NYsferatu. Quante idee nella matita di Andrea Mastrovito

NYsferatu Andrea Mastrovito
Finalmente sono riuscito a vedere alla Fondazione Stelline il film di Andrea Mastrovito NYsferatu. Synphony for a Century, il remake del Nosferatu di Murnau disegnato fotogramma per fotogramma dall’artista bergamasco e la sua bottega (un corpus di 35mila disegni). La vicenda di Hutter, sua moglie e del Conte Orlok (Dracula) viene ripresa passo passo, immagine per immagine, ma a cambiare è l’ambientazione. Wisborg diventa la New York post 11 settembre e la Transilvania la Siria contemporanea devastata dalla guerra.
Come al solito il lavoro di Mastrovito abbonda, esonda, tracima. L’ambizione del progetto quasi gli sfugge di mano (non aspettatevi una sceneggiatura alla Sorkin). Ma a Mastrovito si perdona tutto in virtù della sua schiettezza, della sua immediatezza, della sua irruenza. Ma anche la sua delicatezza, la sua visionarietà, il suo umorismo.

Quante idee nella sua matita. Una su tutte, e forse quella centrale in questo film: la lacrima che scende sulla guancia della Statua della Libertà. Un’immagine che ha dentro un romanzo intero di domande: perché piange? Chi potrà consolarla?

Oggi si scrivono libri per rispondere a questi che sono gli interrogativi sulla crisi delle democrazie liberali in Occidente. Nella mia testa Mastrovito entra nella stanza dove stanno discutendo, tra gli altri, Pankaj Mishra (L’età della rabbia, Mondadori), Vittorio Emanuele Parsi (Titanic. Il naufragio dell’ordine liberale, Il Mulino)e Mattia Ferraresi (Il secolo greve, Marsilio). Entra nel dibattito da artista e da tifoso dell’Atalanta: lanciando fumogeni, scoppiando petardi e sfanculando la polizia.

Andate a vederlo, alle Stelline lo proiettano fino al 18 aprile

NYSFERATU ANDREA MASTROVITO

Filippo De Pisis. Rapidità ansiosa

DE PISIS Venezia-Marina 1930
Filippo De Pisis, Venezia-Marina, 1930

Tornare a vedere Filippo De Pisis per cercare di capire il perché di questo ostinato oblio che lo circonda. Eppure, poco lontano dal Museo Ettore Fico, dove fino al 22 aprile si può visitare “Filippo de Pisis – Eclettico connoisseur fra pittura, musica e poesia”, alla GAM di Torino è esposto nella stessa sala di Giorgio Morandi. E si capisce il perché. Che il Meridiano di Roberto Longhi si intitoli Da Cimabue a Morandi e non Da Cimabue a De Pisis, spiega solo in parte perché il pittore bolognese abbia avuto una fortuna infinitamente più ampia rispetto all’artista di Ferrara (che pure stava appeso con una natura morta nella sala da pranzo del grande critico). Probabilmente la semplice complessità di Morandi si offre in modo generoso a una lettura “concettuale” della sua monastica ossessione per la luce che si distende sugli oggetti.

E De Pisis? No, De Pisis è molto meno incasellabile nelle categorie del gusto corrente. E, diciamolo, la sua è una pittura che muore se riprodotta. Così, complici anche le cornici orribili e polverose, è facile scambiare queste opere vibranti e inquiete per quadri da pizzeria.

In mostra viene riprodotto un brano di Giuseppe Raimondi che, nel 1941, fa riferimento a Manet per spiegare le nature morte marine di De Pisis:

