JENNY SAVILLE, MAMMA E PITTRICE AL MODERN ART OXFORDJENNIY SAVILLE, MOTHER AND PAINTER AT MODERN ART OXFORD

Tra alcuni giorni aprirà una retrospettiva di Jenny Saville al Modern Art Oxford. È la prima volta che un’istituzione pubblica inglese dedica una mostra alla pittrice resa famosa da Charles Saatchi prima e da Larry Gagosian poi. Rachel Cooke sul Guardian le dedica un lungo articolo che vi consiglio di leggere. Mi hanno colpito tre passaggi in particolare:

«Non sono contro l’arte concettuale. Non penso che la pittura debba essere rivalutata. L’arte rispecchia la vita, e le nostre vite sono piene di algoritmi, così molte persone vogliono fare arte come se fosse un algoritmo. Ma il mio linguaggio è la pittura, e la pittura è l’opposto. C’è qualcosa di primitivo in essa. Il bisogno di fare segni è innato. È per questo che quando si è bambini si scarabocchia».

Abbiamo parlato annche del lavoro di altri. Le piacciono sia Gerhard Richter alla Tate Modern che Lucian Freud alla National Portrait Gallery. «È triste che Freud non dipingerà mai più. Ma sto cercando di capire se sia un grande artista o un grande ritrattista. In fondo, perché non dovrebbe essere un grande artista? Ma quando guardo Richter, me lo domando. Richter è senza dubbio un grande artista nel senso pieno della parola».

Recentemente, ha lavorato sul tema della maternità (ha due bambini picoli). «La gente mi diceva [prima che avessi figli] che non sarei stata in grado di impegnarmi nel lavoro una volta che sarebbero nati». Chi erano? Donne? «No!» ride. «Erano uomini. Comunque si sbagliavano. Ora mi godo il mio lavoro dieci volte di più di prima. È ancora una necessità, qualcosa che devo fare. Ma sono più libera da preoccupazioni».

Tra il 2010 e il 2012 Jenny Saville ha lavorato proprio sul tema della maternità. Si è fatta fotografare incinta con il primo figlio in braccio e poi con entrambi i figli. La citazione esplicita è del cartone di Leonardo della National Gallery. Il risultato è la serie “Reproduction” di cui qui sotto ci sono grandi disegni. A me paiono di una bellezza straordinaria. Mi colpisce come la Saville abbia sentito il bisogno, nel rappresentare il rapporto con i suoi figli, di rendere il senso di movimento. Come se il rapporto tra madre e figlio fosse necessariamente dinamico e  fonte di un’energia centrifuga. Ed è proprio questa energia che diventa il vero soggetto del quadro.

Jenny Saville, Reproduction drawing IV (after the Leonardo cartoon), 2010
Reproduction drawing IV (after the Leonardo cartoon), 2010

Jenny Saville, Reproduction drawing II (after the Leonardo cartoon), 2009-2010
Reproduction drawing II (after the Leonardo cartoon), 2009-2010

Jenny Saville, Reproduction drawing I (after the Leonardo cartoon), 2009-2010
Reproduction drawing I (after the Leonardo cartoon), 2009-2010

Jenny Saville, Reproduction drawing III (after the Leonardo cartoon), 2009-2010
Reproduction drawing III (after the Leonardo cartoon), 2009-2010

In a few days will open a Jenny Saville’s retrospective at Modern Art Oxford. It is the first time that a British public institution devoted an exhibition to the painter made famous by Charles Saatchi and Larry Gagosian. Rachel Cooke in The Guardian devotes a long article that I recommend you read. Here are three passages in particular:

«I’m not anti conceptual art. I don’t think painting must be revived, exactly. Art reflects life, and our lives are full of algorithms, so a lot of people are going to want to make art that’s like an algorithm. But my language is painting, and painting is the opposite of that. There’s something primal about it. It’s innate, the need to make marks. That’s why, when you’re a child, you scribble».

We talk, too, about other people’s work. She loved both Gerhard Richter at Tate Modern and Lucian Freud at the National Portrait Gallery. «It’s sad he [Freud] is not going to make any more paintings», she says. «But I’m trying to work out whether he can be seen as a great artist, or whether he is a great portrait painter. I mean, why shouldn’t he be a great artist? But then you look at Richter, and you wonder. Richter is definitely a great artist in the fullest sense of the word».

More recently, she has been inspired by motherhood (she has two small children). «People told me [before I had children] that I wouldn’t be able to engage with my work in the same way once they were born». Which people? Were they women? «No!» She laughs. «They were guys. Anyway, they were wrong. I enjoy the work 10 times more now. It’s still a necessity to me, something I have to do. But I’m more carefree. Partly, it’s watching them – the total freedom they have, scribbling across paper, the way they paint without any need for form. I thought: I fancy a bit of that myself».

