LA RIVOLTA

INTERVISTA A ERICH LESSING

da Tempi, 2 novembre 2006

Ci sono tre modi per partecipare a una rivoluzione: essere dalla parte degli insorti, da quella del governo oppure essere da quella dei testimoni. Erich Lessing, classe 1923, è stato uno dei più preziosi testimoni di quella avvenuta cinquant’anni fa a Budapest. Faceva il fotografo per la grande Agenzia Magnum e le sue immagini sono comparse su riviste come Life, Paris Match, Epoca e Quick Magazine. Molti lo considerano il fotografo della Guerra Fredda per aver immortalato il dramma della Germania dell’Est, della Polonia, della Cecoslovacchia e, appunto, dell’Ungheria durante quei maledetti anni. In quell’autunno del 1956 si trovò, anche lui, per le strade di Budapest tra le raffiche dei mitra ungheresi e i colpi dei carriarmati russi. Fu un evento unico, difficile allora da digerire per chi vedeva nell’Unione Sovietica l’unico faro del progresso. I partiti comunisti europei, in prima fila quello italiano, si schierarono con Mosca bollando gli insorti come controrivoluzionari. Non si accorsero di quel che stava accadendo: il primo atto della fine del loro sogno. Sogno che, già in quell’anno, gli ungheresi percepivano come un incubo.
Lei arrivò in Ungheria prima dell’ottobre ’56. Che tipo di paese immortalò?
Il problema della fotografia è che non è in grado di mostrare la repressione delle libertà. Quelle immagini mostrano un popolo che non vive nella paura, certo il paese era povero, l’agricoltura e l’industria rimanevano arretrate, ma quel che appare è un paese normale. Le immagini non bastavano a descrivere la vera situazione, perché parlando con la gente emergeva un disagio reale, più profondo. Questo malcontento emerse in modo più evidente nell’estate di quell’anno. Centro dell’espressione di questo malcontento fu il Circolo Petöfi, il centro culturale ambito di dibattiti sulla libertà e l’esigenza di una liberalizzazione dello Stato.
Che ricordi ha del Circolo Petöfi?
Il Circolo Petöfi era il luogo di ritrovo di molti intellettuali comunisti liberali che si autoconvocavano con il passaparola. Io partecipai all’incontro del 27 giugno 1956: il tema del dibattito era la libertà di stampa. Partecipavano lo scrittore Tibor Déry, lo scrittore comunista riformista Tibor Tardos, l’ex politico socialdemocratico appena scarcerato Árpád Szakasits, il filosofo György Lukács e molti altri, tra i quali il caporedattore di Szabad Nép, il giornale del Partito comunista. Appena tirai fuori la mia macchina fotografica, dalla platea si alzò la protesta del pubblico che non voleva che scattassi immagini. L’amico ungherese che mi accompagnava, uno dei leader degli universitari, salì sul palco e disse: «Stasera vogliamo parlare di liberalismo, vogliamo parlare di libertà, vogliamo parlare dell’importanza di una stampa libera e voi non volete i fotografi? Vergognatevi!». La gente al quel punto si calmò e io potei scattare le mie fotografie. Questo fu un segnale importante che, sono certo, fu notato dal caporedattore di Szabad Nép.
Cosa si disse in quel dibattito?
Fu una discussione molto dura, perché parlarono anche coloro che sostenevano la politica del partito. Molti degli intellettuali che allora parlarono a favore della libertà di stampa nei mesi successivi alla rivoluzione finirono in carcere, e qualcuno non ne uscì mai più. Ma ciò che mi sembrava chiaro era che nonostante l’argomento del dibattito fosse circoscritto alla libertà di stampa, in discussione c’era tutta la politica del regime. I dibattiti al Petöfi furono certamente l’inizio della rivoluzione.
Che scoppiò pochi mesi dopo quel famoso 23 ottobre.
Io arrivai a Budapest solo il giorno dopo, si incominciava già a sparare. La prima immagine che vidi fu quella di una libreria sovietica presa d’assalto. La vetrina era stata rotta e sulla strada c’erano cataste di libri in fiamme. In piedi sulla vetrina si trovava un uomo che declamava il Canto nazionale di Petöfi.
Che atmosfera si respirava in quei giorni?
Di grande euforia: si pensava ‘il peggio è finito, ora incomincia un altro mondo’. Poi le strade si riempirono di cadaveri. Sì, ma sulle strade rimasero solo i corpi dei russi coperti dalla calce. Gli ungheresi portarono via i loro caduti con camion coperti da drappi neri.Ci furono anche alcuni linciaggi di agenti dell’Avo, la polizia segreta. Alcuni agenti dell’Avo scampati alle sparatorie furono linciati e impiccati a testa in giù. Nel 1996 in occasione di una grande mostra sulla rivoluzione, uno dei curatori del Museo nazionale ungherese, che aveva passato sette anni in prigione, mi pregò di non inserire le immagini di quella giustizia sommaria. Non voleva, mi disse, che quelle fotografie diventassero l’icona della loro rivolta.

