AMMUTOLITI DAVANTI ALLA CHIMERA DI MARIO SCHIFANO

la Chimera - 1986
La Chimera, 1986 foto by Teocat

Quest’estate sotto l’ombrellone (si fa per dire) ho letto Mario Schifano – Una biografia di Luca Ronchi (Johan&Levi). Ne ha parlato da par suo Giovanni Frangi su ArtsLife. Io volevo proporvi qui uno di brani più belli del libro, quando l’ultima donna di Schifano, Monica de Bei, racconta della performance di Firenze dalla quale nacque La Chimera. Da questo racconto e dagli altri contenuti nel libro si capisce che all’inizio ci fu un gran casino (contestazioni, fischi, Renzo Colombo parla di lanci di monetine). Poi lo stupore. E il silenzio.

Monica de Bei – Nella primavera dell’85 fu chiamato dal regista Aldo Rostagno a inaugurare l’anno degli Etruschi a Firenze. Per l’evento aveva pensato di dipingere un grande quadro dal vivo, in pubblico in piazza dell’Annunciata, mentre Achille (Bonito Oliva, ndr) avrebbe commentato il work in progress come un cronista delle dirette televisive di ciclismo. Per gli amici facemmo stampare da Rinaldo Rossi una T-shirt con la scritta LIVE, come per un concerto! Aveva deciso di utilizzare l’immagine della Chimera di Arezzo, con il suo aspetto multiforme, rappresentante “il sommo dio etrusco, principio cangiante di ogni cosa”. Le dimensioni dell’opera erano fuori misura, quattro metri di altezza per dieci di lunghezza, composta da dieci tele due metri per due accostate l’una all’altra, quaranta metri quadri di pittura.

***

La piazza era piena all’inverosimile, gli organizzatori dicevano che c’erano circa seimila persone, una cosa che intimidiva.
Mario salì su un palco quasi a misura del quadro, i fari proiettavano una luce abbagliante, la gente lo sfiorava allungando le braccia per poterlo toccare. Cominciò nel brusio generale a fare il colore del fondo su quell’enorme distesa di tele bianche sdraiate. Gli assistenti gli passavano i secchi pieni di vernice, i minuti scorrevano e Mario sempre più veloce si muoveva da una parte all’altra distribuendo rapide pennellate, posizionando e contornando le sagome. I ragazzi non riuscivano a stargli dietro, Achille cominciò la sua cronaca ma dovette sopportare di tutto perché aveva dei detrattori tra il pubblico. Quando finalmente alzarono le tele per far colare lo smalto la gente ammutolì, i fischi cessarono. Ci fu un’esternazione di meraviglia.
Davanti ai nostri occhi aveva preso vita un paesaggio con la linea dell’orizzonte molto bassa. Dal terreno le sagome grondanti delle chimere partivano in volo verso il blu profondo del cielo, capovolgendosi e volteggiando nell’aria verso il bianco accecante della luce al lato opposto, a dissolversi come sogni al mattino.
Non si sentiva volare una mosca. Poi portarono un trabatello o come si chiama quella specie di piattaforma sopraelevata, Mario ci salì sopra per finire il lavoro e cominciò rapito a dipingere con due mani contemporaneamente. Sì, con due pennelli insieme: sembrava un direttore d’orchestra. Da sotto si fecero avanti li amici, gli assistenti, per aiutarlo, ma lui li cacciò via e seguitò nella sua sinfonia mentre uno schermo gigante mandava la sua immagine. Lo guardavo e pensavo che c’era riuscito, aveva realizzato un’opera emozionante come la sua esecuzione, uno spettacolo a cui tante volte avevo assistito da sola.

 

Di quella serata fu girato un video prodotto da Ettore Rosboch. Ma il filmato è andato perso. Restano le fotografie scattate da Marcello Gianvenuti pubblicate dall’editore Mastrogiacomo.

Mario Schifano, 1985 Firenze, Piazza dell’Annunziata (copyright Marcello Gianvenuti)
Mario Schifano, Piazza dell’Annunziata, Firenze, 1985 © Marcello Gianvenuti

EDUARDO CHILLIDA: EL PEINE DEL VIENTO AL MEETING DI RIMINIEDUARDO CHILLIDA: EL PEINE DEL VIENTO AT RIMINI MEETING

Eduardo Chillida, El Peine del Viento, 1977, San Sebastián
Eduardo Chillida, El Peine del Viento, 1977, San Sebastián

A luglio parlavo qui del rapporto tra il Meeting di Rimini e l’arte contemporanea. Poi a Rimini ci sono andato e ho scoperto che un artista contemporaneo si era intrufolato, niente meno, che nella conferenza più importante della kermesse: quella sul tema di quest’anno, “La natura dell’uomo è rapporto con l’infinito”. All’inizio della sua lezione don Javier Prades ha detto:

A proposito del senso delle sue sculture, Chillida sostiene che “tutte le opere d’arte in realtà sono interrogativi, domande”, e che le sue opere vogliono porci di fronte a un orizzonte infinito, di fronte a un punto di fuga misterioso insito in tutta la realtà: “Vorrei mettere l’uomo davanti a uno spettacolo così impressionante come è l’orizzonte, irraggiungibile, necessario. Perchè, se ci pensi bene, l’orizzonte è irraggiungibile, nessuno lo può negare. (…) Se tu avanzi, lui si sposta. Sono arrivato a pensare che forse l’orizzonte è la patria comune di tutti gli uomini…”. Nella contemplazione paziente dei suoi capolavori di fronte al mare – a San Sebastián e a Gijón -, si sente il “racconto” di una apertura, di una domanda di infinito tipicamente umana, che si converte in un abbraccio. La solidità del cemento armato e dell’acciaio si piega al movimento della “scrittura” di Chillida, e la materia più resistente si mette al servizio dell’anelito più alto dello spirito umano, una espressione dove tutti si incontrano.