Between 2010 and 2012 Jenny Saville has been working on the theme of motherhood. She has been photographed when she was pregnant with her first child in her arms and then with both children. The explicit mention is of Leonardo’s cartoon at the National Gallery. The result is the series “Reproduction” (below). I think they are extraordinarily beautiful. It strikes me as Saville felt the need, representing the relationship with his children, to evoke a sense of movement. As if the relationship between mother and son were necessarily dynamic and source of centrifugal energy. It is this energy that becomes the true subject of the picture.

Jenny Saville, Reproduction drawing IV (after the Leonardo cartoon), 2010
Reproduction drawing IV (after the Leonardo cartoon), 2010

Jenny Saville, Reproduction drawing II (after the Leonardo cartoon), 2009-2010
Reproduction drawing II (after the Leonardo cartoon), 2009-2010

Jenny Saville, Reproduction drawing I (after the Leonardo cartoon), 2009-2010
Reproduction drawing I (after the Leonardo cartoon), 2009-2010

Jenny Saville, Reproduction drawing III (after the Leonardo cartoon), 2009-2010
Reproduction drawing III (after the Leonardo cartoon), 2009-2010

CY TWOMBLY, COLORI COME LUCECY TWOMBLY, COLORS LIKE LIGHT


Avrei dato chissà cosa per andare a vedere questa mostra a Los Angeles. Chiude proprio in questi giorni. È “The Last Paintings” di Cy Twombly. A me pare che con questi ultimi quadri Twombly dimostri che nell’ultima parte della vita abbia raggiunto un livello altissimo di sintesi. La semplicità coerente della forma e la felicità nell’uso del colore che diventa forza e luce. Quella di Twombly è stata una vecchiaia degna di un grande. Sempre all’attacco. Sempre con la voglia di stupirsi. Quasi che la sua Ponza si fosse trasformata nella nuova Giverny di un Monet a stelle e strisce. Una vecchiaia gioiosa che ci ha regalato cicli indimenticabili  – sì, cicli, perché la sua opera aveva assunto questo passo non improvvisato, molto pensato, ma leggero nel risultato – come Lepanto (2001), A Gathering of Time (2003), Blooming: a Scattering of Blossoms and Other Things (2007), The Rose (2008), Leaving Paphos Ringed with Waves (2009) e Camino Real (2010). Non penso che si possa parlare di compimento di un percorso o culmine di una carriera, perché l’impressione è che se Twombly avesse avuto ancora dieci anni da vivere la sua pittura sarebbe ancora migliorata.
Il senso di felicità che si portano questi quadri fa quasi venire invidia.


I would have given anything to go see this show in Los Angeles. The exhibition closes on these days. It’s “The Last Paintings” by Cy Twombly. It seems to me that with these latest paintings Twombly show that in the latter part of life has reached a very high level of synthesis. The consistent simplicity of form and happiness of use of color that becomes power and light. Twombly’s old age was worthy of a great. Always on the attack. Always with the desire to be amazed. His Ponza was transformed into a new Monet’s Giverny. A joyous old age that gave us unforgettable cycles – yes, cycles, because his work had taken this step not improvised, much thought, but light in the result – as Lepanto (2001), A Gathering of Time (2003), Blooming: a scattering of Blossoms and Other Things (2007), The Rose (2008), Leaving Paphos Ringed with Waves (2009) and Camino Real (2010). I do not think you can talk about successful completion of a course or culmination of a career, because the impression is that if Twombly had ten more years to live, his painting would be even better.

The sense of happiness, that these paintings bring, almost brings envy

PERCHÉ SUSAN PHILIPSZ A SAN GOTTARDO IN CORTE A MILANO?

Susan Philipsz

Quando qualche mese fa è stata annunciata la mostra di Susan Philipsz a Milano in occasione dell’incontro mondiale delle famiglie con Benedetto XVI, ho pensato subito che si trattava di un’ottima idea. La sua opera “Lowlands” alla Tate Britain in occasione del Turner Prize del 2010 mi conquistò subito. Penso sia un’artista seria. Peccato che le sue istallazioni sonore non siano riproducibili neanche con i video. La Philipsz, infatti, registra sezioni sonore indipendenti, che poi vengono riprodotte contemporaneamente da distinti altoparlanti piazzati in diversi punti dello spazio creando un effetto 3D.

Penso sia un’artista seria. In lei trovo interessante l’uso della voce umana, il rapporto con la tradizione e il senso dello spazio.

A Milano porterà tre opere: “Weep O Mine Eyes”, “Susan Barbara Joan and Sarah” e “Close To Me” che saranno istallate a Palazzo Reale e a San Gottardo in Corte.