Lei ha fotografato i protagonisti della rivoluzione. Chi la colpì di più?
I due veri protagonisti furono Mátyás Rákosi, lo stalinista e Imre Nagy, il comunista delle riforme. Incontrai Nagy qualche mese prima dei fatti di ottobre. Mi ricevette a casa sua dove per un’ora intera parlammo di arte, di quadri, di paesaggi, di musica. Non mi volle dire nulla che riguardasse il futuro politico del paese. Tre mesi dopo divenne l’espressione politica dei rivoluzionari.
Lei è tornato a Budapest nel 1998 a rincontrare i superstiti della rivoluzione.
Sì, provai a invitare per un incontro una cinquantina di superstiti del Circolo Petöfi. Ne arrivarono la metà. Il luogo in cui allora si ritrovavano era diventato l’atrio principale della Bayerishen Landeshypothkenbank: marmo e lampadari di cristallo. Non era più la squallida stanza in cui si ritrovava il Circolo Petöfi. Ma fu un incontro molto triste: nessuno volle parlare della rivoluzione. Era un groppo di vecchi pieni di acciacchi che dopo i fatti del ’56 si erano persi di vista. Per loro la rivoluzione era un capitolo chiuso da quarant’anni, e nessuno aveva voglia di riaprirlo.
Che cosa ha voluto dire per lei essere testimone di questo grande evento storico?
Mi rendo conto di aver assistito a un evento unico. Era la prima volta che si verificava una vera e propria rivoluzione che nasceva spontaneamente dal popolo, senza che ci fosse qualcuno che la conducesse. Focolai di rivolta nacquero in tutto il paese in modo assolutamente spontaneo. E fu anche il primo atto della caduta del Muro di Berlino e la prima avvisaglia che l’Unione Sovietica era destinata a fallire. Gorbaciov arrivò decenni dopo, ma tutto era già contenuto nei fatti di Budapest nel 1956. Fu l’inizio della fine.