Mi colpisce quanta energia ci sia nell’opera di San Sebastián. “Il pettine del vento” è stato progettato nel 1968, ma ci vollero nove anni perché fosse realizzato. È impressionante vedere le immagini dei lavori per l’istallazione di queste sculture d’acciaio pesanti 10 tonnellate. Uno sforzo tecnico enorme, degno di un’opera davvero potente. Impossibile da comprendere, forse, senza sentire dal vivo la forza del vento e la risacca del mare.

Eduardo Chillida, El Peine del Viento, 1977, San Sebastián
Eduardo Chillida, El Peine del Viento, 1977, San Sebastián
Eduardo Chillida, El Peine del Viento, 1977, San Sebastián
Eduardo Chillida, El Peine del Viento, 1977, San Sebastián

Eduardo Chillida, El Peine del Viento, 1977, San Sebastián
Eduardo Chillida, El Peine del Viento, 1977, San Sebastián

During the main conference of the Rimini Meeting this year, dedicated to the title “By nature, man is relation with the infine”, father Javier Prades spoke about, in a very interesting way, a contemporary sculptor:

About the meaning of his sculptures Chillida claims that “all the works of art are actually questions”, and that his works want to confront us in an infinite horizon, in front of a mysterious vanishing point inherent in the whole of reality: “I would like to put the man in front of a show as impressive as is the horizon, unreachable, necessary. Because if you think about it, the horizon is unreachable, no one can deny. (…) If you leftovers, he moves. I came to think that perhaps the horizon is the common homeland of all mankind…”. In patient contemplation of his masterpieces in front of the sea – San Sebastián and Gijón – you will hear the “story” of an opening on a question of infinite uniquely human, which is converted into a hug. The strength of reinforced concrete and steel bends to the movement of the “writing” of Chillida, and the material more resistant is putting the highest aspiration of the human spirit, an expression where all meet.

I am struck by how much energy there is in the work of San Sebastián. “The Comb of the Wind” was designed in 1968, but it took nine years to be realized. It is impressive to see the images of the works for the installation of these sculptures of steel that weigh 10 tons. Enormous technical effort, worthy of a work really powerful. Impossible to understand, perhaps, without feeling, live, the wind and the surf of the sea.

Eduardo Chillida, El Peine del Viento, 1977, San Sebastián
Eduardo Chillida, El Peine del Viento, 1977, San Sebastián
Eduardo Chillida, El Peine del Viento, 1977, San Sebastián
Eduardo Chillida, El Peine del Viento, 1977, San Sebastián

LE DUE DONNE CHE VEGLIARONO ARTURO MARTINITHE TWO WOMEN WHO WATCHED OVER ARTURO MARTINI

Arturo Martini davanti a un particolare del bassorilievo per il Palazzo di Giustizia di Milano, 1932
Arturo Martini davanti a un particolare del bassorilievo per il Palazzo di Giustizia di Milano, 1932

Recentemente mi hanno regalato il catalogo (Skira) della mostra su Arturo Martini, a cura di Claudia Gian Ferrari, Elena Pontiggia e Livia Velani esposta tra il 2006 e il 2007 alla Fondazione Stelline e al Museo della Permanente di Milano e alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Sono andato a leggermi la cronologia a cura di Elena Pontiggia e arrivato alla fine ho letto:

22 marzo 1947. Muore improvvisamente a Milano, a cinquantasette anni.
Il giorno prima era stato colto da un ictus ed era stato ricoverato all’ospedale Fratelli. Ricorda Vergani: “Aveva il fianco destra paralizzato e faceva cenno perché intendessero il suo strazio di non poter più lavorare. La sua amica mi disse ch’egli chiedeva una rivoltella: avrebbe voluto uccidersi. (…) Al suo capezzale (…) ho visto Manzù lacrimare, Marini non diceva nulla. Messina – l’altro epurato – stava in disparte. Quei tre uomini non potevano comprendersi e perdonarsi nemmeno davanti alla morte. (…) Non ho mai visto una scena di più alta nobiltà nell’incontro tra la moglie di Martini, la figlia del fornaio di Vado Ligure, e l’amica, che viveva con lui da più di vent’anni. L’amante ha consegnato alla moglie tutto ciò che aveva del morto: le chiavi, l’orologio, il libretto degli assegni, i piccoli conti pagati. Tutte e due poi sono andate a vegliare Arturo, nella camera mortuaria dell’ospedale: la moglie accarezzando ogni tanto sul viso il cadavere, l’amante accarezzandogli le ginocchia. Io solo ho visto questa scena incomparabile. Le due donne non si erano mai conosciute (Orio Vergani, Misure del tempo. Diario, 1990″.