Edouard Manet Sur la plage
Edouard Manet, Sur la plage, 1873

«Il quadro Sur la plage del ’73 è una straordinaria natura morta avente due grosse figure in primo piano, come mostruosi frutti di mare, e nel fondo la distesa delle acque verdi. Anche la sua tavolozza ne restò impressionata: l’uso delle lacche rosse, affondate nelle dolcezze delle terre gialle o bruciate; gli accordi sui complementari, giallo oro e blu di Prussia e l’infinita scala dei verdi accordata coi rossi. Ma inoltre si direbbe che il pittore dell’Olimpia ha suggerito a De Pisis l’ardito impianto di talune composizioni o piuttosto il modo irruento di aggiustarne gli oggetti. Qualcosa di brusco e violento nella presa, cui segue la rapidità ansiosa della rappresentazione, ottenuta con i mezzi più alla mano. (…) la rapidità di una visione mai disgiunta di una sorte di intellettuale ilarità»

Mi pare che quel “rapidità ansiosa” e quel “brusco e violento” descrivano in modo preciso la dimensione elettrica della pittura di De Pisis. C’è un enigma di inquietudine scritto con quei geroglifici neri che innervano questi quadri. E se pizzeria deve essere, che sia la pizzeria del Four Season di New York per cui erano pensate le tele di Rothko ora alla Tate di Londra. Anche i fiori e le conchiglie di De Pisis toglierebbero l’appetito a chiunque (a meno che non si chiami Roberto Longhi).

Per questo sono convinto che occorra tornarci su questo artista. Almeno di tanto in tanto.

Un post condiviso da Luca Fiore (@lfiore) in data:

Wolfgang Laib a Lugano. Una specie di promessa

 Wolfgang Laib Masi LuganoA vederlo così, sembra un Hermann Hesse 2.0. Occhiali rotondi, volto scavato, cose del genere… Wolfgang Laib, artista tedesco di fama mondiale, è la quintessenza dell’uomo occidentale convertito sulla via dell’Oriente. Non è un caso che il Masi di Lugano, a pochi chilometri dalla residenza dell’autore di Siddhartha, gli abbia dedicato una personale in contemporanea con la grande (e molto ben fatta, a dire il vero) mostra “Sulle vie dell’illuminazione – Il mito dell’India nella cultura occidentale”.
Insomma, i pregiudizi non mancano, per chi, come chi scrive, non è mai stato attratto dalle sirene d’Oriente. Eppure il preconcetto si infrange davanti all’opera più importante e famosa di Laib: un campo quadrato di polline disteso sul pavimento della galleria. È di una bellezza profonda, acuta, disorientante. L’occhio fatica a mettere a fuoco la distesa gialla. Impossibile non pensare a un Rothko appoggiato per terra. L’opera è l’esito di un’attività certosina:

«Raccolgo il polline dai fiori, dai cespugli e alberi vicino al villaggio in cui vivo. Il processo comincia all’inizio della primavera con il nocciòlo e continua con il dente di leone, il ranuncolo e il pino. E un periodo di quattro o cinque mesi. Al termine, ho quattro o cinque barattoli di polline. Raccolgo il polline con le mie mani. È molto semplice».

I curatori non dicono quanti barattoli sono occorsi per realizzare l’opera al Masi. Dicono però che Laib, nel 2013, al Moma, per il suo intervento più grande, usò il polline raccolto in oltre vent’anni. C’è lentezza, una pazienza d’altri tempi. La stessa che lo sceriffo di Non è un paese per vecchi vide nell’uomo che aveva impiegato anni a scolpire nella pietra un grande abbeveratoio: «L’unica cosa che mi viene da pensare è che quello aveva una specie di promessa dentro il cuore».

C’è un tipo di poesia che si fatica a spiegare e l’esperienza di trovarsi a tu per tu con un’opera di tale forza costringe a mettere da parte ogni armamentario ideologico. Prevale lo stupore.