Una di queste rielabora il madrigale “Weep O Mine Eyes” scritto da John Bennett nel 1599. Eccolo nella versione originale.

Questo il testo con una mia goffa traduzione:

Weep, o mine eyes and cease not,
alas, these your spring tides me thinks increase not.
O when begin you to swell so high
that I may drown me in you?

Piangete, occhi miei, non fermatevi,
Ahimè, sembra che queste maree non aumentino.
Oh, quando inizierete a innalzarvi tanto
che possa io possa annegare in voi?

TWO WEEKS ONE SUMMER. DAMIEN HIRST INCIAMPA SUI PENNELLITWO WEEKS ONE SUMMER. DAMIEN HIRST STUMBLES ON BRUSHES

Damien Hirs, Love Birds in Darkness, 2010,  101.6 x 76.2 cm, Oil on canvas
Damien Hirs, Love Birds in Darkness, 2010, 101.6 x 76.2 cm, Oil on canvas

A NO NAME piace molto Damien Hirst. Qualcuno se ne sarà accorto. È una specie di venerazione, lo ammetto. Non acritica, però. Come i veri amanti, sono molto esigente. E certe cose è meglio non lasciarle passare senza dire niente.

Dopo aver visto la bellissima mostra in corso alla Tate Modern stavo per scrivere che Hirst, decidendo di non esporre neanche un quadro della serie realizzata con le sue mani, aveva in qualche modo dichiarato che quella con i quadri “à la Bacon” era una strada ormai abbandonata. Non l’ho scritto. Per fortuna. A smentire questo mio wishfull thinking è la mostra “Two Weeks One Summer” in corso nella sede di White Cube a Bermondsey Street. La mostra non l’ho vista, ma mi ricordo che già nel 2009, con “No Love Lost – Blue Paintings” alla Wallace Collection, si alzò un coro di disapprovazione. Andai a vederla e non mi dispiacque poi molto. Azzardai un commento quasi positivo. Quello non era neanche il primo tentativo. Nei mesi precedenti, infatti, Hirst aveva esposto quadri a Kiev al Pinchuk Art Centre nella mostra “Requiem”.

Ma a guardare su internet i quadri esposti nella super galleria di Jay Jopling, c’è da rimanere parecchio perplessi. A confermare l’impressione la spietata recensione che Jonathan Jones ha fatto sul Guardian. Eccone qualche passaggio:

(…) Scherzi a parte, signor Hirst, sto parlando con lei. Sembra che non abbia nessuno intorno a lei che le dica: ora basta. Lasci perdere. Le dico questo non da nemico, ma da ammiratore di lunga data. Nessun incontro con un’opera d’arte contemporanea mi ha mai emozionato come la volta che entrai, nel 1992, alla Saatchi Gallery e vidi uno squalo tigre farmi le boccacce. Ma questi dipinti sono un sacrilegio per l’arte. Ognuno di questi dipinti – dal pappagallo in gabbia fino ai fiori e alle farfalle – fa a pugni la pittura figurativa e non riesce ad avvicinarsi, non solo alla maestria, ma alla competenza minima.

(…) Se Hirst non avesse cercato di dipingere un arancio con precisione, nessuno avrebbe saputo che non lo sa fare. Ma lui ci ha provato, almeno io penso che sia un arancio, e la misera sfera sembra fluttuare a mezz’aria a causa del goffo cerchio di ombra che le sta sotto. Per un momento ho pensato che fosse intenzionale, poi ho capito che era un problema di competenza. Questi problemi abbondano. Guardi un ramo e capisci subito che ci ha lavorato su, ma è anche ovvio che è lavoro sprecato. Al loro meglio questi quadri non valgono quelli delle migliaia di artisti della domenica che dipingono in giro per la Gran Bretagna. La differenza è che lui può permettersi degli stupidi che lo paragonino a Caravaggio (il riferimento è al saggio in catalogo, ndr).

Questa mostra è un avvertimento ai giovani artisti. A 18 anni, si può diventare come Damien Hirst, quando ne aveva 30. Ma superati i 40 anni, Hirst vuole a quanto pare essere l’artista che sarebbe potuto essere, chissà, se avesse trascorso la sua giovinezza a disegnare. Ha iniziato troppo tardi. Ora sembra un tiranno perso in un mondo di specchi, come il bambino più sopravvalutato del mondo, come un disonore per la sua, la mia, generazione. Siamo questo fallimento?

Io non so se sarei stato così severo. Forse no. Eppure c’è una cosa che mi rende simpatico Hirst anche in questa caduta plateale. E cioè che avrebbe potuto non farlo. Avrebbe potuto continuare con le solite cose che ormai ripete da dieci anni. E invece ci ha provato e si è rimesso in gioco. E ha fallito. Alla grande. Anche solo per questo andrebbe stimato.

