Il 2012 ricorreranno, tra l’altro, i cento anni dalla nascita di William Congdon, il giovane pupillo di Betty Parson e Peggy Guggenheim, che decise di lasciare la promettente carriera di action painter (negli anni ’50 la Parson lo quotava di più di Jackson Pollock) per ritirarsi in Italia, trascorrendo gli ultimi trent’anni della vita occupando un appartamento attiguo al Monastero della Cascinazza a Gudo Gambaredo, nella Bassa Milanese.
Ricordato forse troppo per la sua conversione al cattolicesimo e certamente troppo poco per la sua straordinaria energia creativa e abilità pittorica, a Congdon sarà dedicata una mostra al Knights of Columbus Museum di New Haven (Connecticut) intitolata “The Sabbath of History: William Congdon” (dal 22 febbraio al 16 settembre 2012). Alle opere più famose del pittore americano saranno accostate cinque meditazioni dell’allora cardinal Ratzinger sulla Settimana Santa. Nulla si può dire sulla qualità della mostra, tuttavia lascia perplessi la scelta della sede espositiva. Possibile che nessun grande museo tra quelli che conservano opere di Congdon fosse disposto a promuovere una retrospettiva su di lui? Peccato, poi, che nessuno a Venezia interessi più il giudizio dato su di lui da Peggy Guggeheim quando diceva: “William Congdon è l’unico pittore, dopo Turner, che ha capito Venezia, il suo mistero, la sua poesia, la sua passione”.
Ho sempre pensato che il miglior Congdon fosse proprio quello delle Venezie. Eppure frequentando negli ultimi tempi i luoghi dove ha vissuto mi sono accorto, a dispetto delle apparenze, della carica addirittura iperrealista delle sue opere sulla Bassa milanese. Basti confrontare alcuni quadri e la cromia delle immagini satellitari della zona di Gudo.
In 2012 marks, among other things, centenary of the birth of William Congdon, the young protégé of Betty Parsons and Peggy Guggenheim, who decided to leave a promising career as action painter (Parson in the 50s sells him at higher prices compared to Jackson Pollock) and retired to Italy, spending the last thirty years of life, occupying an apartment next to the Monastery of Cascinazza in Gudo Gambaredo in the countryside around Milan.
Recalling perhaps too much for his conversion to Catholicism, and certainly too little for his extraordinary creative energy and artistic ability, Congdon will be devoted to an exhibition at the Knights of Columbus Museum in NewHaven (Connecticut) entitled “The Sabbath of History: William Congdon” (from 22 February to 16 September 2012). The most famous works of American painter will put together five of the then Cardinal Ratzinger’s Meditations on the Holy Week. Nothing you can say now about the quality of the exhibition, however perplexing the choice of venue. Is it possible that any large museum that houses works from those of Congdon was willing to promote a retrospective on him? Pity, then, that no more interest in Venice about what Peggy Guggenheim said about him: “William Congdon is the only painter, after Turner, who understood Venice, its mystery, its poetry, his passion“.
I always thought that the best works were the pictures of Venice. Yet in recent years, by attending the places where he lived, I realized, in spite of appearances, even the charge of hyper-realism in works about the countryside. Just compare some Congdon’s paintings and the colors of the satellite imagery of the area of Gudo.
Cara Befana,
visto che l’anno scorso Babbo Natale non mi ha dato retta mi rivolgo a te. Gesù Bambino quest’anno, indipendentemente dal fatto che sia stato buono o cattivo, mi porterà una nuova città, un nuovo lavoro e una nuova casa. Che un neonato sia già così capace di leggere nel cuore di un adulto, ammetterai, è una cosa dell’altro mondo. So dunque che chiedere di più sarebbe difficile. Ma siccome a me piacciono le sfide, ci provo. Cara Befana, hai tempo fino al sei gennaio per portarmi almeno uno dei doni che elenco qui sotto. Se non arriva nulla convinco Mario Monti ad aumentare anche il bollo per le scope volanti.
Buon Natale,
tuo Luca
1) Georg Immendorf, Untitled, 2006, 250x300cm
2) Andy Warhol, Modern Madonna, 1981*
* Il riflesso non fa parte dell’opera
3) Ryan McGinley, Knotty Pine, 2011
Dear Befana,
considered that last year Santa did not give me straight, I turn to you. Baby Jesus this year, regardless of whether I was good or bad, He will bring me a new city, a new job and a new home. It is something out of this world that a baby is already able to read in the heart of an adult, isn’t it? So it would be difficult to ask for more. But because I like challenges, I try. Dear Befana, you have unti lJanuary 6 to take me at least one of the gifts that I list below. If you do not get anything, I will convince Mario Monti to increase the stamp duty on flying broomsticks.