Lucio Fontana all’Hangar Bicocca. Un paradosso

Lucio Fontana Ambienti SpazialiLa prima cosa da dire è che non è una mostra di Fontana ma su Fontana. E non è una differenza da poco. Il motivo è semplice: tutti e nove gli “ambienti” presenti all’Hangar per la mostra Lucio Fontana -Ambienti/Environments all’Hangar Bicocca di Milano, a cura di Marina Pugliese, Barbara Ferriani e Vicente Todolí, sono ricostruzioni, seppur filologiche, di interventi andati perduti. Questo, entrando in mostra, occorre averlo chiaro (e i curatori non lo nascondono) perché ci permette di comprendere un sottile paradosso. Questa esposizione restituisce alla nostra generazione Lucio Fontana per il precursore assoluto che è stato rispetto quella grande arte americana che ha riflettuto sulla luce e sullo spazio. James Turrell, Robert Irwin, Dan Falvin qui appaiono definitivamente come arrivati dopo. Le date non mentono: i neon di Fontana sono già del 1948-49, quando Dan Flavin portava ancora i pantaloni corti.
Ma dove sta il paradosso? Il punto è che senza gli americani a nessuno, probabilmente, sarebbe venuto in mente di mettere in atto una macchina così raffinata e costosa per “resuscitare” queste opere perdute. E senza di loro non potremo comprendere quanto davvero l’artista italiano sia arrivato prima.
Su questo Fontana non aveva dubbi. E lo rivendicava con forza. Una volta, rimproverando gli americani di sciovinismo e provincialismo, raccontò a Carla Lonzi, un dialogo avuto con un critico statunitense. «Ma sì, ma lei… lo spazio, ma cosa vuole, lei italiano, lo spazio… noi americani, i deserti dell’Arizona, lì…», fece quello. E l’altro: «Guardi, io non sono italiano, io sono argentino (era nato a Rosario, ndr) e ho la pampas che è dieci volte più grande dei deserti dell’Arizona… Ma lo spazio non è la pampas, lo spazio è un altro nella testa, capisce?».
Il problema, però, sta nel capire perché per Fontana non fosse importante che queste opere rimanessero, come invece è per i suoi colleghi d’oltreoceano. Perché non solo non si preoccupò che fossero conservate, ma nemmeno lasciò indicazioni su come istallarle nuovamente. È un enigma che la mostra non risolve. O forse l’enigma non c’è e per Fontana la mostra all’Hangar non andava fatta.

Ditelo con parole semplici

Time is out of joint

Sono stato a Roma e ho visto “Time is out of joint” a La Galleria Nazionale e “Nuovi tempi, nuovi miti”, la Quadriennale al Palazzo delle esposizioni.
Sono mostre molto diverse e, per diversi aspetti, non sono paragonabili. Ma, a pensarci, dicono di che cosa significhi oggi fare il curatore.

Alla Quadriennale ho cercato di seguire, per ciascuna delle dieci sezioni firmate da altrettanti curatori, il filo del discorso: prima di entrare ho letto il titolo e il breve testo introduttivo e poi ho provato a ritrovare quanto annunciato nel dialogo tra le opere. Non sempre ci sono riuscito, per non dire quasi mai. Un po’ perché la lingua usata dai curatori era a dir poco ostica e impediva di capire qual era l’idea da ritrovare, un po’ perché non c’erano abbastanza elementi per leggere le opere più enigmatiche, un po’ perché era labile il legame tra idea curatoriale e opera.
Insomma: lo sforzo di entrare nel mondo mentale del curatore era tale che si arrivava stanchi per l’incontro con le opere. Esagero? Forse, sì. Ma forse anche no.

Quella de La Galleria Nazionale, che è tutt’altro tipo di sfida, mostra un altro lavoro curatoriale che però che è in grado di comunicare di più con il visitatore e che, alla fine, valorizza molto di più le opere. Il lavoro di Cristiana Collu e Saretto Cincinelli non dichiara temi o logiche di accostamento: è il visitatore che deve cercare di cogliere, se ci sono, i legami tra le opere. Soprattutto nelle prime due sezioni (nelle ultime due, il meccanismo è più rarefatto sembra), questo lavoro fa emergere parole semplici, che appartengono alla lingua comune. Si parla del mito e dei suoi modi di concepirlo (Canova-Twomby), si parla del ritmo delle campiture di colore (Pascali-Mondrian), il rapporto tra una foglia di fico e una foglia d’oro (Canova-Penone). Il finito blu del mare e l’infinito blu dell’infinito (Pascali-Klein). La solitudine e lo sguardo verso le stelle. E poi il paesaggio, il corpo, la sensualità. E poi la guerra, la retorica della guerra, il dolore della guerra, l’insensatezza della guerra. Poi c’è la pietà popolare, il groppo in gola dei migranti, la nostalgia davanti alle rovine della civiltà del passato. Dentro a questi nuclei tematici e poetici si è costretti a guardare e riguardare le opere e il rapporto tra loro.
Qui sto semplificando, per carità: quello messo in scena dalla Collu non è un giocattolino banale-banale, ma si pone questioni semplici e profonde usando parole semplici e profonde.