Damien Hirst Butterflies and Blossom 2010
Butterflies and Blossom, 2010

Damien Hirst The Sorrow (with Magpie) 2008-2010
The Sorrow (with Magpie), 2008-2010

Damien Hirst Parrot with Outstreched Wings 2010-2012
Parrot with Outstreched Wings, 2010-2012

Damien Hirst Brown Jug of Water with Scissors 2010
Brown Jug of Water with Scissors, 2010

Damien Hirs, Love Birds in Darkness, 2010,  101.6 x 76.2 cm, Oil on canvas
Damien Hirs, Love Birds in Darkness, 2010, 101.6 x 76.2 cm, Oil on canvas

NO NAME really likes Damien Hirst. Someone would have noticed. It’s a kind of veneration, I admit. Not uncritical, however. How true lovers, I am very picky. Ad it is better to say certain things

After seeing the beautiful exhibition at the Tate Modern, I was going to write that Hirst, deciding not to expose even a picture of the series made with his hands, had somehow said that the pictures “a la Bacon” was a road now abandoned. I did not write it. Fortunately. To refute this wishfull thinking is the exhibition “Two Weeks One Summer” in progress at White Cube in Bermondsey Street. I have not seen the show, but I remember that back in 2009 with “No Love Lost – Blue Paintings” at the Wallace Collection, a chorus of disapproval rose. I went to see it and I did not mind much. I ventured a comment almost positive. That he was not the first attempt. In the months before, in fact, Hirst had exhibited paintings at the Pinchuk Art Centre in Kiev in the exhibition “Requiem”.

But it is quite perplexing seeing online the canvas exhibited in the Jay Jopling’s super gallery. Jonathan Jones confirms the impression with his harsh review in The Guardian. Here are some steps:

(…) Seriously – Mr Hirst – I am talking to you. It seems you have no one around you to say this: stop, now. Shut up the shed. I say this as a longtime admirer, not an enemy. No encounter with a contemporary work of art has ever thrilled me like the day I walked into the Saatchi Gallery in 1992 and saw a tiger shark’s maw lurch towards me. But these paintings are abominations unto the lord of Art. They dismantle themselves. Each of these paintings – from the parrot in a cage to the blossoms and butterflies – takes on the difficulties of representational painting and visibly fails to come close, not merely to mastery, but to basic competence.

If Hirst did not try to paint an orange accurately, no one would know he can’t do it. But he has tried, at least I think it’s an orange, and the poor sphere seems to float in mid air because of the clumsy circle of shadow below it. For a moment I thought this was intentional, then I realised it was a competence issue. Such issues abound. You look at a branch and it is obvious he has worked at it: equally obvious the work was wasted. At their very best these paintings lack the skill of thousands of amateur artists who paint at weekends all over Britain – and yet he can hire fools to compare him with Caravaggio.

This exhibition is a warning to young artists. At 18, you may long to be Damien Hirst when he was 30. But in his 40s, Hirst apparently wishes he was the artist that, who knows, he might have been, had he spent his youth drawing day after day after day. He has left it too late. Instead he looks like a tyrant lost in a world of mirrors, like the world’s most overpraised child, like a disgrace to his, my, generation. Are we this bankrupt?

I do not know if I would be so severe. Maybe not. Yet there is one thing that makes me sympathetic Hirst also in this fall: he could not do it. He could have continued with the usual things now repeated for ten years. But he tried it. And he has failed. Completely. Even for this should be estimated.

Damien Hirst Butterflies and Blossom 2010
Butterflies and Blossom, 2010

Damien Hirst The Sorrow (with Magpie) 2008-2010
The Sorrow (with Magpie), 2008-2010

Damien Hirst Parrot with Outstreched Wings 2010-2012
Parrot with Outstreched Wings, 2010-2012

Damien Hirst Brown Jug of Water with Scissors 2010
Brown Jug of Water with Scissors, 2010

ASSERRAGLIATI NELLE CASEMATTE DI ANGELO BARONE

Sono stato nello studio di Angelo Barone in via Bianconi a Milano. Lui è un signore distinto, colto, riflessivo. Mi racconta che si è letto tutte le 880 pagine della biografia di Willem de Kooning pubblicata qualche anno fa da Johan&Levi. Dice che l’ha colpito che negli ultimi anni il grande pittore, ormai malato di alzheimer, avesse perso il rapporto con la realtà ma non l’attaccamento alla pittura. Ogni mattina si alzava e dipingeva. “Aveva tradito tutte le persone che amava – dice Barone – ma non ha mai tradito lei, la pittura”.