Merry Christmas,
Della mostra di Anselm Kiefer, “Il Mistero delle Cattedrali” (nella sede di White Cube di Bermondsey St. fino al 26 febbraio 2012) è difficile parlare male. Il fascino di queste opere, forse, risiede nell’assoluto equilibrio tra pensiero e materialità. Culto misterico e concretezza degli oggetti e dei materiali. Qui Kiefer non gioca sulla sorpresa (è il Kiefer visto già a Venezia ai Magazzini del Sale, ma non solo) ma sullo stupore e la monumentalità. Complici gli spazi – da sballo – della nuova galleria di Jay Joplin l’artista tedesco toglie il fiato con paesaggi immensi e tridimensionali. Che il “mistero” delle cattedrali sia proprio la loro capacità di aprire spazi infiniti?
Nota di merito va alla cosiddetta galleria 9x9x9, fisicamente un cubo bianco dal lato di 9 metri, dove Kiefer piazza la sua “Sprache der Vögel” (1989) che sempra essere stata pensata apposta per quello spazio (le foto non danno la men che minima idea).
It is difficult to speak badly about Anselm Kiefer’s exhibition “The Mystery of the Cathedrals” (White Cube, Bermondsey Street, until Feb. 26, 2012) . The charm of these works, perhaps, lies in the absolute balance between thought and materiality. Mystery cult and concreteness of objects and materials. Kiefer does not play here on surprise (we have already seen the same Kiefer in Venice at Magazzini del sale, but not only) but on wonder and monumentality. Accomplices spaces – rocking – of Jay Joplin’s new gallery, the German artist takes your breath away with huge, three-dimensional landscapes. Is the “mystery” of the cathedrals precisely their ability to open infinite space?
Attention should be given to the so-called 9x9x9 gallery, a real white cube with a 9 meter side, where Kiefer places his “Sprache der Vogel” (1989), which seems have been specifically designed for that space (the photos do not give less than minimum idea).
Settimana scorsa sono stato un giorno a Londra con Robe da Chiodi e Davide per vedere la mostra di Leonardo alla National Gallery, Kiefer da White Cube e rivedere Richter alla Tate.
Sulla mostra di Leonardo ha già scritto bene Robe da Chiodi e io non saprei aggiungere altro. Ecco, forse aggiungerei un grazie ad Arturo Galansino, uno dei curatori della mostra, che ha avuto la pazienza di accompagnarci tra le sale. Una delle cose più interessanti che ci ha raccontato è stata la pressione “politica” che talvolta ha percepito riguardo alcune opere che doveva schedare. Un aggettivo o un avverbio che metta in dubbio un’attribuzione a Leonardo può costare milioni di euro. Dico poi una cosa molto banale: al di là di tutti i difetti che può avere, una mostra del genere (irripetibile, probabilmente) costringe a mettere alla prova il pregiudizio positivo che si ha verso il genio di Leonardo. O meglio: riempire il pregiudizio positivo che ci portiamo dietro con un contenuto non frammentario. È facile infatti accostarsi a questi quadri sapendo già che sono capolavori, altra cosa è guardarli davvero lasciandosi stupire dalla loro – oggettiva – bellezza.
Last week I was one day in London with Robe da Chiodi and Davide to see Leonardo at the National Gallery, Kiefer at White Cube and to see againg Richter at Tate Modern.
On the exhibition of Leonardo Robe da Chiodi has already written and I can not say more. Here, perhaps, I would thank Arturo Galansino, one of the curators of the exhibition, which has had the patience to accompany us through the halls. One of the most interesting things he told us was the “politics” pressure that sometimes he felt writing about some works. An adjective or adverb that puts into question an attribution to Leonardo can cost millions of euros. Then I say something very trivial: beyond all the defects that may have an exhibition of its kind (unique, probably), it forces us to test our positive prejudice towards the genius of Leonardo. Or rather, it forces us to fill the positive prejudice that we carry with us with a unfragmented content. It is easy to approach these paintings already knowing they are masterpieces, different is really watching them and being amazed by their surprising beauty.