Due immagini che sarebbero potute essere rappresentate in sculture dello stesso Martini: i tre artisti che visitano il collega e rivale morente e le due donne che vegliano la salma dell’uomo che fu marito e amante. Entrambe hanno un che di umano e contraddittorio. Quel gesto di Egle, poi, che restituisce a Brigida l’orologio e il libretto degli assegni di Arturo… È tanto struggente che sembra quasi inventato.

Arturo Martini, Ofelia, 1922, gesso (particolare)
Arturo Martini, Ofelia, 1922, gesso (particolare)

Arturo Martini davanti a un particolare del bassorilievo per il Palazzo di Giustizia di Milano, 1932
Arturo Martini in front of a detail of bas-relief for the Palace of Justice in Milan, 1932.

I recently received as gift the catalog oh Arturo Martini’s exhibition, edited by Claudia Gian Ferrari, Elena Pontiggia and Livia Velani. The show took place between 2006 and 2007 at Fondazione Stelline and Museo della Permanente in Milan and Galleria nazionale d’arte moderna in Rome. I read the chronology by Elena Pontiggia and I finally found this:

March 22, 1947. He died suddenly in Milan, at fifty-seven.
The day before had been seized by a stroke and was hospitalized at Fatebenefratelli Hospital. Vergani Remember: “His right side was paralyzed and beckoned to intend his terror of being unable to work. His friend told me that he asked a revolver, he wanted to kill himself. (…) At his bedside (…) I saw Manzù crying, Marini said nothing. Messina – the other purged – stood apart. Those three men could not understand and forgive even before death. (…) I’ve never seen a scene of higher nobility in the encounter between Martini’s wife, the baker’s daughter in Vado Ligure, and her friend, who lived with him for over twenty years. The lover gave to the wife everything she had belonging to the dead: keys , the clock, the checkbook, small accounts paid. Then both of them came in the morgue of the hospital and held a wake over Arturo: his wife caressing every now and then the corpse’s face, the lover fondling his knees. I was the only one tosee that incomparable scene. Both women had never known (Orio Vergani, Misure del tempo. Diario, 1990)”.

Two images that could have been represented in Martini’s sculptures: the three artists who visit the dying colleague and rival, and the two women who watch over the corpse of the man who was husband and lover. Both have a kind of human hearing. That gesture of Egle, then, returning to Brigida Arturo’s clock and checkbook… It is so heartbreaking that it almost seems invented.

Arturo Martini, Ofelia, 1922, gesso (particolare)
Arturo Martini, Ofelia, 1922, gesso (particolare)

KEITH HARING: UNA PALA D’ALTARE PRIMA DI MORIREKEITH HARING: AN ALTARPIECE BEFORE DYING

Keith Haring, The Ten Commandments 1985. Acrylic, oil on canvas 17.5 x 25 feet
The Ten Commandments 1985. Acrylic, oil on canvas 17.5 x 25 feet

Il 2 settembre a Udine apre la mostra Keith Haring Extralarge – The Ten Commandments, The Marriage of Heaven And Hell a cura di Gianni Mercurio. Non sono un fan di Haring, però questa cosa dei dieci comandamenti mi ha subito incuriosito. E sono andato a leggere un po’. Tutto mi sarei aspettato tranne che scoprire che il tema religioso in Haring non è affatto episodico o casuale. Di famiglia protestante, l’artista si avvicina durante l’adolescenza al Jesus Movement, i cui membri erano chiamati Jesus People o Jesus Freaks (il primo capitolo di questa tesi spiega bene la vicenda). Haring prenderà la sua strada, ma i riferimenti alla religione continueranno a emergere nella sua arte. L’esempio più semplice è quello della sua “tag”: nel Radiant Child molti vedono la figura di Gesù Bambino.

Non siamo qui a battezzare nessuno. Per carità.  È un fatto, però, che l’ultima opera di Haring sia una pala d’altare in bronzo ricoperta da foglia d’oro bianco. Oggi due dei multipli dell’opera The Life of Christ sono conservati nell’AIDS Interfaith Chapel della Grace Cathedral a San Francisco e nella St. Savior’s Chapel nella cattedrale episopale St. John The Divine nell’East Broadway. Ecco come nel 1990 Sam Havadtoy, artista e amico di Haring, racconta come nacque l’ultima opera del graffittaro più famoso della storia.

Nel 1989, Keith mi chiese di aiutarlo a decorare il suo nuovo appartamento a Manhattan. Nel salotto c’era un vecchio camino di mattoni che lui detestava, e così lo feci ricoprire di gesso. Mentre il gesso era ancora bagnato, suggerii a Keith di disegnarci sopra. L’idea gli piacque. Era come se il gesso fosse una tela tridimensionale. Gli piacque disegnare sul gesso, si esaltò moltissimo all’idea di questo nuovo medium. Quando ebbe finito, il risultato era stupendo. Allora gli proposi di fare un’edizione del camino e l’idea di nuovo gli piacque. Più tardi gli chiesi se volesse fare anche altri lavori in quel modo, magari dei pannelli o dei tavoli. Rise. Ma disse che gli sembrava una buona idea, e che l’avrebbe fatto.

Facemmo fare dei calchi per i panneli e per i tavoli, mi venne anche un’ispirazione all’ultimo minuto e cosi feci fare dei calchi speciali fatti a forma di icona russa, una pala d’altare, la versione ingrandita di una piccola icona che avevo visto in un negozio a Ginevra. Tutti i calchi furono portati in una quieta stanza, una sorta di utero materno, nel Dakota. Furono riempiti di creta fresca. Keith arrivò. Infilò una cassetta nel  suo ghetto blaster, alzò il volume e sorseggiando una Coca si preparò a lavorare.

