GABRIELE BASILICO E IL VENTO DI MILANO

“Per essere ancora più precisi, il progetto inizia esattamente nel weekend di Pasqua del 1978. (…) La città era semideserta e un vento straordinariamente energico aveva ripulito l’orizzonte: era una giornata di luminosità eccezionale, uno di quei rari giorni che stupiscono i milanesi perché “si vedono così bene le montagne che sembra di poterle toccare con la mano”. Il vento, quasi assecondando una tradizione letteraria, sollevava la polvere, metteva agitazione nelle strade, puliva gli spazi fermi, ridonando plasticità agli edifici, rendendo più profonde le prospettive delle strade in una sorta di maquillage atmosferico che permetteva alla luce di proiettare con vigore e nettezza le ombre degli edifici.
Per la prima volta ho “visto” le strade e, con loro, le facciate delle fabbriche stagliarsi nitide, nette e isolate su un cielo inaspettatamente blu intenso, grazie al quale la visione consueta delle forme diventava improvvisamente inusuale. Ho potuto vedere così, come se non l’avessi mai visto prima, un lembo di città senza il movimento perpetuo quotidiano, senza le auto in sosta, senza persone, senza suoni e rumori. Ho visto l’architettura riproporsi nella sua essenza, filtrata dalla luce, in modo sorprendentemente scenografico e monumentale”.

Gabriele Basilico, “Architetture, città, visioni – Riflessioni sulla fotografia”, Bruno Mondadori, 2007, pag. 24.

ROBERT ADAMS SAYS YES

Robert Adams (1937) è considerato un maestro della fotografia americana. Quest’anno l’università di Yale gli dedicherà un libro e una retrospettiva che girerà l’America e l’Europa. Di seguito riporto un brano dell’intervista che Joshua Chuang, il curatore per la fotografica di Yale, gli ha fatto sull’ultimo numero di Aperture.

JOSHUA CHUANG: You wrote in 1977, in the introduction to denver, that the city’s inhabitants “partecipate in urban chaos” but are themselves “admirable”. Do you still believe this?

ROBERT ADAMS: I’d probably be more specific about the people I endorse. And inclined to note the tragic nature that we all have in common. In a recent Paris Review interview the writer Marilynne Robinson was asked if she worried about being too pessimistic. Her reply was “I worry that I’m not pessimistic enough”. I share that feeling. Although neither she or any artist is without hope. If they were, they wouldn’t bother.

JOSHUA CHUANG: Dorothea Lange once said that she hoped that generation of photographers following hers would focus on the American city and what happening in the suburbs. Is there a particular subject you’d like to see the next generation take on?

ROBERT ADAMS: What she wanted still seems right, but it remains a tall order. One of the things that I most hope to find when I speak with young photographers is a readiness to ask almost impossible things of themselves, the sort of things that demand three or four years and that might result in fifty or seventy-five pictures of an important, life-size subject. I want to repeat to them Miguel de Unamuno’s blessing: “May God deny you peace but give you glory”.
Let me add one thing that might at first seem at odds with my wanting to toughen up Summer Nights – that the goal of art is affirmation. Of course if you get affirmation on the cheap it can be easy dismissed, which is why I wanted Summer Nights to be more than a record of childhood innocence. But the purpose of art is, in the end, to find beauty, and by that share an intuition of promise.
This past spring there was a show titled Into the Sunset at the Museum of Modern Art in New York. It was about phography’s picture of the American West, and thought I didn’t see the exhibition I did study the catalog. It raised an important problem that confronts everybody, East and West. On the one hand there were landscapes, the more recent of which, my own included, documented worn, abused places. Together with these views there were pictures of people, and the more recent of the seemed, in the main, to be portraits of the lost. The issue raised by the show seemed to be whether are affirmable days or places in our deteriorating world. Are there scenes in life, right now, for which we might conceivably be thankful? Is there grounds now and then for an un-ironic smile?
Every artist and would be artist should, I think, recognize a responsibility to try, without lying, to answer those questions with a yes.

THE TANK MAN


Questo è un segmento di un lungo documentario di “Frontline” sui fatti di Tienanmen. Il video integrale lo trovate sul sito della PBS.

Chi era l’uomo che fermò i carriarmati? Come si chiamava? Riuscì a fuggire? Fu arrestato? Fu condannato a morte?
Dopo vent’anni a nessuna di queste domande è ancora possibile dare una risposta.

Nel video integrale un giornalista mostra la foto del Tank Man a quattro studenti dell’università di Pechino. Nessuno di loro riesce a dire a cosa si riferisca quell’immagine. In Cina, infatti, ancora oggi quell’immagine non si trova neanche cercando su Google.

Libero sempre non è il pensier liberamente espresso

“In un momento come il nostro in cui la parola è diventato il luogo dell’equivoco, il luogo della menzogna, il luogo del gioco, di questa svendita della parola stessa, beh, allora, è finita. E siccome io non sono ancora finito fin che si può, ogni possibilità di racconto non deve far altro che cercare, che ascoltare questo lacerto umano (ciò che resta dell’umano), entrarci dentro, perché non può stare fuori, mescolarsi con lui e pregarlo, supplicarlo attraverso tutto quello che è̀ possibile dalla preghiera all’abbraccio, all’insulto: tutto quello che è possibile per far in modo che questa umanità ripronunci la parola, perché io non credo che ci siano molte altre speranze e perchè il luogo e la ragione del raccontare oggi, come sempre ma oggi più che mai, è solo quella di difendere il diritto a parlare di chi non ha parola anche se gli viene concessa, gli vengono concesse tutte le parole, ma sono tutte parole prestabilite, tutte parole limate, tutte parole preparate. E’ una liberta di dire parole non libere. Forse ho già citato questo verso dell’Alfieri, del “Filippo”, ma mi piace citarlo qui, anche se nella sua fermezza di scultura. Ad un certo punto Perez, colui che difendeva la libertà degli oppressi, dei popoli oppressi da Filippo e la difendeva in questo processo intentato al figlio Carlo da Filippo dice: “Libero sempre non è il pensier liberamente espresso”. Non sempre libero è il pensiero liberamente espresso, non sempre libera è la parola liberamente espressa. Le parole che noi sentiamo, che leggiamo, sono quasi tutte parole che non partono da quella prima catena che è la sola che rende liberi, che è̀ la catena che ci lega a quel brandello umano, a quella realtà̀ umana, che siamo. Fuori da questa catena d’origine le parole non sono più libere, s’incatenano perchè́ sono uscite dalla sola catena che a loro appartiene, quella di restare, di partire, di generarsi all’interno dell’uomo e del rapporto tra uomini”.
Giovanni Testori

grazie a Riccardo per la segnalazione

Testori: “Questo quadro di Tanzio mi ha folgorato”. (Anche a me)

Ho per le mani il libro “Testori a Novara” realizzato dall’Associazione Testori in occasione della mostra “Da Gaudenzio a Pianca. Omaggio a Testori. Capolavori restaurati nel novarese” allestita nella chiesa di San Gaudenzio. A parte tutto il bene che si potrebbe dire di questo libro (belle le immagini, belle le schede, belle le introduzioni), segnalo uno strepitoso intervento inedito di Testori su questo quadro di Tanzio da Varallo: “La battaglia di Sennacherib”. È una delle cose più forti che mi sia capitato di leggere negli ultimi anni. “Il Giornale” ha avuto l’intelligenza di pubblicarla settimana scorsa qui (dove si può scaricare anche il pdf della pagina). Ecco il passo più geniale:

“Tanzio l’ha dipinta tra il 1627 e il 1629 per la Cappella dell’Angelo Custode ed è veramente tra commovente e atrocemente ironico che questo quadro – dove l’Angelo è un vindice, un vendicatore, è una specie di ribelle, che viene a portare la parola della giustizia e della rivolta – sia il quadro dominante di una cappella in cui l’Angelo è nominato custode. Credo che si può andare a fondo e dire che probabilmente l’unico modo per custodire la vita è di difenderla e di ribellarsi contro chi la vita cerca di diminuire”.

FRANGI E AGOSTI NEL MARE DI SAL LUPO

Sono giornate lunghissime queste di luglio e in macchina, tornando a Milano e parlano in continuazione, si vede il cielo che cambia colore e qualche volta ci fa tacere: all’altezza di Sasso Marconi o prima del Fini o, quando è già quasi blu, mentre si passa il Po. I quadri con i cieli dovranno essere esposti non appesi alle pareti ma applicati ai soffitti, questa zona dello spazio abitato trascurata dall’arte del Novecento (fa lui: “ma non da Fontana”). Sistemati così, li si potrà vedere da tutti i lati : saranno più belli se li si guarda da sdraiati per terra. Spero che qualcuno di questi cieli sarà anche viola, “il colore dei campioni e delle soubrette”.

da Giovanni Agosti, “Giovanni Frangi alle prese con la natura”, Feltrinelli, 2008
Bergamo, 19 febbraio 2009. Giovanni Agosti e Giovanni Frangi nell’ex Oratorio di San Lupo per l’istallazione MT2425. Della mostra (meglio del catalogo) ho già parlato qui.

OGGETTI INANIMATI


Da “Uomo nel buio” di Paul Auster

“Oggetti inanimati, ha detto.
In che senso?, le ho chiesto.
Gli oggetti inanimati come mezzo per esprimere le emozioni umane. Questo è il linguaggio del cinema. Solo i buoni registi capiscono come si fa, ma Renoir, De Sica e Ray sono tre fra i più grandi, sei d’accordo?
Senz’altro.
Pensa alle prime scene di Ladri di biciclette. L’eroe riesce ad avere un lavoro, ma non potrà andarci se non riscatta la bicicletta dal monte di pietà. Torna a casa in preda all’autocommiserazione. E davanti alla casa c’è sua moglie che trasporta due pesanti secchi d’acqua. Titta la loro miseria, gli affanni di questa donna e della sua famiglia, sono dentro quei secchi. Il marito è talmente assorto nei suoi problemi che non si cura nemmeno di aiutarla finché non hanno fatto metà del cammino verso la porta. E anche allora prende uno solo dei secchi, lasciando che sia lei a portare l’altro. Tutto quello che dobbiamo sapere del loro matrimonio ci è comunicato in quei pochi secondi. Poi salgono le scale dell’appartamento e la moglie vien fuori con l’idea di riscattare la bicicletta impegnando le lenzuola. Ricorda con che violenza sferra un calcio al secchio in cucina, ricorda con che violenza apre il cassetto del comò. Oggetti inanimati, emozioni umane. Poi ci spostiamo al monte di pietà, che non è un negozio, ma un luogo enorme, una specie di deposito di beni indesiderati. La moglie impegna le lenzuola e vediamo uno degli operai portare il fagotto verso le scaffalature dove sono ammassati vari beni. Lì per lì gli scaffali non sembrano tanto alti, però poi la macchina indietreggia e quando l’uomo comincia a inerpicarsi vediamo che salgono sempre più su, fino al soffitto, e ogni scaffale, ogni vano, è stipato di fagotti identici a quello che adesso l’uomo sta immagazzinando, ed ecco che d’un tratto ci sembra che tutte le famiglie di Roma abbiano venduto le proprie lenzuola, che l’intera città versi nelle medesime condizioni dell’eroe e di sua moglie. In un’inquadratura, nonno, in un’inquadratura sola, riceviamo l’immagine di una società al completo sull’orlo del disastro”.

DAMIEN HIRST: “ISN’T LIFE GREAT?!”


So what do you think about those people who stand in front of your work and try to intellectualize it?
As an artist you’re looking for universal triggers. You want it both ways. You want it to have an immediate impact, and you want it to have deep meanings as well. I’m striving for both. But I hate it when people write things that sound like they’ve swallowed a fucking dictionary. When I make the artwork, anything I say, I try to deny it as well at the same time, so you make viewers responsible for interpretation. I think that’s good. I want to make artwork that makes people question their own lives, rather than give them any answers. Because answers always turn out to be wrong further down the line, but questions are exciting forever.
And what is the main question in your artwork?
There’s that great Gauguin picture, Where Do We Come From? What Are We? Where Are We Going? I think that’s the big question of art. I think a lot of artists are asking that question and producing artworks that offer some semblance of an answer or some hint as to how you can get answers from the question. That’s what I always get from art. (…)
But at the end of the day, art can also just say, “Isn’t life great?!” That’s the greatest thing you can get from art. A great reaction to an artwork for me is when somebody walks in and says “Wow! That’s brilliant!” When kids do that, you know you’re on to a winner, but a lot of people would say that’s a bit shallow.

(Damien Hirst intervistato da Robert Ayers)