Gerhard Richter ha realizzato tre quadri che raffigurano la sua prima figlia Babette, detta Betty. I primi due sono del 1977, mentre l’ultimo del 1988. Il più famoso e il più amato è certamente il terzo (qui Robe da Chiodi ne propone un’interpretazione tanto audace e affascinante quanto legittima). Qui sotto li ripropongo in serie con i rispettivi fogli di Atlas che riportano le fotografie dai quali sono stati tratti. Il primo e il terzo sono esposti, ma in sale diverse, nella mostra “Panorama”, ora a Londra, poi a Berlino e Parigi (ne ho già scritto qui). Vederli così vicini fa un certo effetto. Non so spiegare quale, a dire il vero. Posso dire però due cose. La prima è che si vede in tutti e tre lo sguardo di un padre. Ciascuno esprime un sentimento diverso con il quale, immagino, un padre sia confrontato. La seconda è che Richter usa (sono tentato di dire “inventa”) tre differenti modi nuovi di realizzare un ritratto. Io dico che il più difficile da sostenere è il primo, non solo perché siamo confrontati con lo sguardo diretto di Betty. Sul terzo, quello famoso, riporto un brano del bel saggio di Achim Borchardt-Hume nel catalogo della mostra (p. 164):
In marked contrast, Betty, is resolutely looking back, albeit with the strong implication that she will soon be looking forward. The painting exudes a deep sense of nostalgia. Richeter’s adolescent daughter turns away from her father’s attempt to freeze her appearance with his camera. By extension, she also turns away from the present-day viewer. The typical Richter blur softens the painting’s photorealism and heightens the motif’s romantic aura (not unlike a photograph taken with a soft-focus lens). At the same time, it mimics the temporality oh photography, which, as Roland Barthes so aptly demonstrated, always entails a sense of loss, if not death, of something irretrievably gone.
Gerhard Richter has created three paintings depicting her first daughter, Babette, said Betty. The first two are from 1977, while the last of 1988. The most famous and most popular is certainly the third (here Robe da Chiodi proposes an audacious and fascinating interpretation of it). Here I show theme together with the respective sheets of Atlas from which the photographs were taken. The first and the third are on display, but in different rooms, in the show “Panorama”, now in London, then in Berlin and Paris (I’ve already written about here). Seeing them so close together makes a certain effect. I can not explain that, actually. But I can say two things. The first is that in all three we can see the gaze of a father. Each expresses a different feeling with which, I imagine, a father is compared. The second is that Richter uses (I’m tempted to say “invented”) three different new ways to paint a portrait. I say the more difficult to sustain is the first, not only because we are faced with the direct gaze of Betty. About the third, the famous one, I carry a piece of the beautiful essay by Achim Borchardt-Hume in the exhibition catalog (p. 164):
In marked contrast, Betty, is resolutely looking back, albeit with the strong implication that she will soon be looking forward. The painting exudes a deep sense of nostalgia. Richeter’s adolescent daughter turns away from her father’s attempt to freeze her appearance with his camera. By extension, she also turns away from the present-day viewer. The typical Richter blur softens the painting’s photorealism and heightens the motif’s romantic aura (not unlike a photograph taken with a soft-focus lens). At the same time, it mimics the temporality oh photography, which, as Roland Barthes so aptly demonstrated, always entails a sense of loss, if not death, of something irretrievably gone.
Nel numero di novembre della rivista Tracce, ho scritto questo articolo sulla grande mostra su Leonardo pittore in corso alla National Gallery di Londra.
Una mostra solo di quadri di Leonardo da Vinci non l’avete mai vista. Perché? Semplice: negli ultimi settant’anni nessuno è mai riuscito a farla. Ce l’ha fatta quest’anno la National Gallery di Londra che fino al 5 febbraio propone una retrospettiva sugli anni milanesi del genio italiano intitolata “Leonardo da Vinci, pittore alla corte di Milano”. I presititi sono da capogiro, tanto che per la prima volta nella storia verrranno esposte insieme le due versioni della “Vergine delle rocce”, quella del museo londinese e quella del Louvre. Un evento come quello di Londra sarebbe stato l’occasione per fare un punto sullo stato della ricerca su uno degli snodi decisivi della storia dell’arte del Rinascimento. A ridosso della mostra, tuttavia, uno dei maggiori studiosi di Leonardo, il professore padovano Alessandro Ballarin, ha pubblicato un’opera monumentale (quattro volumi per un totale di 1392 pagine di testo e altre 1389 di immagini a colori e in bianco e nero) intitolata, guarda caso, proprio “Leonardo a Milano”. Ballarin ha lavorato a quest’opera negli ultimi quindici anni riscandagliando i pochi documenti a disposizione degli storici e proponendo nuovi scenari e soluzioni a molti problemi che restano ancora aperti, ma soprattutto proponendo interpretazioni di opere con le quali nessuno aveva mai osato confrontarsi. L’esempio delle due versioni della “Vergine delle rocce”, sui cui ruota tutta la mostra di Londra, è emblematico. Ballarin non concorda affatto con quanto i curatori inglesi sostengono sulla storia delle due opere e propone una lettura assolutamente inedita del loro significato.