Invece del pennello, per la prima volta usò una spatola. Maneggiava la spatola in modo del tutto libero e spontaneo, come se stesse brandendo i suoi pennelli. Man mano che lavorava cominciò a prenderci sempre più gusto. Disse che gli sembrava impossibile che gli ci fosse voluto così tanto per scoprire questo tipo di scultura. Non fece alcun disegno preliminare, solo uno schizzo veloce del ballerino sul terzo pannello, che realizzo su un pezzo di legno cinque centimetri per dieci. Le immagini arrivavano direttamente dalla sua testa. Infilò la spatola nella creta e scolpì una linea ininterrotta, un solco profondo 6 mm e mezzo, che si snoda come un ruscello in piena durante il disgelo primaverile. Non si fermò mai a ripensare la linea, non si fermò a rivederla, non fece alcuna correzione. Le linee che tracciò nella creta erano perfette, senza alcuna interruzione. Keith finì i pannelli e poi per la prima volta vide le tre parti di altare. Le guardò a lungo  in silenzio. Poi cominciò a lavorare. Infilò il coltello nella creta e cominciò a incidere linee curve. Le immagini che emersero erano diverse dalle altre. Erano religiose: una scena ispirata alla vita di Cristo, una bambino che, sostenuto da due mani, ascendeva al cielo, Cristo in croce. Su un lato del pannello scolpì la resurrezione. Sull’altro, un angelo caduto. Quando Keith ebbe finito, fece qualche passo indietro, guardò con attenzione il suo lavoro e disse: “Diavolo, questa si che è roba forte”. Quando finì di lavorare era esausto, e per la prima volta mi resi conto di quanto fosse diventato fragile. Era assolutamente senza fiato. Disse: “Mentre sto lavorando mi sento bene, ma appena smetto, mi piomba tutto addosso”.
La pala d’altare fu l’ultima opera di Keith.

Keith Haring, Altarpiece: The Life of Christ, 1990. Bronze with white gold leaf patina.  81 x 60 x 2 in
The Life of Christ, 1990. Bronze with white gold leaf patina. 81 x 60 x 2 in
Keith Haring, The Ten Commandments 1985. Acrylic, oil on canvas 17.5 x 25 feet
The Ten Commandments 1985. Acrylic, oil on canvas 17.5 x 25 feet

The exhibition Keith Haring Extralarge The Ten Commandments – The Marriage of Heaven and Hell by Gianni Mercurio opens in Udine on September 2. I’m not a  Haring’s fan, but the idea of Ten Commandments immediately intrigued me. I went to read around. Everything I expected except discover that the religious theme in Haring is not episodic or random. Born in a Protestant family, the artist approaches during adolescence in Jesus Movement, whose members were called Jesus People or Jesus Freaks (the first chapter of this dissertation explains the story). Haring take his own way, but the references to religion will continue to emerge in his art. The simplest example is his “tag”: the Radiant Child, in which many see the image of the Baby Jesus.

We are not here to baptize anyone. It is a fact, however, that Haring’s last work is an altarpiece cast in bronze with white gold leaf patina. Two of the editions of The Life of Christ can be seen in AIDS Interfaith Chapel of Grace Cathedral in San Francisco and St. Savior’s Chapel in the Cathedral of St. John The Divine in East Broadway. Here’s how Sam Havadtoy, an artist and Haring’s friend, in 1990 tells how the work was born.

In 1989, Keith asked me to help him decorate his new Manhattan apartment. In his living room was an old brick fireplace which he hated, so I had it plastered over. The plaster was wet and I suggested that he draw into it. He thought it was a cool idea. It was as if the plaster were a three-dimensional textured canvas. He loved drawing in the plaster, and got very excited about the new medium. When he finished, it was very beautiful. I asked him if he wanted to make an edition of the fireplace and he loved the idea. Later, I asked him if he wanted to do other works in editions — perhaps, panels and tables. He laughed. But he said he liked the idea — he would do it.

Trays were made for the panels and tables. I also had a last-minute inspiration and had special trays made in the shape of a Russian icon, an altar piece, a large version of a miniature icon I saw in a shop in Geneva. All the trays were then laid out in a quiet, womblike room in the Dakota. Trays were filled with fresh clay. Keith arrived. He snapped a tape into the ghetto blaster, turned up the music, sipped a Coke and set to work.
Instead of a brush, for the first time, he used a loop knife. He handled the knife freely and spontaneously like he wielded his brushes. As he worked, he became more and more excited. He said that he couldn’t believe it had taken him so long to discover this kind of sculpture. He made no preliminary drawings except for a quick sketch of the dancer on the third panel, which he made on a two-by-four piece of wood. Yet he was completely sanguine as he cut into the clay. The images came directly from his head. He placed the knife in the clay and carved a continuous running line, a quarter-of-an-inch deep groove, which wound like a swollen stream during the spring thaw. He never stopped to rethink the line; he never edited himself and never made corrections. The lines he carved in the clay were seamless, flawless.