La cosa che colpisce di Angelo Barone è la serietà intellettuale con cui si accosta al suo lavoro. Forse è proprio una fedeltà a una vocazione. La fedeltà al suo essere artista, che gli permette  – da scultore – di flirtare con l’architettura e tradire la scultura realizzando bellissimi quadri e fotografie. Mi è piaciuta la libertà con cui sperimenta generi diversi per approfondire quelle che sono le sue profonde preoccupazioni. Che sono preoccupazioni che hanno a che fare con la conoscenza del mondo che ci circonda. E del modo in cui esso, in modo misterioso, prende forma e si presenta a noi.

Uno degli ultimi temi, ad esempio, è quello delle architetture naturali. Sistemi che si “autogenerano” in spazi architettonici come quelli, ad esempio, che si formano da assembramenti di lumache sui rami delle piante. O i sistemi complessi delle baracche di una favela brasiliana. Le opere sono realizzate stampando su tela delle fotografie, a volte realizzate dall’artista a volte no, e coprendole con un tessuto polverizzato monocolore. L’immagine ci appare dunque offuscata dietro questa sorta di sottilissimo tappeto. Sono immagini molto eleganti. Poetiche. Di una bellezza non decorativa. 

Questa membrana di tessuto-colore va a formare una cataratta che si frappone tra noi e l’oggetto impedendoci di avere una visione limpida. Questo è un tema ricorrente nell’opera di Barone. La difficoltà a mettere a fuoco gli oggetti. Le cose. Un’impossibilità ad afferrarli e a conoscerli. La nostalgia per l’immagine definita. Una chiarezza, che forse non abbiamo mai posseduto, ma sentiamo comunque come andata perduta.

L’ultimo lavoro, recentemente esposto nella galleria C&H art space di Amsterdam e al MIA, si intitola “Casematte”. Secondo Barone le “casematte” o “bunker” sono l’archetipo dell’architettura, nel senso che sono “l’applicazione sintetica delle regole architettoniche più alte”. L’artista ha ripercorso l’itinerario che Paul Virilio, filosofo, scrittore e urbanista francese, fece negli anni cinquanta lungo le coste dell’Europa del Nord per visitare queste bizzarre opere di architettura militare. Qui il viaggio, però, è fatto virtualmente attraverso le immagini reperibili su internet e che, Barone, ha rifotografato con la sua Leica M8 (digitale) così come appaiono sullo schermo di un computer, senza cioè bisogno di nessun tipo di elaborazione. Il risultato è straniante. Il fascino delle architetture viene esaltato da questo senso di indefinitezza. E il molteplice passaggio da media diversi (la fotografia, il computer e ancora la fotografia) crea degli effetti di colore di grande raffinatezza. Per capire lo scarto di queste immagini ve ne propongo una accanto all’originale trovata su internet.

Grazie a Giovanni Frangi per le foto.

MADAME FISSCHER, UNA MOSTRA BEN PETTINATA

Urs Fischer, mostra palazzo grassi, venezia 2012NO NAME non poteva esimersi dal rendere omaggio al Flower Prize 2011 Urs Fischer e fare un salto a Palazzo Grassi per vedere la sua Madam Fisscher. La mostra è pulita, educata, a tratti rassicurante. Una macchina rodata e ben oliata in cui la forza delle opere dell’artista viene normalizzata. Il potenziale di provocazione non riesce a deflagrare. Tutto sembra ormai così ordinario. Una bella differenza rispetto al colpo che dà invece l’opera Hole del 2007 e che in mostra di Venezia (per ovvi motivi?) non c’era. La modella nuda, presente per tutto il tempo della mostra, è una soluzione un po’ troppo comoda. Mi sarebbe piaciuto un bel buco nel palazzo ristrutturato da Tadao Ando. Monsieur Pinault se lo poteva permettere e, forse, avremmo visto non solo l’abisso senza fondo del suo salvadanaio, ma  anche quello presente dentro di noi.

Urs Fischer, Hole, 2007 Urs Fischer, Hole, 2007

Eppure Urs Fischer resta un grande artista. E si vede anche questa volta. Lo si vede in un paio di punti in modo inequivocabile. Ma in punti un po’ nascosti, in opere secondarie. La più bella e struggente è questa qui sotto: The Grass Munchers, 2007. Una deposizione. I corpi scompaiono, resta solo l’atto. La presa. Un paio di braccia esanimi sostenute da tre mani di tre persone diverse. Un fragmento di scena che evoca quel momento sacro in cui qualcuno è chiamato a sostenere il corpo di qualcun altro. Un gesto corale, silenzioso. Commosso. Urs Fischer tocca con quest’opera il punto su cui poggia tutta la grande arte. Forse ancor di più che nell’opera esposta alla Biennale a cui, non ce ne siamo ancora pentiti, abbiamo assegnato il prestigiosissimo Flower Prize 2o11.

