi, entrando, baciano le icone. Il bacio dice di un legame quasi sacramentale con l’immagine, che diventa strumento del rapporto con il divino. Il fondo oro delle icone è lo spazio eterno della dimensione sacra. E tuttavia l’icona è viva e guarda il fedele il quale, con umiltà, si lascia guardare. Anche per questo la tradizione orientale ha codificato canoni per la composizione e la simbologia a cui gli iconografi si attengono.

La ripetitività e la spersonalizzazione tipiche dell’arte bizantina sono le stesse che segnano l’opera di Warhol già nelle sue prime opere mature. Le lattine della zuppa Campbell sono riprodotte in modo fedele, senza volontà di interpretazione. La figura è ripetuta identica a se stessa. Gli oggetti della vita quotidiana sono offerti come un gesto di stima verso tutto ciò che ci circonda.

Quanto la pittura, in Warhol, inviti lo spettatore a far ciò che il fedele compie nei confronti dell’icona sacra, cioè entrare in rapporto reale con ciò che è rappresentato, possiamo solo supporlo. Di certo la sua era una vera e propria bulimia di realtà. In America, un diario visivo Warhol racconta che quando i giornalisti chiesero a Giovanni Paolo II che cosa gli piacesse di più di New York, rispose: «Tutto». E l’artista aggiunge: «È esattamente questa la mia filosofia».

Anche la sua passione per le celebrità, in fondo, è un modo tutto americano di celebrare il desiderio di essere voluti bene. E non appare per nulla frivolo proporre i ritratti di Marilyn Monroe, Jackie Kennedy e Liz Taylor nei momenti più drammatici delle loro vite. Anche qui: sembrerebbe l’invito a un gesto di affetto, a un bacio, a uno sguardo che entri in rapporto con ciò che di non superficiale c’è nei volti che tutti si accontentano di guardare con superficialità. Questo non significa che Warhol volesse fare arte religiosa e men che meno arte sacra.

Eppure, per uno strano destino, negli ultimi due anni si è ritrovato a lavorare in modo accanito sull’immagine di Cristo. L’occasione, abbastanza casuale, fu l’invito del gallerista Alexander Iolas a fare una mostra a Milano al Palazzo delle Stelline, a pochi metri dall’Ultima cena di Leonardo. Sarà l’ultima sua mostra, inaugurata pochi giorni prima di morire.

Jane Daggett Dillenberger, nel suo The Religious Art of Andy Warhol, ha calcolato che l’artista, comprese le versioni in cui ha usato il volto di Cristo come multiplo, lo abbia raffigurato 448 volte. Si tratta del ciclo a soggetto religioso più ampio di tutta l’arte americana. E alcune opere sono le più monumentali della produzione di Andy: The Last Supper (Red) del 1986, con i suoi dieci metri di larghezza, è perfino più grande dell’originale leonardesco.

Che Warhol si appassioni a questo lavoro è più che comprensibile: si trova a confrontarsi con una tra le immagini più mediatizzate della storia dell’arte, il cui protagonista, Gesù, a ben vedere, è la celebrità al massimo grado: Jesus Christ Superstar. Tutti lo conoscono, tutti lo amano. Non solo: quella di Leonardo è l’immagine che la famiglia Warhola aveva appesa sopra il tavolo della cucina della casa di Pittsburgh. E la madre Julia, che visse fino alla morte con il figlio, teneva nel suo libro di preghiere un santino del Cenacolo.

Andy Warhol, Last SupperL’incontro con il tema di Cristo può essere considerato, a ragione, il compimento di una poetica ormai matura, che fonda le proprie radici, come affermava Richardson, nella religiosità popolare. Il lavoro su Leonardo, ad ogni modo, non si limita a riproporre, con qualche modifica, l’immagine del Cenacolo. Warhol usa come base per i dipinti un disegno trovato in un’enciclopedia ottocentesca, e per le serigrafie una riproduzione comprata in un negozio coreano di oggetti religiosi non distante dalla Factory. Nascono così The Last Supper (Wise Potato Chips), in cui sovrappone alla scena evangelica, per indicarne l’aura di saggezza (Wise), il logo a forma di occhio di una marca di patatine fritte. In The Last Supper (Dove), usa il logo del noto sapone e una colomba. Il riferimento, suggerisce la Dillenberger, è a un episodio particolarmente caro alla Chiesa orientale, quello del Battesimo al Giordano, in cui lo Spirito Santo discende su Gesù in forma di colomba. Sulla sinistra il prezzo “59¢”, a indicare che, come i prodotti di uso comune a buon mercato, Cristo si offre a tutti. E a destra il logo della General Electric, l’azienda che porta energia e luce in tutte le case degli americani.