COME I COMUNISTI ITALIANI FALSARONO LA STORIA DELLA RESISTENZA

INTERVISTA A GIANPAOLO PANSA
Giornale del Popolo, 19 dicembre 2006

Giampaolo Pansa è un giornalista di razza. Graffiante, caustico e scomodo. Scomodo, soprattutto, da quando si è messo a scrivere libri che raccontano la storia della resistenza italiana dal punto di vista di chi quella guerra civile l’ha persa. “Il sangue dei vinti” e “Sconosciuto 1945” sono stati grandissimi successi editoriali che hanno venduto centinaia di migliaia di copie. Ma come spesso capita a un grande successo si accompagnano anche grandi polemiche che su Pansa sono piovute proprio dalla sua parte politica. Titolari di cattedre universitarie, politici e giornalisti di sinistra hanno riversato su di lui una quantità di critiche (e insulti) che avrebbero stordito un bisonte. L’accusa? Quella, infamante, di “revisionismo”. Ma Pansa del revisionismo – da non confondere con il negazionismo, ovviamente – ne fa una medaglia al valore. Così ha deciso di rispondere a tutte le accuse e le critiche scrivendo un nuovo libro dal titolo “La grande bugia” (ed. Sperling & Kupfer).
Pansa, qual è la “grande bugia” a cui si riferisce?
La grande bugia non è, come qualcuno cerca di farmi dire per ragioni di propaganda, la Resistenza. Non sono così fesso: la Resistenza è sempre la mia “patria morale”, come dico nelle prime righe di questo libro. La grande bugia è il racconto assolutamente non più accettabile di quella che è stata questa grande prova di libertà e di democrazia che è stata la guerra di liberazione in Italia.
Non più accettabile? Perché?
Perché è un racconto troppo reticente e troppo falsato. In questo libro lo spiego con molta precisione e molti dettagli. È accaduto quello che succede sempre quando finiscono le guerre, soprattutto le guerre civili: uno vince, l’altro perde. Hanno vinto i partigiani e gli antifascisti, per fortuna aggiungo io, e hanno perso i fascisti. Poi a parlare sono stati solo i vincitori, mentre chi ha perso ha dovuto stare zitto perché gli è stato messo il sasso in bocca. Questa cosa non è durata solo un anno o due, ma è durata praticamente quasi sessant’anni. Parlando solo chi ha vinto, anzi il più forte tra i vincitori, il Partito Comunista Italiano, ne è uscita una storia autoritaria. Una storia in parte falsa: piena di pagine bianche, piena di omissioni, piena di mezze verità, piena di mezze bugie, piena di bugie totali, di storie non raccontate e di storie inventate di sana pianta. Dunque quello che è definito con una punta di disprezzo dagli agiografi della ricerca storica “il revisionismo” è un atteggiamento mentale assolutamente normale. Quindi non chiedermi se sono un revisionista, perché io sono un revisionista “ultrà”, nel mio dilettantismo. E penso che la storia della resistenza italiana sarebbe più accettabile, specialmente dalle nuove generazioni, se fosse più corretta. Se fosse meno scandalosamente faziosa e soprattutto se tenesse conto di tutti i fattori in gioco in quei venti mesi terribili.
Ma chi ha alimentato e ha avuto interesse ad alimentare questa bugia?
Come ho detto è stato il Partito comunista italiano. Perché il PCI aveva il problema di non potersi accreditare come partito nazionale e democratico se non riferendosi alla sua battaglia contro il fascismo.
In che senso?
Perché per il resto il PCI è stato un partito filosovietico legato agli interessi del comunismo internazionale, succube degli ordini che venivano da Mosca. E questo fin quasi alla caduta del muro di Berlino. E non poteva presentarsi con nessun’altra bandiera che non fosse quella dell’antifascismo. Ma l’antifascismo raccontato nel modo che faceva comodo a loro. Questa è una cosa talmente evidente a chi si occupa come me di storia del fascismo, anti fascismo e guerra partigiana, che non serve nemmeno dimostrarlo. Io comunque ho provato a dimostrarlo facendo una serie di esempi.
La sinistra ha reagito male ai suoi primi libri sulla resistenza a partire da “Il sangue dei vinti” passando per “Sconosciuto 1945”. In questo ultimo libro lei attacca direttamente l’atteggiamento della sinistra…
…non della sinistra: ho detto del PCI, perché la sinistra non è solo il PCI o gli eredi del PCI. La sinistra italiana come soggetto unitario non esiste più, esistono tante sinistre diverse e tutte in rotta tra di loro. Anche all’interno dei DS ci sono degli atteggiamenti diversi sulla storia stessa del partitone rosso. Quindi non è vero che tutta la sinistra è contraria ai miei libri, è contraria quella sinistra post-comunista riconoscibile in quei partiti che hanno ancora questa parola nei loro simboli, in una parte dei DS e poi in quei circoli di ragazzi, ahimè ignoranti, che sono i no global. Questi, in particolare, che pensano di poter fare qualunque cosa in nome della resistenza e non si rendono conto di essere i primi a tradirla e a smentirla con il loro atteggiamento intollerante, violento e pronto a menar le mani.
Ma a quest’ultimo libro che reazioni ci sono state?
La prima reazione è stata che in poco più di un mese è arrivato a nove edizioni per 350mila copie vendute. Questa accoglienza è stata al di là di ogni mia previsione e con decine di richieste di andare in giro per l’Italia a presentarlo. E ho potuto soddisfarne per ragioni di tempo la metà della metà. Poi se leggi l’Unità, se leggi Liberazione o se ascolti i discorsi dei Comunisti Italiani vedi che questo libro gli ha dato fastidio come una trave in un occhio. Però era scontato che avvenisse. Questi sono ancora inchiodati, per loro opportunismo partitico, a un’immagine della nostra guerra interna che non corrisponde a quella della verità storica. Certo, questi hanno rognato, ma se non avessero rognato mi sarei sentito nei guai.
Come si spiega invece il successo dei suoi libri precedenti?
Io non sono il primo che ha scoperto quello che è successo in Italia dopo il 25 aprile, ma sono stato il primo che l’ha raccontato in modo ordinato – sto parlando de “Il sangue dei vinti” uscito nel 2003 – coprendo quasi per intero l’Italia del Nord. Un testo così non c’era; c’erano tanti libri e libretti, oppure c’erano anche ricerche serie sulle varie zone, ma non c’era un racconto che riguardasse quella che poi è stata la patria della guerra di liberazione o della guerra civile. Era un libro che aspettavano sia i lettori di sinistra che quelli di destra. E soprattutto è stato accolto con un sospiro di sollievo da chi ha avuto parenti uccisi o scomparsi (perché sono tantissimi i casi di uccisioni senza il ritrovamento dei cadaveri) durante la fase successiva alla fine della guerra. E, bada, queste persone non sono mica tutti fascisti. Di questi molti hanno militato nella sinistra e sono diventati parlamentari di partiti di sinistra. Una persona mi ha detto che finalmente ha visto un autore che pur non appartenendo al loro mondo «ridava dignità ai loro morti». Questa frase mi ha molto colpito e mi risuona sempre nelle orecchie. In Italia si è abituati a una pubblicistica storica, per quel che riguarda la storia contemporanea, troppo legata al partitone e alle cattedre dei professori marxisti. La prima ragione del successo è stata che ad affrontare un tema tabù era un giornalista di sinistra, però laico, democratico, tollerante e antifascista. Se poi il successo è continuato per gli altri libri vuol dire che sono un autore credibile presso un pubblico molto largo.
Torniamo alla questione del revisionismo; in un’intervista ha dichiarato: «una sinistra riformista, se non è anche revisionista, che sinistra è?». Cosa intendeva?
Volevo dire quello che è chiarissimo. E cioè che se la sinistra che si dichiara riformista vuole riformare in senso moderno le strutture di questo Paese, la sua politica, la sua pubblica amministrazione, il suo bilancio, la sua economia, i suoi rapporti con i cittadini, deve per prima cosa leggere fino in fondo dentro la propria storia. Se no non è credibile. Faccio il revisionista fuori dal mio appartamento, ma nel mio appartamento invece dico che è sempre andato tutto bene? Mi rifiuto di vedere l’album di famiglia? Mi rifiuto di vedere cosa c’è negli armadi che mi hanno lasciato la nonna e poi la mamma e poi la zia? È assolutamente fatale questo. Questa è una mia opinione che sono pronto a discutere. Ma non so se è un’opinione anche dei capi dei partiti della sinistra riformista a cominciare dai leader dei DS. Questi leader la pensano esattamente come la penso io (lo so da colloqui privati), però non osano dirlo in pubblico perché hanno dei fatturati elettorali così striminziti che hanno paura di perdere il voto anche dell’ultimo partigiano dell’ANPI (Associazione Nazionale dei Partigiani Italiani, ndr).
Scriverà ancora libri su questi argomenti?
Questo se lo sapessi non te lo direi. Perché per scaramanzia non annuncio mai i miei programmi prima di averli impostati e soprattutto prima di averli realizzati. Non è detto, stiamo a vedere. Come dicono gli spagnoli: “mañana”, domani.