Urs Fischer, The Grass Munchers, 2007

WILLIAM CONGDON A VENEZIA. UN QUADRO SCONOSCIUTOWILLIAM CONGDON IN VENICE. AN UNKNOWN PAINTING

Peggy Guggenheim sul Canal Grande con un quadro di William Congdon nel 1957
Venezia, settembre 1957: Peggy Guggenheim sulla gondola sul Canal Grande con "Venice, I Lagoon" di William Congdon. Archivi Collezione Guggenheim. Foto di Lucio Berzioli.

Ho visto la mostra “William Congdon a Venezia. Uno sguardo americano” a Ca’ Foscari a Venezia. È la prima mostra che la città dedica al pittore americano che la fece oggetto di una lunga serie di bellissime opere. Ne ho scritto qui. La mostra è interessante anche se non priva di difetti. Certamente andava fatta, come chiedevamo qualche mese fa qui.

I pregi di questa mostra sono almeno due, secondo me. Il primo è la scelta di concentrarsi solo sul periodo veneziano e sulle opere che raffigurano la Serenissima. Questo permette di porre attenzione a un periodo importante sia per Congdon sia per Venezia. Interessante il saggio in catalogo di Elena Scantamburlo “William Congdon alla BIîennale (1952-1958)” che ricostruisce il rapporto tra il pittore americano e la manifestazione (portò un’opera per edizione di soggetto romano). Angela Bianco, invece, cerca di sciogliere un piccolo giallo. Nel suo saggio Dai guest books di Peggy Guggenheim un inedito disegno di William Congdon e una mostra fantasma. La mostra fantasma è quella che Congdon dice di aver fatto da Peggy Guggenheim. Il pittore, infatti, riferisce nei suoi taccuini di uno “show” a casa della collezionista del quale, però, sembrano non esserci riscontri storici. La conclusione della Bianco è che con buona probabilità di trattò di un’esposizione privata non aperta al pubblico ma destinata agli amici di Peggy.

L’altro pregio è che, probabilmente per la mancanza delle grandi opere provenienti dai musei americani, i curatori si sono dovuti rimboccare le maniche per reperire opere dalle collezioni private di cui si sa molto poco. Il risultato è che in mostra ci sono tre opere inedite, di cui una è una scoperta. È quella qui sotto: è un dipinto ad olio su cartoncino non datato e non firmato. Ad un primo momento non sembra un pezzo di grande valore, ma a guardarlo meglio, si nota quel bellissimo cielo che ci proietta nel mondo fatto di spatolate dell’ultimo Congdon.

William Congdon, Senza Titolo (Piazza San Marco), 1948 (?)
William Congdon, Senza Titolo (Piazza San Marco), 1948 (?), olio su cartoncino, 36x48, collezione Massimo Falomo
Peggy Guggenheim sul Canal Grande con un quadro di William Congdon nel 1957
Venice, September 1957: Peggy Guggenheim in gondola on Canal Grande with "Venice, I Lagoon" by William Congdon. Archivi Collezione Guggenheim. Foto di Lucio Berzioli.

I saw the show “William Congdon a Venice. Uno sguardo americano” at Ca’ Foscari. It is the first exhibition in the city devoted to the American painter who lived there and painted a long series of beautiful paintings of Venice. The exhibition is interesting, albeit not without flaws. Certainly should have been done, as I asked a few months ago here.

The merits of this exhibition, curated by Giuseppe Barbieri and Silvia Burini, are at least two, in my opinion. The first is the choice of focusing exclusively on Venetian period and the works that depict the Serenissima. This allows you to pay attention to an important period for both Venice and Congdon. In particular, I find it interesting, in the catalog, the essay by Elena Scantamburlo “William Congdon Biennale (1952-1958)”, which reconstructs the relationship between the American painter and event (he brought one painting of Roman subject for each edition) and seeks to dissolve a small mistery novel. It is “ghost exibition” by Congdon chez Peggy Guggenheim. The painter, in fact, refers in his notebooks about a “show” in home of the collector, of which, however, seem to be no historical evidence. Scantaburlo’s conclusion is that the “show” was in reality a private exibition intended for Peggy’s friends.

The other merit is that, probably because of the lack of major works from American museums, the curators have had to work hard to retrieve paintings from private collections, of which very little is known. The result is that in shows there are three works never exibited, one of which is a discovery. It is the one below: it is an oil painting on cardboard, undated and unsigned. At first it did not seem a very valuable piece, but a better look, you see that beautiful sky that propels us into the world of the last Congdon.