Un altro ciclo di dipinti è intitolato Be Somebody with a Body (with Christ of the Last Supper), in cui la scritta che dà il titolo all’opera è stretta tra l’immagine di Gesù dell’ultima cena e un sorridente bodybuilder, vagamente somigliante a Warhol. Qui si innesca un cortocircuito tra l’esperienza dell’artista, che negli ultimi anni aveva iniziato a essere seguito da un personal trainer, e la figura di Cristo nell’atto di istituire l’Eucaristia. Così la frase del titolo «Sii qualcuno con un corpo» diventa una doppia preghiera, a se stesso e a Gesù: entrambi non possono restare anime disincarnate.

Monumentali e maestose sono le tre grandi serigrafie, sempre dedicate al quadro di Milano: quella rosa, quella camouflage e quella rossa. Ma forse l’immagine più sconvolgente è quella offerta da Christ 112 Times, in cui il Gesù di Leonardo viene ripetuto in modo ossessivo 28 volte su quattro ordini. Non è la prima volta che Warhol fa un’operazione simile. Ma qui diventa la maniera di rendere in immagine il modo in cui, certamente da bambino, Warhol era abituato a pregare. Tipica del cristianesimo orientale, infatti, è la giaculatoria: «Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore», che si ripete come un mantra decine e decine di volte: Gospodi pomilui.

Dell’ultimo periodo, poi sono anche due piccole opere, che riproducono le scritte: «Repent And Sin No More», (Pentiti e non peccare più), e «Heaven and Hell Are Just One Breath Away» (Paradiso e inferno sono a un respiro di distanza). E un piccolo e commovente Christ $9.98, un Gesù popolare davvero accessibile a tutti.

Se qualcuno avesse chiesto a Warhol perché dipingesse quei soggetti, si sarebbe limitato a un laconico: «Perché mi piacciono». Eppure il suo apparente distacco dalle cose e dai loro significati sembra essere contraddetto da una frase carpita da Pierre Restany, grande critico francese, che presenziò all’inaugurazione della mostra di Milano. «Fui sorpreso da quanto Andy mi disse quel giorno: “Pierre, pensi che gli italiani vedranno il rispetto che ho per Leonardo?», racconta il critico: «Consciamente o no, Warhol mi sembra aver agito come uno che ha cura di un capolavoro della cultura cristiana, preoccupato di continuare una tradizione di cui si sente parte».

Ditelo con parole semplici

Time is out of joint

Sono stato a Roma e ho visto “Time is out of joint” a La Galleria Nazionale e “Nuovi tempi, nuovi miti”, la Quadriennale al Palazzo delle esposizioni.
Sono mostre molto diverse e, per diversi aspetti, non sono paragonabili. Ma, a pensarci, dicono di che cosa significhi oggi fare il curatore.

Alla Quadriennale ho cercato di seguire, per ciascuna delle dieci sezioni firmate da altrettanti curatori, il filo del discorso: prima di entrare ho letto il titolo e il breve testo introduttivo e poi ho provato a ritrovare quanto annunciato nel dialogo tra le opere. Non sempre ci sono riuscito, per non dire quasi mai. Un po’ perché la lingua usata dai curatori era a dir poco ostica e impediva di capire qual era l’idea da ritrovare, un po’ perché non c’erano abbastanza elementi per leggere le opere più enigmatiche, un po’ perché era labile il legame tra idea curatoriale e opera.
Insomma: lo sforzo di entrare nel mondo mentale del curatore era tale che si arrivava stanchi per l’incontro con le opere. Esagero? Forse, sì. Ma forse anche no.

Quella de La Galleria Nazionale, che è tutt’altro tipo di sfida, mostra un altro lavoro curatoriale che però che è in grado di comunicare di più con il visitatore e che, alla fine, valorizza molto di più le opere. Il lavoro di Cristiana Collu e Saretto Cincinelli non dichiara temi o logiche di accostamento: è il visitatore che deve cercare di cogliere, se ci sono, i legami tra le opere. Soprattutto nelle prime due sezioni (nelle ultime due, il meccanismo è più rarefatto sembra), questo lavoro fa emergere parole semplici, che appartengono alla lingua comune. Si parla del mito e dei suoi modi di concepirlo (Canova-Twomby), si parla del ritmo delle campiture di colore (Pascali-Mondrian), il rapporto tra una foglia di fico e una foglia d’oro (Canova-Penone). Il finito blu del mare e l’infinito blu dell’infinito (Pascali-Klein). La solitudine e lo sguardo verso le stelle. E poi il paesaggio, il corpo, la sensualità. E poi la guerra, la retorica della guerra, il dolore della guerra, l’insensatezza della guerra. Poi c’è la pietà popolare, il groppo in gola dei migranti, la nostalgia davanti alle rovine della civiltà del passato. Dentro a questi nuclei tematici e poetici si è costretti a guardare e riguardare le opere e il rapporto tra loro.
Qui sto semplificando, per carità: quello messo in scena dalla Collu non è un giocattolino banale-banale, ma si pone questioni semplici e profonde usando parole semplici e profonde.

Ripeto: le due mostre sono imparagonabili, ma mostrano due approcci diversi di chi si pone il problema del dover presentare il lavoro degli artisti che, quando fanno bene il loro lavoro, non sono mai lontani dal sentire comune (nel senso più nobile del termine).

#cytombly e #pinopascali 32 metri quadrati di mare circa @lagallerianazionale #art #contemporaryart

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Un grande colpo con #GinoDeDominicis #PinoPascali @lagallerianazionale #art #contemporaryart

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#GiuseppeUncini #LucioFontana #AlberoBurri @lagallerianazionale #art #contemporaryart

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Grande #BelindeDeBruyckere @lagallerianazionale #art #contemporaryart

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Sophie Calle e il ritratto rubato di Francis Bacon (by Lucian Freud)

Sophie Calle Lucian FreudNella bellissima mostra curata da Thomas Deman alla Fondazione Prada intitolata L’image Volée (qui trovate la recensione di @robedachiodi) c’è un’opera che mi ha commosso in modo particolare. Si intitola Purloined, Francis Bacon’s Portrait ed è stata realizzata da Sophie Calle. Il protagonista dell’opera è un ritratto di Francis Bacon realizzato nel 1952 da Lucian Freud, di proprietà della Tate Britain e che è stato rubato nel 1988 alla Neue Nationalgalerie di Berlino. L’opera è composta da una fotografia del cassetto dove il quadro veniva conservato a Londra e dalla trascrizione delle testimonianze dei custodi della Tate che avevano “vissuto” accanto al ritratto. Il testo ricorda quello stile da “soliloquio collettivo” che abbiamo imparato a conoscere leggendo i libri di Svetlana Aleksievic, Premio Nobel 2015. Lineare, di una poesia struggente. Avrei voglia di tradurlo, ma, ahimè, ci vorrebbe il tempo che non ho. Ve propongo così come il mio iPhone l’ha fotografata (cliccare per ingrandire). È un breve saggio sulla pittura di Freud, sì. Ma anche sulla dimensione affettiva delle immagini e, forse, sulla centralità del volto di Bacon per l’immaginario del Novecento.

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Stelle incise sulla lavagna. Una mappa di Dario Goldaniga

Dario Goldaniga Mappa Stellare
Dario Goldaniga, Mappa Stellare, 2016

Ho visto Io sono qui, la bella mostra di Dario Goldaniga da Fabbrica Eos a Milano (fino al 4 maggio). Mi ha colpito molto la mappa celeste incisa sulle lavagne inutilizzate della scuola in cui Dario insegna da tanti anni (e dove ho avuto la fortuna di conoscerlo e frequentarlo quando ero studente).

Come spiega bene Ivan Quaroni nel testo che introduce la mostra, la lavagna è il luogo dove si è rappresentato il sapere in un continuo segnare e cancellare: parole e numeri scritti con la polvere di gesso che gli studenti hanno finito – chi più, chi meno, chi per nulla – per fissare nella memoria. Su queste superfici di ardesia si sono poggiati gli sguardi di centinaia di studenti. Goldaniga oggi sceglie queste pietre, di un colore che è un nero così particolare, per inciderci punti e linee che vanno a rappresentare una mappa del cielo. La mappa esposta da Fabbrica Eos (purtroppo non è quella della foto, ma l’idea è quella) è composta da nove lavagne dove, dice, ha segnato col trapano 67238 stelle.