Keith finished the panels and then, for the first time, saw the three altar piece sections. He stared at them and was silent. Then he set to work. He cut into the clay and began to carve freeflowing lines. The images that emerged were unlike the others. They were religious: an inspiration of the life of Christ; a baby held by a pair of hands; hands ascending toward heaven; Christ on the cross. On one side panel he depicted the resurrection. On the other, a fallen angel. When Keith finished, as he stepped back and gazed at this work, he said, “Man, this is really heavy.” When he stopped, he was exhausted, and it was the first time I realized how frail he had become. He was completely out of breath. He said, “When I’m working, I’m fine, but as soon as I stop, it hits me . . . ”

The altar was Keith’s final piece of work.

Keith Haring, Altarpiece: The Life of Christ, 1990. Bronze with white gold leaf patina.  81 x 60 x 2 in
The Life of Christ, 1990. Bronze with white gold leaf patina. 81 x 60 x 2 in

C’ERA UNA VOLTA L’ARTE CONTEMPORANEA AL MEETING DI RIMINI

Meeting di Rimini, mostra di Francis Bacon, 1983
I quadri di Francis Bacon al Meeting di Rimini del 1983.

Si avvicina il Meeting di Rimini. Per curiosità mi sono andato a rivedere l’archivio delle passate edizioni. In particolare la sezione dedicata alle mostre. Mi ha molto colpito il numero di mostre dedicate all’arte contemporanea durante le prime edizioni della manifestazione ciellina. I nomi, poi, sono da pelle d’oca: Richard Long, Luigi Ghirri, Graham Sutherland, Francis BaconHenri Moore, James Turrell, Robert IrwinCarl Andre, Renato Guttuso… Tutti erano presenti con proprie opere. Molti nomi sono legati alla figura del Conte Panza. Altri a Giovanni Testori. Due figure completamente agli antipodi, eppure entrambi lì, al Meeting. Poi tanta fotografia di altissimo livello: chi in Italia conosceva Martin Parr? Chi aveva visto gli originali di Camera Work?

Una cosa è certa: allora il Meeting di Rimini era una sede espositiva di arte contemporanea di livello internazionale. Sarebbe bello ricominciasse ad esserlo.

Ecco l’elenco delle mostre di arte contemporanea e fotografia delle prime otto edizioni. Tanta roba.

1980

L’arte russa non ufficiale
a cura di Gleser Alexandre

Paesaggi interiori
mostra di Luigi Ghirri, Giovanni Chiaramonte, Piero Pozzi

La bellezza è piena di volti
mostra di Claudio Pastro

Personale di Vittorio Citterich

1981

Come un artista crea
foto di Elio Ciol su William Congdon

Il Cristo e le Crocifissioni
mostra di Graham Sutherland

Land art
mostra di Richard Long

1982

Il volto dell’uomo
a cura di Mario De Micheli

Arte come presenza
a cura di Mario Cappelletti, Mario De Micheli, Isa Ghianda, Stefano Peroni

La pittura come liturgia
mostra di Carmine Benincasa

1983

Il grido prima dell’orrore. Mostra di quadri di Francis Bacon
a cura di Giovanni Testori

Significati nel visibile
a cura di Giovanni Chiaramonte

L’arte concettuale: la scuola di New York
a cura di Giuseppe Panza

Il sacro nell’opera di Sassu
a cura di Giorgio Mascherpa

Henri Moore
a cura di Carmine Benincasa, Cleto Polcina

Spes contra spem. Opere di Renato Guttuso
a cura di Carmine Benincasa

1984

Action Painting
a cura di Fondazione Solomon Guggenheim

Carl Andre: Natura e razionalità
a cura di Giuseppe Panza

America addio: William Congdon pittore del mondo
a cura di Giuseppe Mazzariol

I due infiniti momenti della fotografia americana
a cura di Giovanni Chiaramonte

Documenti dell’arte americana dal 1950 al 1975
a cura di Giuseppe Panza

1985

Personale di George Segal
a cura di Daniel Berger

Via Crucis atomicae
mostra di Camilian Demetrescu

1986

Chagall monumentale
a cura di Sylvie Forestier, Brigitte Les Marq, Charles Les Marq