Ripeto: le due mostre sono imparagonabili, ma mostrano due approcci diversi di chi si pone il problema del dover presentare il lavoro degli artisti che, quando fanno bene il loro lavoro, non sono mai lontani dal sentire comune (nel senso più nobile del termine).

#cytombly e #pinopascali 32 metri quadrati di mare circa @lagallerianazionale #art #contemporaryart

Una foto pubblicata da Luca Fiore (@lfiore) in data:

Un grande colpo con #GinoDeDominicis #PinoPascali @lagallerianazionale #art #contemporaryart

Una foto pubblicata da Luca Fiore (@lfiore) in data:

#GiuseppeUncini #LucioFontana #AlberoBurri @lagallerianazionale #art #contemporaryart

Una foto pubblicata da Luca Fiore (@lfiore) in data:

Grande #BelindeDeBruyckere @lagallerianazionale #art #contemporaryart

Una foto pubblicata da Luca Fiore (@lfiore) in data:

Sophie Calle e il ritratto rubato di Francis Bacon (by Lucian Freud)

Sophie Calle Lucian FreudNella bellissima mostra curata da Thomas Deman alla Fondazione Prada intitolata L’image Volée (qui trovate la recensione di @robedachiodi) c’è un’opera che mi ha commosso in modo particolare. Si intitola Purloined, Francis Bacon’s Portrait ed è stata realizzata da Sophie Calle. Il protagonista dell’opera è un ritratto di Francis Bacon realizzato nel 1952 da Lucian Freud, di proprietà della Tate Britain e che è stato rubato nel 1988 alla Neue Nationalgalerie di Berlino. L’opera è composta da una fotografia del cassetto dove il quadro veniva conservato a Londra e dalla trascrizione delle testimonianze dei custodi della Tate che avevano “vissuto” accanto al ritratto. Il testo ricorda quello stile da “soliloquio collettivo” che abbiamo imparato a conoscere leggendo i libri di Svetlana Aleksievic, Premio Nobel 2015. Lineare, di una poesia struggente. Avrei voglia di tradurlo, ma, ahimè, ci vorrebbe il tempo che non ho. Ve propongo così come il mio iPhone l’ha fotografata (cliccare per ingrandire). È un breve saggio sulla pittura di Freud, sì. Ma anche sulla dimensione affettiva delle immagini e, forse, sulla centralità del volto di Bacon per l’immaginario del Novecento.

IMG_7229

baconwanted

Stelle incise sulla lavagna. Una mappa di Dario Goldaniga

Dario Goldaniga Mappa Stellare
Dario Goldaniga, Mappa Stellare, 2016

Ho visto Io sono qui, la bella mostra di Dario Goldaniga da Fabbrica Eos a Milano (fino al 4 maggio). Mi ha colpito molto la mappa celeste incisa sulle lavagne inutilizzate della scuola in cui Dario insegna da tanti anni (e dove ho avuto la fortuna di conoscerlo e frequentarlo quando ero studente).

Come spiega bene Ivan Quaroni nel testo che introduce la mostra, la lavagna è il luogo dove si è rappresentato il sapere in un continuo segnare e cancellare: parole e numeri scritti con la polvere di gesso che gli studenti hanno finito – chi più, chi meno, chi per nulla – per fissare nella memoria. Su queste superfici di ardesia si sono poggiati gli sguardi di centinaia di studenti. Goldaniga oggi sceglie queste pietre, di un colore che è un nero così particolare, per inciderci punti e linee che vanno a rappresentare una mappa del cielo. La mappa esposta da Fabbrica Eos (purtroppo non è quella della foto, ma l’idea è quella) è composta da nove lavagne dove, dice, ha segnato col trapano 67238 stelle.