Secondo la mostra di Londra la “Vergine delle rocce” conservata al Louvre è stata la prima ad essere realizzata. Dipinta tra il 1483 e il 1486 e sarebbe stata dipinta per la cappella della Confraternita dell’immacolata concezione nella chiesa francescana di San Francesco Grande (nei pressi dell’attuale università Cattolica e abbattuta agli inizi dell’800). Dopo una controversia sui pagamenti, Leonardo avrebbe venduto questa versione e successivamente realizzato quella della National Gallery attorno al 1490 per sotituire la prima nella cappella della confraternita. Leonardo ricorre al tribunale di Milano perché la Confraternita francescana non avrebbe finito di pagare l’opera. Secondo i documenti dell’epoca la confraternita, da parte sua, sosteneva che il pagamento non era stato completato dal momento che l’opera non era considerata finita. Ma se le cose stessero così, come avrebbe fatto Leonardo a rivendere un’opera non terminata? E poi: se la seconda versione avrebbe dovuto sostituire la prima nella complessa ancona di San Francesco, perché le due tavole hanno misure diverse? Infine: perché l’artista avrebbe deciso di modificare la composizione della seconda versione anziché farne una replica fedele?
Ballarin dice: la prima tavola, quella del Louvre, non fu affatto realizzata per San Francesco, ma si tratta di un’opera dipinta nei primi anni del suo soggiorno milanese. Si tratterebbe di un “biglietto da visita” per il suo nuovo signore, Ludovico il Moro, pensato per l’abside della cappella palatina di San Gottardo in Corte, la chiesa che ancora oggi si trova dietro al Palazzo reale a Milano. Questa chiesa era stata costruita dallo zio del Moro, Azzone Visconti, e la sua struttura originale replicava, nell’abside, la pianta ottagonale del battistero di San Giovanni ad Fontes (quello maschile, dove Ambrogio aveva battezzato Agostino) e che era stato sacrificato per il cantiere del nuovo Duomo. Sembra quindi che nelle intenzioni di Azzone San Gottardo doveva diventare una nuova “ecclesia fontis”. Contemporaneamente, però, la chiesa era anche dedicata all’Immacolata Concezione, culto che era stato diffuso in Italia e in particolare a Milano dai francescani. Una pala d’altare per quella chiesa avrebbe quindi dovuto far convivere il tema del battesimo di Gesù e quello dell’Immacolata. E, a ben vedere, la “Vergine delle rocce” del Louvre sembra essere in grado di rispondere a questa difficile esigenza.
Leonardo, infatti, sceglie di partire da antiche tradizioni apocrife sulla vita del Battista che raccontavano che al ritorno dall’Egitto, Gesù e la Madonna si fossero recati a trovare il cugino Giovanni il quale invece aveva trovato rifugio dalla persecuzione di Erode in una grotta, che si era aperta miracolosamente dopo le preghiere di Elisabetta. Era una grotta che permetteva di vedere all’esterno senza esser visti: infatti nel quadro di Leonardo si scorge il magnifico paesaggio in cui scorre il Giordano. In quell’occasione, dicono gli apocrifi, Gesù rivela a San Giovannino il destino di entrambi. L’angelo a destra trattiene Gesù sul ciglio di una pozza d’acqua e, allo stesso tempo, volgendosi verso di noi attira la nostra attenzione con il dito puntato verso il Battista il quale è abbracciato dalla Vergine. Dice Ballarin: «Sul primo piano la pozza allude alla fons, alla vasca battesimale, alla promessa del battesimo di Cristo nelle acque del Giordano; la mano della Vergine è sollevata sopra la testa del figlio in segno di protezione al destino della passione del figlio. (…) La Vergine è colei che adotta il Precursore del figlio, ma è anche colei che teme per le sorti del figlio, che vive, nell’incontro dei due piccoli, la premonizione della passione del figlio, grazie alla quale la salvezza sarà restituita al mondo. Ella presiede all’incontro, lo patrocina; ella conosce il disegno divino, anzi ne è lo strumento; ella è colei che sa. Voglio dire che in questo quadro alla Vergine viene assegnato un ruolo centrale nel compiersi del disegno divino, nella redenzione dell’umanità attraverso l’incarnazione ed il sacrificio di Cristo».