William Eugene Smith: Usate la verità come pregiudizio
a cura di John G. Morris

1987

Il Miserere di Georges Rouault

Il senso della spiritualità nell’arte di Guttuso

L’atelier Picasso
a cura di Charles Feld

Gaudì e il sacro
a cura di Maria Antonietta Crippa, Enrico Magistretti

Arte ambientale: James Turrell e Robert Irwin
a cura di Giuseppe Panza

Omaggio ad Andrej Tarkovskij
a cura di Nathan Fedorowskij

SPEGNETE QUEI DAN FLAVIN. SCOPRIRETE IL LORO SEGRETOTURN OFF THOSE DAN FLAVINS. YOU’LL DISCOVER THEIR SECRET

Le stanze di Villa Panza a Varese con le istallazioni di Dan Flavin hanno un segreto. Era una cosa tra l’artista americano e il Conte. Pochi altri ne erano a conoscenza. Poi, nel 2004, al fotografo Giovanni Chiaramonte chiedono di confrontarsi con gli spazi della villa. Gli enigmi della collezione sono tanti, ma questo poteva scioglierlo solo un fotografo. Chiaramonte notò che nelle stanze di Flavin entrava un raggio di luce da un piccolo foro sulla parete. Domandò al Conte a cosa servisse quel foro. E il vecchio collezionista rispose sornione: «Può capitare che la gente si senta oppressa dallo spazio, in quel caso può andare lì e guardare all’esterno…».  Si trattava senza dubbio di una balla solenne. Il fotografo osservò quei fori dell’esterno. Vide che le finestre erano oscurate con degli specchi verso l’esterno. Al che, l’istinto primordiale del fotografo gli fece dire: «È una camera oscura!». Flavin aveva trasformato le stanze di Villa Panza in grandi camere oscure e quei buchi alle pareti non potevano essere altro che dei fori stenopeici… Fece spegnere i neon e, come per magia, il paesaggio esterno comparve capovolto sulle pareti opposti ai fori. Fotografò quel fenomeno e lo inserì nella serie Di_stanze che pubblicò quell’anno sulla rivista Lotus Navigator. Qui sotto quattro foto di quel progetto. Nelle prime due, le stanze viste come appaiono di solito. Nelle seconde due, le stesse stanze con i neon spenti. Non c’è trucco non c’è inganno.

In fondo il minimalismo di Flavin aveva davvero nostalgia dell’immagine…

Per chi non c’è mai stato e per chi ha voglia di rivedere queste opere con occhi nuovi ci vediamo a Villa Panza giovedì 26 luglio per la visita guidata organizzata da Tracce e l’Associazione Testori.

Giovanni Chiaramonte, D_Stanze, 2004. Dan Flavin, Villa Panza
© Giovanni Chiaramonte, 2004

Giovanni Chiaramonte, D_Stanze, 2004. Dan Flavin, Villa Panza
© Giovanni Chiaramonte, 2004
Giovanni Chiaramonte, D_Stanze, 2004. Dan Flavin, Villa Panza
© Giovanni Chiaramonte, 2004
Giovanni Chiaramonte, D_Stanze, 2004. Dan Flavin, Villa Panza
© Giovanni Chiaramonte, 2004

The rooms of Villa Panza in Varese with installations by Dan Flavin have a secret. It was something between the American artist and Count Panza. Few others knew about it. Then, in 2004, the photographer Giovanni Chiaramonte is asked to deal with the spaces of the villa. The enigmas in the collection are many, but this could be dissolved by a photographer. Chiaramonte noticed that in Flavin’s room a beam of light enter from a small hole on the wall. He asked the Count what it was for. And the old collector replied slyly, “It can happen that people feel oppressed by the space, in that case they can go there and look outside…”. It was certainly a solemn fib. The photographer watched those holes from outside. He saw that the windows were obscured with mirrors. The primal instinct of the photographer made him say: “It’s a dark room!”. Flavin had transformed the rooms of Villa Panza in big dark rooms, and those holes on the walls could not be other than the pinhole… He turned off the neon lights and, like magic, the outdoor landscape appeared upside down on the walls opposite the holes. He photographed the phenomenon and inserted it in the series Di_stanze in the published in Lotus Navigator. Below four photos of that project. In the first two, the rooms are seen as usually. In the latter two, we see the same rooms with the neon off. There is no trick.

After all, Flavin’s minimalism had really nostalgia of the image…

Giovanni Chiaramonte, D_Stanze, 2004. Dan Flavin, Villa Panza
© Giovanni Chiaramonte, 2004

Giovanni Chiaramonte, D_Stanze, 2004. Dan Flavin, Villa Panza
© Giovanni Chiaramonte, 2004
Giovanni Chiaramonte, D_Stanze, 2004. Dan Flavin, Villa Panza
© Giovanni Chiaramonte, 2004
Giovanni Chiaramonte, D_Stanze, 2004. Dan Flavin, Villa Panza
© Giovanni Chiaramonte, 2004

TEO NEGRI È UN CAVALIERE JEDI? FORSE SÌ. FORSE NO

I nodi di Matteo NegriL’altro giorno pensavo ai nodi di Teo Negri. Mi domandavo chi o quale forza avesse preso questi pezzi di Lego fuori misura e li avesse piegati e annodati. Avevo sempre pensato che i Lego fossero piccoli e rigidi. E invece, evidentemente, ne esistono di giganti. E qualcuno o qualcosa ami annodarli. In un primo momento ho pensato che fosse il caldo a renderli malleabili. Il caldo sprigionato dalle mille bombe esplose nello studio di Teo? Ne avrà esplosa qualcuna termonucleare o qualcosa di simile?

Poi mi sono ricordato che un giorno sono entrato da Hamleys, un immeso negozio di giocattoli su Regent Street a Londra, dove ho trovato un Dart Fener a grandezza naturale costruito con mattoncini di Lego. Ho pensato allora che a rendere possibili i nodi di Teo Negri fosse il lato oscuro della Forza. Poi mi sono detto che da qualche parte, in qualche altro negozio di giocattoli, ci poteva essere un Luke Skywalker fatto di mattoncini e che quindi non necessariamente era proprio il lato oscuro. Comunque in questo modo si spiegherebbero anche le dimensioni di queste sculture: prima li ha ingigantiti, li ha piegati e poi annodati. Con la Forza si fa questo e altro.

Ma ora la domanda che si impone è: Teo Negri è un cavaliere Jedi?

Temo di no. Primo perché non ha mai estratto in mia presenza una spada laser. Secondo perché quando mi offre il kebab in via Mac Mahon paga come tutti gli altri.

Ma quel che bisogna capire davvero è: perché diavolo a qualcuno viene in mente di annodare dei pezzi di Lego giganti?