È un’idea semplice che però, se ci pensate, dice molto di un modo di pensare all’insegnamento: è come se quella mappa fosse stata da sempre segnata su quelle lavagne e l’artista non ha fatto altro che portarla alla luce. Quel lavoro di comunicazione, a volte così prosaico, che alterna lo scrivere e il cancellare, quel continuo iniziare da capo, è come se fosse, in realtà, un tentativo di segnare percorsi che abbiano il respiro dell’infinito.

A questo proposito, mi è venuto in mente un testo letto qualche mese fa in occasione della mostra Proportio a Palazzo Fortuny a Venezia, nel quale Marina Abramovic parlava del suo rapporto con il cielo stellato. Eccolo:

Da bambina ero affascinata dal cielo notturno. Trascorrevo molte ore a guardarlo, specialmente quando in campagna non c’era la luna e le luci della città non interferivano con la visione delle stelle.

Quando viaggio, vado sempre in cerca di osservatori per vedere le stelle meglio e più da vicino. Guardo la Via Lattea, guardo stelle morenti che nemmeno esistono ma continuano a brillare, buchi neri, le comete e altro ancora.

Io non mi interrogo sull’universo in sé, mi domando cosa ci sta dietro. Nel 1969 ho fatto un disegno composto da puntini e il pubblico era invitato a unirli, come voleva. Ogni persona creava il proprio viaggio nell’universo, e le tracce di quel percorso erano descritte dai tratti con cui le persone completavano il mio disegno.

Riconsiderando quell’opera dei miei inizi, trovo ancora in me la stessa domanda senza risposta: cosa c’è dietro a tutto questo? C’è uno scopo più elevato dietro all’ordine e alle proporzioni che governano l’universo? E qual è il posto degli esseri umani all’interno di questo ordine?

Dopo aver riflettuto, vorrei proporre un’istallazione in cui il pubblico può compiere un viaggio mentale nell’universo.

Una foto pubblicata da veronica cestari (@veronica.cestari) in data:

Una foto pubblicata da veronica cestari (@veronica.cestari) in data:

Ho visto Ida nella Camera della Badessa in San Paolo

Correggio, Giunone Punita, Camera della Badessa in San Paolo, Parma
Correggio, Giunone Punita, Camera della Badessa in San Paolo, Parma

Nel giro di poche ore ho visto Ida, il film del 2013 di Paweł Pawlikowski, Premio Oscar per il miglior film straniero nel 2015, e la Camera della Badessa in San Paolo di Correggio a Parma.

Le due opere non hanno nulla a che vedere una con l’altra. A parte che quella di Correggio è realizzata per una suora e quella di Pawlikowski, invece, parla di una giovane suora. Ma non è questo è che mi interessa. A me interessa il tema del bianco e nero.

Nella parte bassa del soffitto dell’ex convento di Parma, Correggio inserisce una serie di sedici meravigliose lunette monocrome. Il pittore simula un’illuminazione dal basso che proietta l’ombra delle figure sullo sfondo della finta nicchia, creando una perfetta illusione di profondità. Il bianco e nero di Correggio è molto chic. Si può dire: “color perla”?

Forse è stata la meravigliosa Giunone Punita a ricordarmi l’esile figura di Agata Trzebuchowska. Uno strano cortocircuito, lo ammetto.

In ogni caso il film di Pawlikowski è un’esperienza estetica molto intensa. La fotografia, curata da Ryszard Lenczewski Łukasz Żal è magistrale e si è guadagnata la nomination agli Oscar. Il bianco e nero è pieno, corposo. Ricchissimo lo spettro dei grigi. Elegante e mai retorico.