Nulla di simile si era ancora visto: non a Firenze, e neppure a Milano. Un’immagine del genere ha una coloritura tutta francescana, impensabile senza tener conto della nuova sensibilità per il culto mariano frutto dell’accesissimo dibattito che i frati minori, guidati da Francesco della Rovere, generale dell’ordine e poi papa con il nome di Sisto IV, conducono contro i domenicani per l’affermazione della dottrina del concepimento immacolato della Vergine. E proprio Milano era uno dei fronti più accesi di tale disputa. Dice ancora Ballarin: «Si potrebbe dire che Leonardo ha inteso significare il concepimento immacolato della Vergine, la sua natura di creatura immacolata concetta, attraverso il ruolo che Dio le ha dato di corredentrice: quello che i teologi francescani di oggi direbbero il privilegio della corredenzione, cioè della cooperazione della Vergine nell’opera salvifica di Cristo, come prova del suo essere stata concepita senza peccato originale».
Solo cogliendo queste implicazioni teologiche possiamo comprendere l’interesse dei francescani milanesi per un tipo di immagine come quella del Louvre. È così molto probabile che colta la genialità della prima “Vergine delle rocce” – che a noi oggi appare sfumata perché non più partecipi della sensibilità dei contemporanei di Leonardo – la Confraternita dell’Immacolata Concezione abbia deciso di commissionare a Leonardo una nuova immagine che, partendo dalla struttura della prima, si concentrasse solo sul tema che stava loro a cuore. A quel punto a Leonardo non rimane che emendare la prima e acrobatica ingegneria iconografica dai riferimenti diretti al tema del battesimo. Nella tavola conservata alla National Gallery, dunque, non vengono riprodotti la pozza d’acqua in primo piano e il dito dell’angelo che indica San Giovannino. Gesù, il Battista, l’angelo e la Vergine qui formano una sorta di piramide che ha il suo fulcro proprio nella figura di Maria, imponente e matura, diversa dalla giovinetta fragile della prima versione. «Quella Vergine di Leonardo – scrive Ballarin – determinata nei gesti, sicura del proprio agire, ma fragile nei sentimenti, è veramente l’annunzio, il battesimo, di una nuova èra mariologica, aperta, in modi e tempi diversi, da due francescani, Giovanni Duns Scoto e Francesco Della Rovere». Lo studioso padovano arriva a dire che se il Medioevo è stato un periodo cristologico, soprattuto nei secoli XIII e XIV, la prima parte del Rinascimento è stata tutta per la Madonna. Forse, anche se furono anni difficili, Maria andava ad assumere un ruolo sempre più importante come madre del popolo cristiano.
You have never seen an exhibition with only pictures by Leonardo da Vinci. Why? It’s simple. In the past 70 years, no one has managed to organize one. This year, London’s National Gallery has managed it. From November 9th to February 5th, it proposes a review of the Italian genius’ Milanese years, entitled, “Leonardo da Vinci: Painter at the Court of Milan.” The list of loans is breathtaking. The two versions of Leonardo’s Virgin of the Rocks, belonging to the National Gallery and the Louvre, are shown together for the first time. An event of this kind could be the occasion for an update on the research on one of the crucial nodes of the history of Renaissance art. Alongside the exhibition, one of the greatest experts on Leonardo, Professor Alessandro Ballarin, from Padua, has published a monumental work (four volumes–1, 392 pages of text and 1, 389 pages of photographs) entitled, “Leonardo in Milan.” Ballarin worked on this book over the past 15 years, sifting through the few documents available to historians and proposing new scenarios and solutions to many questions still open but, above all, proposing interpretations of works that no one up to now dared to analyze. The example of the two versions of the Virgin of the Rocks, around which the whole London exhibition gravitates, is emblematic. Ballarin is not in fact in agreement with what the curators of the English exhibition maintain about the history of the two works and proposes a totally new interpretation.
According to the London experts, the version of the Virgin of the Rocks preserved in the Louvre was the first to be made. Painted between 1483 and 1486, in their view it was painted for the oratory of the Confraternity of the Immaculate Conception in the Franciscan church of San Francesco in Milan (near what is now the Catholic University, and demolished in the early 1800s). After an argument over payment, Leonardo is said to have sold this version and successively (around 1490) painted what is now in the National Gallery to replace that in the oratory of the Confraternity. Leonardo had recourse to the Milan Tribunal claiming that the Confraternity had not finalized payment for the work. According to the documents of the time, the Confraternity maintained that payment was not finalized because the work was not considered completed. But if this were the case, how could Leonardo have sold an unfinished work? And then, if the second version was to replace the first in the complex altarpiece of San Francesco, why are the two panels of different sizes? Lastly, why would the artist have decided to alter the composition of the second version instead of making an exact copy?