Ipotesi 1: si annoiava

Ipotesi 2: pensava che qualcuno l’avrebbe pagato per farlo

Ipotesi 3: aveva bisogno di ricordarsi qualcosa

Pistola alla tempia? Io sarei per l’Ipotesi 3. Anche se le altre due restano molto verosimili. Mi verrebbe da dire che i nodi di Teo Negri sono dei grandi promemoria. Per ricordare che cosa? Non lo so. Chiedetelo a lui. Ma ho l’impressione che, viste le dimensioni, si tratti di qualcosa di importante. Oppure ne abbia bisogno chi ha poca memoria.

I due nodi che amo di più sono quello a forma di lazzo e quello a forma di nodo scorsoio. Gi altri hanno forme più rassicuranti. Questi, invece, evocano il rodeo e la forca. È facile capire perché qualcuno abbia bisogno di un lazzo fatto di Lego. Il rodeo è un gioco, in fondo. Mentre è quasi incomprensibile che qualcuno prepari un’impiccagione con una corda-giocattolo. I casi sono due :

a) aveva finito la corda vera

b) avrebbe voluto che fosse tutto un gioco

Io penso che nessun bambino vorrebbe giocare con un nodo di Teo Negri. Innanzitutto perché è impossibile usarli per giocare e poi perché nelle camerette occupano troppo spazio.

Sono convinto che molti adulti li desiderano perché sanno che il tempo dei giochi è finito. E hanno bisogno, in qualche modo, di ricordarselo.

MOLTO FORTE, INCREDIBILMENTE ROTHKOEXTREMELY LOUD AND INCREDIBLY ROTHKO

Motivi per cui mi pento di non essere ancora andato a vedere “Molto forte, incredibilmente vicino”, il film di Stephen Daldry tratto dall’omonimo romanzi di Jonathan Safran Foer.

Max von Sydow e Thomas Horn in una scena del film
Max von Sydow e Thomas Horn in una scena del film
Mark Rothko, White Over Red, 1957
Mark Rothko, White Over Red, 1957

Grazie a Maddalena per l’idea.

Reasons why I would like to see “Extremely Loud and Incredibly Close”, Stephen Daldry‘s film adapted from the novels of Jonathan Safran Foer.

Max von Sydow and Thomas Horn in a movie scene.
Max von Sydow and Thomas Horn in a movie scene.
Mark Rothko, White Over Red, 1957
Mark Rothko, White Over Red, 1957

Thanks to Maddalena for the idea.

JENNY SAVILLE, MAMMA E PITTRICE AL MODERN ART OXFORDJENNIY SAVILLE, MOTHER AND PAINTER AT MODERN ART OXFORD

Tra alcuni giorni aprirà una retrospettiva di Jenny Saville al Modern Art Oxford. È la prima volta che un’istituzione pubblica inglese dedica una mostra alla pittrice resa famosa da Charles Saatchi prima e da Larry Gagosian poi. Rachel Cooke sul Guardian le dedica un lungo articolo che vi consiglio di leggere. Mi hanno colpito tre passaggi in particolare:

«Non sono contro l’arte concettuale. Non penso che la pittura debba essere rivalutata. L’arte rispecchia la vita, e le nostre vite sono piene di algoritmi, così molte persone vogliono fare arte come se fosse un algoritmo. Ma il mio linguaggio è la pittura, e la pittura è l’opposto. C’è qualcosa di primitivo in essa. Il bisogno di fare segni è innato. È per questo che quando si è bambini si scarabocchia».

Abbiamo parlato annche del lavoro di altri. Le piacciono sia Gerhard Richter alla Tate Modern che Lucian Freud alla National Portrait Gallery. «È triste che Freud non dipingerà mai più. Ma sto cercando di capire se sia un grande artista o un grande ritrattista. In fondo, perché non dovrebbe essere un grande artista? Ma quando guardo Richter, me lo domando. Richter è senza dubbio un grande artista nel senso pieno della parola».

Recentemente, ha lavorato sul tema della maternità (ha due bambini picoli). «La gente mi diceva [prima che avessi figli] che non sarei stata in grado di impegnarmi nel lavoro una volta che sarebbero nati». Chi erano? Donne? «No!» ride. «Erano uomini. Comunque si sbagliavano. Ora mi godo il mio lavoro dieci volte di più di prima. È ancora una necessità, qualcosa che devo fare. Ma sono più libera da preoccupazioni».

Tra il 2010 e il 2012 Jenny Saville ha lavorato proprio sul tema della maternità. Si è fatta fotografare incinta con il primo figlio in braccio e poi con entrambi i figli. La citazione esplicita è del cartone di Leonardo della National Gallery. Il risultato è la serie “Reproduction” di cui qui sotto ci sono grandi disegni. A me paiono di una bellezza straordinaria. Mi colpisce come la Saville abbia sentito il bisogno, nel rappresentare il rapporto con i suoi figli, di rendere il senso di movimento. Come se il rapporto tra madre e figlio fosse necessariamente dinamico e  fonte di un’energia centrifuga. Ed è proprio questa energia che diventa il vero soggetto del quadro.