William Congdon, Senza Titolo (Piazza San Marco), 1948 (?)
William Congdon, Senza Titolo (Piazza San Marco), 1948 (?), olio su cartoncino, 36x48, collezione Massimo Falomo

TUTTI GLI SQUALI DEL SIGNOR DAMIEN HIRST (UN CENSIMENTO)HOW MANY SHARKS, MR. HIRST? (A CENSUS)

Damien Hirst, The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living, 1991
Damien Hirst, The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living, 1991

Sono stato alla mostra di Damien Hirst alla Tate Modern di Londra. È una mostra all’altezza sia della Tate sia di Hirst. Se potete, non perdetevela. L’opera più bella è anche la più famosa: The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living (d’ora in poi per brevità TPIODITMOSL).

Di quest’opera Hirst ha parlato molte volte (l’ultima qui), ma una volta ha  spiegato: “Mi piace l’idea di qualcosa che descrive una sensazione. Uno squalo fa paura, è più grande di te, si muove in un ambiente a te sconosciuto. Sembra vivo quando è morto e morto quando è vivo”.

Nella mostra di Londra, però, gli squali esposti sono due. Il primo è, appunto, TPIODITMOSL. L’altro, più piccolo e in una teca nera, si intitola The Kingdom.

Per molti TPIODITMOSL è diventato il simbolo della follia dell’arte contemporanea, tanto che nel 2008 l’economista Donald Thompson ha scritto un libro tradotto in italiano col titolo Lo squalo da 12 milioni di dollari – La bizzarra e sorprendente economia dell’arte contemporanea. Thomson racconta per filo e per segno la genesi di TPIODITMOSL e rivela una serie di particolari abbastanza interessanti.

L’opera fu realizzata per la prima volta nel 1991 con i soldi di Charles Saatchi. “L’artista – racconta Thompson – aveva fatto alcune telefonate “Cercasi squalo” ad alcuni uffici postali australiani in località costiere, i quali avevano appeso dei cartelli con il suo numero di Londra”. A rispondere all’annuncio fu Vic Hislop, un pescatore di Hervey Bay, una località sull’Oceano Pacifico. Lo squalo fu pagato 6000 dollari: 4000 per la cattura e 2000 per imballarlo nel ghiaccio e spedirlo a Londra via nave.

vic hislop, shark for damien hirst
Vic Hislop alle prese con uno squalo nel 1992.

TPIODITMOSL fu esposta per la prima volta nel 1992 nella galleria privata di Saatchi. Quando però nel 2005, tramite i buoni uffici di Larry Gagosian, Saatchi vendette l’opera al finanziere americano Steve Cohen (si dice per 12 milioni di dollari), lo squalo si era completamente deteriorato. Hirst accettò si sostituire l’animale e chiamò di nuovo Vic Hirslop. Gli chiese altri tre squali tigre e un grande squalo bianco della stessa stazza e ferocia dell’originale. Hirslop, racconta Thompson, inviò a Hirst cinque squali, uno dei quali in regalo. (Qui l’articolo del Nyt che racconta la sostituzione di squalo)

Che fine hanno fatto gli altri quattro squali? In realtà io ne ho censiti almeno cinque. Eccoli:

The Immortal (1997-2005)

Damien Hirst, The Immortal (1997-2005)

The Wrath of God (2006)

Damien Hirst, The Wrath of God (2006)

Death Explained (2007)

Damien Hirst, Death Explained (2007)

Death Denied (2008)

Damien Hirst, Death Denied (2008)

The Kingdom (2008)

Damien Hirst, The Kingdom (2008)

Che io sappia poi, esiste almeno un’opera realizzata anziché con uno squalo, con un pesce-martello:

Fear of Flying (2008-2009)

Damien Hirst, Fear of Flying (2008-2009) Damien Hirst, Fear of Flying (2008-2009)

Damien Hirst, The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living, 1991
Damien Hirst, The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living, 1991

I’ve been to Damien Hirst’s exhibition at the Tate Modern in London.  It is a show worthy of the Tate and Hirst. The most amazing work is the most famous one: The Physical Impossibility of Death in the Mind of SomeoneLiving (hereafter for brevity TPIODITMOSL).

Hirst spoke about this work many times (the last one here), but once explained: “I like the idea of something describing a feeling. A shark is scary, it’s bigger than you, it moves in a environment unknown to you. It seems alive when it is dead, and dead when it is alive”.

In the London show, however, the sharks on display are two. The first is, in fact, TPIODITMOSL. The other, smaller and in a black vitrine, called The Kingdom.

For many TPIODITMOSL has become the symbol of the folly of contemporary art, so much so that in 2008 the economist Donald Thompson wrote the book The $12 Million Stuffed Shark. Thomson explains the genesis of TPIODITMOSL and reveals a number of quite interesting details.

The work was realised for the first time in 1991 with Charles Saatchi’s money. “The artist – writes Thompson – had made ​​some phone calls “Wanted shark”at some post offices in the Australian coastal towns, which had hung signs with his number in London”. The man who called Hirst was Vic Hislop, a fisherman from Hervey Bay, a resort on the Pacific Ocean. The shark was paid $6000: $4000 for the capture and $2000 for packing it in ice and shiping it to London by ship

vic hislop, shark for damien hirst
Vic Hislop whit a shark in 1992.