The well and the fons. Ballarin says, “The first panel, that of the Louvre, was not in fact painted for San Francesco, but is a work painted during the first years of his sojourn in Milan. It would have been a ‘calling card’ for his new patron, Ludovico il Moro, destined for the apse in the palatine chapel of San Gottardo in Corte, the church that can still be found behind Milan’s Palazzo Reale. This church had been built by Ludovico’s uncle, Azzone Visconti, and its original structure was a replica, in the apse, of the octagonal plan of the baptistery of San Giovanni ad Fontes (for males, where Ambrose baptized Augustine) and had been sacrificed for the building of the new Duomo. It would seem, then, that Azzone’s intention was for San Gottardo to become a new Ecclesia Fontis.”
At the same time, though, the Church was dedicated to the Immaculate Conception, a cult spread in Italy and particularly in Milan by the Franciscans. An altarpiece for that church would therefore have been required to combine the theme of the Immaculate Conception with that of the Baptism of Jesus. The Louvre version of the Virgin of the Rocks would therefore correspond to these complex requirements.
As it was, Leonardo chose to begin from ancient apocryphal prophecies about the life of the Baptist, which tell that, on their return from Egypt, Jesus and Our Lady went to see their cousin, John, who had taken refuge from Herod’s persecution in a cave that opened miraculously thanks to the prayers of Elizabeth. It was a cave that allowed those inside to see out without being seen. In fact, in Leonardo’s painting we get a glimpse of the countryside with the Jordan passing though. The apocryphal stories say that on that occasion, Jesus revealed to John both their destinies. The angel holds Jesus near the edge of a well and, at the same time, looking towards us, guides our attention with his finger pointed towards the Baptist who is embraced by the Virgin. Ballarin says, “In the foreground, the well alludes to the fons, to the baptismal font, to the promise of the Baptism of Christ in the waters of the Jordan; the Virgin’s hand is raised above her Son’s head as a sign of protection in His destiny of the Passion. …The Virgin is she who adopts her Son’s precursor, but also she who fears for the fate of her Son, and who lives, in the meeting of the two children, the premonition of her Son’s Passion, thanks to which salvation will be restored to the world. She presides over the meeting, promotes it; she knows the divine plan, she is its instrument; she is she who knows. I want to say that in this painting, the Virgin is assigned a central role in the fulfilling of the divine plan, in the redemption of mankind through the incarnation and the sacrifice of Christ.”
The dispute. Nothing of its kind had been seen before–not in Florence, nor in Milan. This image has a coloring wholly Franciscan, unthinkable without taking into account the new sensitivity for the Marian cult, fruit of the intense dispute between the Friars Minor–led by Francesco della Rovere, General of the order and later Pope by the name of Sixtus IV–and the Dominicans, so as to affirm the doctrine of the Immaculate Conception of Our Lady. Milan was one of the hot spots in this dispute. Once again, Ballarin says, “We could say that Leonardo intended to mean the Immaculate Conception of the Virgin, her nature as a creature conceived immaculately, through the role God gave her of Co-redemptrix–what today’s Franciscan theologians would call the privilege of co-redemption, that is, of the Virgin’s cooperation in Christ’s salvific work, as the proof of her being conceived without original sin.”
Only if we grasp these theological implications can we understand the interest of the Milanese Franciscans in an image like that of the Louvre. Thus, it is highly probable that, having grasped the genius of the first Virgin of the Rocks–which for us today seems obscure because we no longer share the sensitivity of Leonardo’s contemporaries–the Confraternity of the Immaculate Conception decided to commission from Leonardo a new painting that, starting off from the structure of the first would concentrate only on the theme they had at heart. At that point, all Leonardo had to do was to purge that first, acrobatic iconographic engineering of direct references to the theme of Baptism. In the panel preserved at the National Gallery, therefore, there is no trace of the well in the foreground, or the angel’s finger pointing to St. John. Jesus, the Baptist, the angel, and the Virgin here form a sort of pyramid that has its fulcrum in the figure of Mary, imposing and mature, different from the frail little girl of the first version. “The Virgin of Leonardo,” writes Ballarin, “determined in her gestures, sure of her own action, but frail in her feelings, is truly the announcement, the Baptism, of a new era in Mariology, opened, in different ways and times, by two Franciscans, John Duns Scotus and Francesco Della Rovere.” The Paduan scholar goes as far as to say that if the Middle Ages was a Christological period, above all in the 13th and 14th centuries, then the first part of the Renaissance was all for Our Lady. Perhaps, even though they were difficult years, Mary went to take up a more and more significant role as Mother of the Christian People.