Recensendo il film David Denby del New Yorker ha scritto:

I can’t recall a movie that makes such expressive use of silence and portraiture; from the beginning, I was thrown into a state of awe by the movie’s fervent austerity

Ecco, forse è l’espressione “fervente austerità” ad accomunare Ida alle lunette di Correggio. Fervente e austera è anche Naima di John Coltraine che Felix, il giovane sassofonista del film, suona per Ida.

bg-5_0

bg-story

ida_still_09

ida_still_05

Rachel Rose: Everything And More

Quando sono stato al Whitey Museum di New York, il mese scorso, ho visto la videoistallazione dell’artista americana Rachel Rose, classe 1986, intitolata Everything And More.

Rachel Rose, Everything and more

Il lavoro parte dall’intervista audio a David Wolf, un astronauta della Nasa che ha trascorso un periodo sulla stazione spaziale MIR. Wolf racconta le esperienze sensoriali fatte nello spazio. Rose intreccia questo racconto con un altro audio realizzato campionando una celebre esibizione di Aretha Franklin del 1972 nella quale canta Amazing Grace della quale seleziona solo le parti non verbali. “Sopra il video” scorrono immagini di diverso genere: concerti di musica elettronica, un laboratorio in cui si simula l’assenza di gravità e immagini astratte realizzate dalla stessa Rose mescolando olio, latte e altri prodotti.

Rachel Rose, Everything and more Rachel Rose, Everything and more

L’opera è proiettata su uno schermo semitrasparente e l’istallazione dialoga con le vetrate antistanti, quasi in una citazione di Robert Irwin. Scrive Christopher Y. Lew in un saggio dedicato al video:

For Everything and More, she integrates an essayistic, expository mode with an idiosyncratic poetry. Through the compilation of seemingly unrelated material—first-person narration, music ranging from gospel to electronic dance music (EDM), and swirling chemicals—she has created a work that goes beyond its constituent parts to address ideas of human perception through direct experience and an emotive sensibility.

L’opera ha una forte connotazione pittorica. Ha un’anima epica e intima allo stesso tempo. Tiene insieme l’epopea della conquista dello Spazio e la dimensione personale della percezione. Sa essere visionaria e analitica. Una bella sorpresa.

Rachel Rose aveva esposto lo scorso lo scorso autunno anche alla Serpentine Gallery di Londra. In questo video racconta l’opera Palisades:

Un disegno del padre di Dan Vo

Sono stato al Whitney Museum di New York. Tra le diverse cose mi ha colpito un’opera vista nella mostra sulla collezione di Thea Westreich Wagner e Ethan Wagner. L’opera è questa:

Danh Vo 02.02.1861, 2009
Danh Vo 02.02.1861, 2009

Ho trovato questa breve spiegazione che l’artista fa dell’opera:

«Il Vietnam è l’unico paese asiatico che durante il dominio francese è passato all’utilizzo dell’alfabeto latino. Tradizionalmente, un abile calligrafo può trovare lavori migliori. Mio padre non ha mai utilizzato le sue capacità di scrittura dal suo arrivo in Danimarca, anche perché non ha mai imparato il danese e nessun’altra lingua europea. A volte ho visto la sua calligrafia perché l’ho visto scrivere i cartelli per i suoi negozi di alimentari che nel corso degli anni ha avuto vivendo in Occidente.
L’opera consiste nel fatto che mio padre copia l’ultima lettere di San Theophane Venard a suo padre prima che venga ucciso e decapitato dai funzionari vietnamiti nel 1861. Mio padre non sa che cosa è scritto nella lettera, ma è contento di copiarla perché lo pago per ogni copia che fa. Dovrebbe ricevere 150 dollari ogni volta.
È uno dei miei lavori preferiti. Si tratta di un disegno perché mio padre sa l’alfabeto, ma non sa quello che sta scrivendo» (Danh Vo)

Il titolo dell’opera e il numero di edizioni del lavoro rimane indefinito fino alla morte di Phung Vo (padre di Dahn). Ogni testo scritto a mano arriva in una busta ed è spedito da Phung Vo a chi acquista l’opera.

Tra l’altro: a chi sa il francese consiglio di leggere la lettera.