È un’idea semplice che però, se ci pensate, dice molto di un modo di pensare all’insegnamento: è come se quella mappa fosse stata da sempre segnata su quelle lavagne e l’artista non ha fatto altro che portarla alla luce. Quel lavoro di comunicazione, a volte così prosaico, che alterna lo scrivere e il cancellare, quel continuo iniziare da capo, è come se fosse, in realtà, un tentativo di segnare percorsi che abbiano il respiro dell’infinito.

A questo proposito, mi è venuto in mente un testo letto qualche mese fa in occasione della mostra Proportio a Palazzo Fortuny a Venezia, nel quale Marina Abramovic parlava del suo rapporto con il cielo stellato. Eccolo:

Da bambina ero affascinata dal cielo notturno. Trascorrevo molte ore a guardarlo, specialmente quando in campagna non c’era la luna e le luci della città non interferivano con la visione delle stelle.

Quando viaggio, vado sempre in cerca di osservatori per vedere le stelle meglio e più da vicino. Guardo la Via Lattea, guardo stelle morenti che nemmeno esistono ma continuano a brillare, buchi neri, le comete e altro ancora.

Io non mi interrogo sull’universo in sé, mi domando cosa ci sta dietro. Nel 1969 ho fatto un disegno composto da puntini e il pubblico era invitato a unirli, come voleva. Ogni persona creava il proprio viaggio nell’universo, e le tracce di quel percorso erano descritte dai tratti con cui le persone completavano il mio disegno.

Riconsiderando quell’opera dei miei inizi, trovo ancora in me la stessa domanda senza risposta: cosa c’è dietro a tutto questo? C’è uno scopo più elevato dietro all’ordine e alle proporzioni che governano l’universo? E qual è il posto degli esseri umani all’interno di questo ordine?

Dopo aver riflettuto, vorrei proporre un’istallazione in cui il pubblico può compiere un viaggio mentale nell’universo.

Una foto pubblicata da veronica cestari (@veronica.cestari) in data:

Una foto pubblicata da veronica cestari (@veronica.cestari) in data:

Ho visto Ida nella Camera della Badessa in San Paolo

Correggio, Giunone Punita, Camera della Badessa in San Paolo, Parma
Correggio, Giunone Punita, Camera della Badessa in San Paolo, Parma

Nel giro di poche ore ho visto Ida, il film del 2013 di Paweł Pawlikowski, Premio Oscar per il miglior film straniero nel 2015, e la Camera della Badessa in San Paolo di Correggio a Parma.

Le due opere non hanno nulla a che vedere una con l’altra. A parte che quella di Correggio è realizzata per una suora e quella di Pawlikowski, invece, parla di una giovane suora. Ma non è questo è che mi interessa. A me interessa il tema del bianco e nero.

Nella parte bassa del soffitto dell’ex convento di Parma, Correggio inserisce una serie di sedici meravigliose lunette monocrome. Il pittore simula un’illuminazione dal basso che proietta l’ombra delle figure sullo sfondo della finta nicchia, creando una perfetta illusione di profondità. Il bianco e nero di Correggio è molto chic. Si può dire: “color perla”?

Forse è stata la meravigliosa Giunone Punita a ricordarmi l’esile figura di Agata Trzebuchowska. Uno strano cortocircuito, lo ammetto.

In ogni caso il film di Pawlikowski è un’esperienza estetica molto intensa. La fotografia, curata da Ryszard Lenczewski Łukasz Żal è magistrale e si è guadagnata la nomination agli Oscar. Il bianco e nero è pieno, corposo. Ricchissimo lo spettro dei grigi. Elegante e mai retorico.

Recensendo il film David Denby del New Yorker ha scritto:

I can’t recall a movie that makes such expressive use of silence and portraiture; from the beginning, I was thrown into a state of awe by the movie’s fervent austerity

Ecco, forse è l’espressione “fervente austerità” ad accomunare Ida alle lunette di Correggio. Fervente e austera è anche Naima di John Coltraine che Felix, il giovane sassofonista del film, suona per Ida.

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