Ieri, in contemporanea con l’assegnazione del prestigiosissimo Flower Prize 2o11, si è svolta anche la premiazione del Turner Prize. Ha vinto l’artista scozzese Martin Boyce (anche l’anno scorso ha vinto un’artista scozzese: Susan Philipsz). Complimenti. Qui sotto un’immagine della sua istallazione:
Mi ha incuriosito la reazione dei due critici del Guardian: quella entusiasta di Adrian Searle e quella inviperita di Jonathan Jones. Searle definisce il lavoro Boyce “un’istallazione bellissima e sorprendente”, un inno alla purezza modernista. Jones, invece, si dice proprio incazzato per la sconfitta del pittore George Shaw, il suo preferito, e arriva a dire: “Per il mondo dell’arte respingere Shaw è una confessione della propria superficialità”. E continua: “È come se i giudici abbiano voluto dimostrare che Charles Saatchi ha ragione quando dice che c’è qualcosa di storto nel mondo dell’arte. La loro decisione di non far vincere il grande George Shaw è una rivelazione inquietante di quanto il panorama artistico britannico si sia allontanato dal vero cammino di profondità morale ed emotiva. Pochissimi artisti negli ultimi anni hanno affrontato così potentemente sentimenti così profondi ed enigmatici. Pochissimi hanno lavorato su un livello umano così diretto. Il verdetto? Lui è un “conservatore””.
Allora: se Jonathan Jones non fosse stato già membro della giuria del Turner Prize, nel 2009, avrei liquidato la faccenda sotto la voce “Jean Clair e affini”. Eppure no so davvero. Guardando le immagini delle opere di Shaw, non so cosa pensare. Voi cosa ne dite?
Clicca per ingrandire le immagini.
Urs Fischer won the Prize Flower 2011. Martin Boyce won the Turner Prize 2011. Congratulations. Below a picture of his installation:
I was curious about the reaction of two critics of the Guardian: one excited by Adrian Searle and the furious one by Jonathan Jones. Searle defines Boyce’s work “a beautiful and unexpected installation” and says “his art is a sort of elegy to modernist purity”. Jones, however, says just pissed off about the defeat of the painter George Shaw, his favorite, and he even says: “For the art world to spurn Shaw is a confession of its own shallowness”. And he continues: “It is as if the judges wanted to prove Charles Saatchi right that something is awry in the house of Art. Their second-besting of the great George Shaw is a disturbing revelation of how far the British art scene has strayed from the true path of moral and emotional depth. Very few artists in recent years have so powerfully dealt with deep, enigmatic feeling. Very few have worked on such a direct human level. The verdict? He’s a “conservative””.
So, if Jonathan Jones had not already been a jury member of the Turner Prize in 2009, I would dismissed the matter under the heading “Stuckism”. But I don’t really know. Looking at the images of the works of Shaw, I do not know what to think. What do you say?
Il vincitore del “Flower Prize 2011” è Urs Fischer con l’opera “Untitled”.
Motivazione della giuria:
«Exegi monumentum aere perennius». Ho eretto un monumento più duraturo del bronzo (Orazio). Urs Fischer qui fa l’esatto contrario : realizza un monumento destinato a scomparire e non lasciare traccia. A sciogliersi non è solo l’arte del Giambologna, ma con lei si dissolve anche lo spettatore. Forse è l’attestazione di una resa, la pretesa che l’arte non sia più in grado di gettare un ponte al di là della morte e, forse, neppure oltre l’istante. La tirannia del tempo sembra avere la meglio e l’arte, così come l’uomo, si liquefà tornando allo stato di massa informe. «Cenere eri e cenere ritornerai». Un memento mori per l’uomo e per l’artista. Se neanche l’arte dura, che cosa dura veramente? Urs Fischer ci lascia con l’inquietudine di chi sa che i conti non tornano. Eppure davanti a quella colata a noi rimane come una certezza : quell’immagine si fisserà dentro di noi in modo indelebile. Per sempre.
Venerdì 16 dicembre alle 16.00 al Bar Genzana di Via San Gottardo a Lugano ci sarà la consegna del premio (un assegno di 13,5 Franchi svizzeri).
The winner of the “Flower Prize 2011” is Urs Fischer‘s work “Untitled”
Jury motivation:
«Exegi monumentum aere perennius». I erected a monument more lasting than bronze (Horace). Urs Fischer here is the exact opposite: it creates a monument destined to disappear and leave no trace. Giambologna’s art melts and the viewer dissolves. Perhaps it is the declaration of surrender, the claim that art is no longer able to build a bridge beyond death, and perhaps even beyond the moment. The tyranny of time seems to win and the art, just as man, melts back to the state of mass. “You were ashes and ashes you shall return”. A memento mori for the man and the artist. Even if the art doesn’t last, what will really last? Urs Fischer leaves us with the anxiety of knowing that does not add up. Yet we remain ahead of the casting with a certainty that image becomes fixed within us indelibly. Forever.
Mentre la Tate Modern celebra Gerhard Richter, Charles Saatchi fa la sua mostra dedicata all’arte contemporanea tedesca: “Gesamtkunstwerk, New art from Germany”. Quello tra Saatchi e la Tate è un duello che dura ormai da due decenni e, secondo Jackie Wullschlager del Financial Times, ha visto il primo avere la meglio sulla seconda (Io non ne sono convinto: con la nascita della Tate Modern le cose sono cambiate).
La cosa curiosa è che tra gli artisti scelti dal collezionista c’è anche Isa Genzken, la seconda moglie di Gerhard Richter (si sposarono nel 1982 e divorziarono nel 1995). Isa Genzken non è un’artista qualunque (nel 2007 rappresentò la Germania alla Biennale di Venezia), ma mi sembra evidente che non regga in nessun modo il confronto con l’ex marito. Qui alcune immagini esposte alla Saatchi Gallery.
While the Tate Modern celebrates Gerhard Richter, Charles Saatchi makes his German contemporary art exhibition: “Gesamtkunstwerk, New Art from Germany”. The relationship between Saatchi and Tate is a battle that has lasted two decades and, according to Jackie Wullschlager in the Financial Times, saw the first win over the second (I am not convinced with the birth of the Tate Modern things have changed).
The curious thing is that among the artists chosen by the collector is also Isa Genzken, Gerhard Richter’s second wife (they married in 1982 and divorced in1995). Isa Genzken is not any artist (in 2007 represented Germany at the Venice Biennale), but it seems clear that in any way she doesn’t stand the comparison with ex-husband. Here are some pictures exhibited at the Saatchi Gallery.
Eccoci qui con la terza edizione del prestigiosissimo Flower Prize. Nelle scorse settimane in molti hanno tradito impazienza nell’attesa della pubblicazione della lista dei finalisti di quest’anno. Dopo le prime due fortunate edizioni, vinte da Marc Quinn e Julia Krahn, il mondo dell’arte contemporanea vede nel Flower Price un indiscusso punto di riferimento per capire da che parte sta andando l’arte di oggi.
L’edizione di quest’anno alla formula ormai collaudata (entrano nella short list singole opere realizzate nell’anno in corso e viste di persona dal titolare di NONAME e il vincitore è decretato insidacabilmente dal titolare di NONAME) aggiunge novità eletrizzanti. La prima è che i lettori potranno tentare di condizionare la scelta del vincitore commentando questo post cercando di motivare la loro scelta. È una sorta di televoto in stile reality show, con la differenza che il parere del pubblico è squisitamente consultivo e non vincolante per la giuria di qualità. La seconda e più importante novità è che il parere della giuria potrà essere condizionato anche da tentativi di corruzione da parte degli artisti che potranno contattare il titolare del blog per tentare comprare la sua corruttibilità. In questo senso, a dispetto del nome del premio, il motto sarà: niente fiori ma opere di qualità.
Il vincitore sarà proclamato il 5 dicembre.
Ed eccoci alla short list 2011:
1) ANISH KAPOOR CON LEVIATHAN
2) ANDREA MASTROVITO CON FAMILY MATTERS
3) URS FISCHER CON UNTITLED
4) ELMGREEN & DRAGSET CON PLEASE DO NOT DISTURB
5) PIPILOTTI RIST CON LOB OF THE LUNG
Here we are with the third edition of the prestigious Flower Prize. In recent weeks, many have betrayed eagerly awaiting the publication of the short list of this year. After two successful editions, won by Marc Quinn and JuliaKrahn, the contemporary art world sees in Flower Prize an indisputable tool to understand what is going on.
The formula is the same but with some changes. Enter the short list works in the current year and that the owner of this blog has seen live. The winner is decided by the owner of this blog. Readers can groped to condition the choice of the winner commenting on this post trying to justify their choice. It is the sort of remote voting, which is used in reality shows, with the differencethat public opinion is purely advisory and not binding on the jury. The opinion of the jury may also be influenced by bribes by the artists who will contact the owner of the blog trying to buy his corruptibility.