TPIODITMOSL was shown for the first time in 1992 in Saatchi’s private gallery. But when in 2005, through the good offices of Larry Gagosian, Saatchi sold the work to the American financier Steve Cohen (they say: 12 million dollars), the shark had completely deteriorated. Hirst accepted to replace the animal and called again Hirslop Vic. He asked three other tiger sharks and great white shark of the same size and ferocity of the original. Hirslop, says Thompson, sent five sharks, one of them as gifts. (Here the article in the NYT with the story of the replacement of the shark).

What happened to the four other sharks? I actually counted at least five. Here they are:

The Immortal (1997-2005)

Damien Hirst, The Immortal (1997-2005)

The Wrath of God (2006)

Damien Hirst, The Wrath of God (2006)

Death Explained (2007)

Damien Hirst, Death Explained (2007)

Death Denied (2008)

Damien Hirst, Death Denied (2008)

The Kingdom (2008)

Damien Hirst, The Kingdom (2008)

Then as I know, there is at least a work created instead wiht a shark, whit a fish-hammer:

Fear of Flying (2008-2009)

Damien Hirst, Fear of Flying (2008-2009) Damien Hirst, Fear of Flying (2008-2009)

L’IMPORTANZA DI CHIAMARSI DAVID HOCKNEYTHE IMPORTANCE OF BEING DAVID HOCKNEY

Sono stato a vedere “A Bigger Picture”, la mostra di David Hockney alla Royal Academy di Londra. Era l’ultimo giorno di apertura e ho dovuto fare un’ora di coda per entrare. Ma ne è valsa la pena. Mi hanno colpito alcune cose. Sintenticamente:

1) L’energia creativa che può avere un’artista a 75 anni. La forza di reggere le immense pareti della Royal Accademy con tele giganti o infinite serie di disegni uno diverso dall’altro. La controllata bulimia pittorica che si può permettere di ripetere uno stesso soggetto all’infinito senza per questo stancare chi guarda. È un’energia che due grandi (più grandi di lui) come Lucian Freud e Gerhard Richter mi sembrano non abbiano.
2) La questione dei disegni con l’iPad. Visto il risultato lo strumento mi pare assolutamente marginale. È vero: sono più belli visti su schermo piuttosto che stampati. Ma in fondo lo schermo è come una lightbox, un po’ un effetto speciale.

3) La polemica con Damien Hirst. È stato certamente un trucco promozionale (che ha funzionato). Ha funzionato soprattutto perché la mostra è bellissima. Al di là dell’argomento futile (Hockney fa le opere con le sue mani, Hirst no), avendo visto entrambe le mostre posso dire che questo match lo ha vinto Hockney. Bisogna dare a Hirst quel che è di Hirst: ha fatto delle opere che difficilmente si dimenticheranno. Tuttavia a questo punto della sua carriera mostra un momento di stanca (questo non vuol dire che la mostra della Tate non sia una grande mostra).

4) Mi colpisce come un’istituzione potenzialmente parruccona come la Royal Academy dimostri più coraggio della giovanilistica Tate Modern. Hockney dice che è stato contattato per questa mostra nel 2007 e che gli è stato chiesto chiesto esplicitamente di non fare una retrospettiva: volevano opere nuove. Se si va alla Tate Modern, invece, sembra che quella della retrospettiva sia una costante. Negli ultimi anni ho visto: John Baldessarri, Gerhard Richter, Yayoi Kusama e Damien Hirst. Tutti autori viventi a cui è stata chiesta una retrospettiva. Alle opere nuove era dedicata, sì e no, l’ultima stanza. È una scelta più che ragionevole per un’istituzione come la Tate, ma certamente meno coraggiosa. È vero anche che non tutti gli artisti hanno l’energia di Hockney.

5) L’ultima cosa che direi è questa: mi è capitato poche volte di uscire da una mostra d’arte contemporanea (e di pittura!) con il buon umore con cui sono uscito dalla Royal Accademy. Sarò forse sentimentale. Ma è stato come farsi una gita in campagna. Lontano dal “logorio della vita moderna”, direbbe la pubblicità del Cynar, guardando l’opera di Hockney si è costretti a una dimensione di contemplazione a cui non siamo abituati. Non so se sia un’arte da pensionati (ma comunque di altissimo livello). No, non penso sia questo. Certo fa impressione che ci sia una mostra così serena in questo cupo 2012.

Ecco alcuni disegni realizzati con l’iPad tratti dalla serie “The Arrival of Spring in Woldgate, East Yorkshire in 2011 (twenty-eleven)”: