Lei arrivò in Ungheria prima dell’ottobre ’56. Che tipo di paese immortalò?
Il problema della fotografia è che non è in grado di mostrare la repressione delle libertà. Quelle immagini mostrano un popolo che non vive nella paura, certo il paese era povero, l’agricoltura e l’industria rimanevano arretrate, ma quel che appare è un paese normale. Le immagini non bastavano a descrivere la vera situazione, perché parlando con la gente emergeva un disagio reale, più profondo. Questo malcontento emerse in modo più evidente nell’estate di quell’anno. Centro dell’espressione di questo malcontento fu il Circolo Petöfi, il centro culturale ambito di dibattiti sulla libertà e l’esigenza di una liberalizzazione dello Stato.
Che ricordi ha del Circolo Petöfi?
Il Circolo Petöfi era il luogo di ritrovo di molti intellettuali comunisti liberali che si autoconvocavano con il passaparola. Io partecipai all’incontro del 27 giugno 1956: il tema del dibattito era la libertà di stampa. Partecipavano lo scrittore Tibor Déry, lo scrittore comunista riformista Tibor Tardos, l’ex politico socialdemocratico appena scarcerato Árpád Szakasits, il filosofo György Lukács e molti altri, tra i quali il caporedattore di Szabad Nép, il giornale del Partito comunista. Appena tirai fuori la mia macchina fotografica, dalla platea si alzò la protesta del pubblico che non voleva che scattassi immagini. L’amico ungherese che mi accompagnava, uno dei leader degli universitari, salì sul palco e disse: «Stasera vogliamo parlare di liberalismo, vogliamo parlare di libertà, vogliamo parlare dell’importanza di una stampa libera e voi non volete i fotografi? Vergognatevi!». La gente al quel punto si calmò e io potei scattare le mie fotografie. Questo fu un segnale importante che, sono certo, fu notato dal caporedattore di Szabad Nép.
Cosa si disse in quel dibattito?
Fu una discussione molto dura, perché parlarono anche coloro che sostenevano la politica del partito. Molti degli intellettuali che allora parlarono a favore della libertà di stampa nei mesi successivi alla rivoluzione finirono in carcere, e qualcuno non ne uscì mai più. Ma ciò che mi sembrava chiaro era che nonostante l’argomento del dibattito fosse circoscritto alla libertà di stampa, in discussione c’era tutta la politica del regime. I dibattiti al Petöfi furono certamente l’inizio della rivoluzione.
Che scoppiò pochi mesi dopo quel famoso 23 ottobre.
Io arrivai a Budapest solo il giorno dopo, si incominciava già a sparare. La prima immagine che vidi fu quella di una libreria sovietica presa d’assalto. La vetrina era stata rotta e sulla strada c’erano cataste di libri in fiamme. In piedi sulla vetrina si trovava un uomo che declamava il Canto nazionale di Petöfi.
Che atmosfera si respirava in quei giorni?
Di grande euforia: si pensava ‘il peggio è finito, ora incomincia un altro mondo’. Poi le strade si riempirono di cadaveri. Sì, ma sulle strade rimasero solo i corpi dei russi coperti dalla calce. Gli ungheresi portarono via i loro caduti con camion coperti da drappi neri.Ci furono anche alcuni linciaggi di agenti dell’Avo, la polizia segreta. Alcuni agenti dell’Avo scampati alle sparatorie furono linciati e impiccati a testa in giù. Nel 1996 in occasione di una grande mostra sulla rivoluzione, uno dei curatori del Museo nazionale ungherese, che aveva passato sette anni in prigione, mi pregò di non inserire le immagini di quella giustizia sommaria. Non voleva, mi disse, che quelle fotografie diventassero l’icona della loro rivolta.
I due veri protagonisti furono Mátyás Rákosi, lo stalinista e Imre Nagy, il comunista delle riforme. Incontrai Nagy qualche mese prima dei fatti di ottobre. Mi ricevette a casa sua dove per un’ora intera parlammo di arte, di quadri, di paesaggi, di musica. Non mi volle dire nulla che riguardasse il futuro politico del paese. Tre mesi dopo divenne l’espressione politica dei rivoluzionari.
Lei è tornato a Budapest nel 1998 a rincontrare i superstiti della rivoluzione.
Sì, provai a invitare per un incontro una cinquantina di superstiti del Circolo Petöfi. Ne arrivarono la metà. Il luogo in cui allora si ritrovavano era diventato l’atrio principale della Bayerishen Landeshypothkenbank: marmo e lampadari di cristallo. Non era più la squallida stanza in cui si ritrovava il Circolo Petöfi. Ma fu un incontro molto triste: nessuno volle parlare della rivoluzione. Era un groppo di vecchi pieni di acciacchi che dopo i fatti del ’56 si erano persi di vista. Per loro la rivoluzione era un capitolo chiuso da quarant’anni, e nessuno aveva voglia di riaprirlo.
Che cosa ha voluto dire per lei essere testimone di questo grande evento storico?
Mi rendo conto di aver assistito a un evento unico. Era la prima volta che si verificava una vera e propria rivoluzione che nasceva spontaneamente dal popolo, senza che ci fosse qualcuno che la conducesse. Focolai di rivolta nacquero in tutto il paese in modo assolutamente spontaneo. E fu anche il primo atto della caduta del Muro di Berlino e la prima avvisaglia che l’Unione Sovietica era destinata a fallire. Gorbaciov arrivò decenni dopo, ma tutto era già contenuto nei fatti di Budapest nel 1956. Fu l’inizio della fine.