Jenny Saville, Reproduction drawing IV (after the Leonardo cartoon), 2010
Reproduction drawing IV (after the Leonardo cartoon), 2010

Jenny Saville, Reproduction drawing II (after the Leonardo cartoon), 2009-2010
Reproduction drawing II (after the Leonardo cartoon), 2009-2010

Jenny Saville, Reproduction drawing I (after the Leonardo cartoon), 2009-2010
Reproduction drawing I (after the Leonardo cartoon), 2009-2010

Jenny Saville, Reproduction drawing III (after the Leonardo cartoon), 2009-2010
Reproduction drawing III (after the Leonardo cartoon), 2009-2010

In a few days will open a Jenny Saville’s retrospective at Modern Art Oxford. It is the first time that a British public institution devoted an exhibition to the painter made famous by Charles Saatchi and Larry Gagosian. Rachel Cooke in The Guardian devotes a long article that I recommend you read. Here are three passages in particular:

«I’m not anti conceptual art. I don’t think painting must be revived, exactly. Art reflects life, and our lives are full of algorithms, so a lot of people are going to want to make art that’s like an algorithm. But my language is painting, and painting is the opposite of that. There’s something primal about it. It’s innate, the need to make marks. That’s why, when you’re a child, you scribble».

We talk, too, about other people’s work. She loved both Gerhard Richter at Tate Modern and Lucian Freud at the National Portrait Gallery. «It’s sad he [Freud] is not going to make any more paintings», she says. «But I’m trying to work out whether he can be seen as a great artist, or whether he is a great portrait painter. I mean, why shouldn’t he be a great artist? But then you look at Richter, and you wonder. Richter is definitely a great artist in the fullest sense of the word».

More recently, she has been inspired by motherhood (she has two small children). «People told me [before I had children] that I wouldn’t be able to engage with my work in the same way once they were born». Which people? Were they women? «No!» She laughs. «They were guys. Anyway, they were wrong. I enjoy the work 10 times more now. It’s still a necessity to me, something I have to do. But I’m more carefree. Partly, it’s watching them – the total freedom they have, scribbling across paper, the way they paint without any need for form. I thought: I fancy a bit of that myself».

Between 2010 and 2012 Jenny Saville has been working on the theme of motherhood. She has been photographed when she was pregnant with her first child in her arms and then with both children. The explicit mention is of Leonardo’s cartoon at the National Gallery. The result is the series “Reproduction” (below). I think they are extraordinarily beautiful. It strikes me as Saville felt the need, representing the relationship with his children, to evoke a sense of movement. As if the relationship between mother and son were necessarily dynamic and source of centrifugal energy. It is this energy that becomes the true subject of the picture.

Jenny Saville, Reproduction drawing IV (after the Leonardo cartoon), 2010
Reproduction drawing IV (after the Leonardo cartoon), 2010

Jenny Saville, Reproduction drawing II (after the Leonardo cartoon), 2009-2010
Reproduction drawing II (after the Leonardo cartoon), 2009-2010

Jenny Saville, Reproduction drawing I (after the Leonardo cartoon), 2009-2010
Reproduction drawing I (after the Leonardo cartoon), 2009-2010

Jenny Saville, Reproduction drawing III (after the Leonardo cartoon), 2009-2010
Reproduction drawing III (after the Leonardo cartoon), 2009-2010

CY TWOMBLY, COLORI COME LUCECY TWOMBLY, COLORS LIKE LIGHT


Avrei dato chissà cosa per andare a vedere questa mostra a Los Angeles. Chiude proprio in questi giorni. È “The Last Paintings” di Cy Twombly. A me pare che con questi ultimi quadri Twombly dimostri che nell’ultima parte della vita abbia raggiunto un livello altissimo di sintesi. La semplicità coerente della forma e la felicità nell’uso del colore che diventa forza e luce. Quella di Twombly è stata una vecchiaia degna di un grande. Sempre all’attacco. Sempre con la voglia di stupirsi. Quasi che la sua Ponza si fosse trasformata nella nuova Giverny di un Monet a stelle e strisce. Una vecchiaia gioiosa che ci ha regalato cicli indimenticabili  – sì, cicli, perché la sua opera aveva assunto questo passo non improvvisato, molto pensato, ma leggero nel risultato – come Lepanto (2001), A Gathering of Time (2003), Blooming: a Scattering of Blossoms and Other Things (2007), The Rose (2008), Leaving Paphos Ringed with Waves (2009) e Camino Real (2010). Non penso che si possa parlare di compimento di un percorso o culmine di una carriera, perché l’impressione è che se Twombly avesse avuto ancora dieci anni da vivere la sua pittura sarebbe ancora migliorata.
Il senso di felicità che si portano questi quadri fa quasi venire invidia.


I would have given anything to go see this show in Los Angeles. The exhibition closes on these days. It’s “The Last Paintings” by Cy Twombly. It seems to me that with these latest paintings Twombly show that in the latter part of life has reached a very high level of synthesis. The consistent simplicity of form and happiness of use of color that becomes power and light. Twombly’s old age was worthy of a great. Always on the attack. Always with the desire to be amazed. His Ponza was transformed into a new Monet’s Giverny. A joyous old age that gave us unforgettable cycles – yes, cycles, because his work had taken this step not improvised, much thought, but light in the result – as Lepanto (2001), A Gathering of Time (2003), Blooming: a scattering of Blossoms and Other Things (2007), The Rose (2008), Leaving Paphos Ringed with Waves (2009) and Camino Real (2010). I do not think you can talk about successful completion of a course or culmination of a career, because the impression is that if Twombly had ten more years to live, his painting would be even better.

The sense of happiness, that these paintings bring, almost brings envy