«C’È UN CLIMA ANTICATTOLICO MA È LA LIBERTA A FARE PAURA»


INTERVISTA A MARIO MAURO, VICEPRESIDENTE DEL PARLAMENTO EUROPEO.
Giornale del Popolo, 29 settembre 2006

Onorevole Mario Mauro, lei è parlamentare europeo dal 1999 e da questa legislatura è vicepresidente dell’assemblea di Strasburgo; come giudica, da cattolico, questi anni passati nelle istituzioni europee?
Negli ultimi dieci anni ho potuto notare un crescente sentimento anticattolico nelle istituzioni dell’Unione Europea, come testimonia una serie di azioni di cui, purtroppo, l’opinione pubblica è rimasta all’oscuro.
A cosa si riferisce?
L’esempio forse più eclatante è stato il voto con cui il 13 marzo 2002 il Parlamento Europeo ha adottato un rapporto su “Donne e Fondamentalismo” redatto dal Comitato per i Diritti delle Donne e Pari Opportunità. Da una prima lettura del documento i destinatari sembravano essere i regimi fondamentalisti di matrice islamica che non garantiscono parità di diritti fra uomini e donne. L’intenzione più evidente era quella di rompere i rapporti con i Governi che non permettevano la partecipazione delle donne ai propri organismi decisionali. Un obiettivo a prima vista politicamente sacrosanto. Ma per come veniva formulato il problema, alla fine il solo Stato al mondo che risultava proibire l’accesso delle donne ai propri organi di governo era il Vaticano. Dunque l’unico risultato pratico di questo progetto di legge votato dal Parlamento sarebbe stata l’espulsione del Vaticano dagli organismi internazionali, lasciando la Chiesa senza alcuna voce nell’ambito delle relazioni internazionali. Questo attacco non è stato comunque la sola azione espressa dal Parlamento Europeo contro il Vaticano. Negli ultimi 10 anni sono state presentate 19 interrogazioni scritte alla Commissione Europea contro la Chiesa o il Vaticano, 5 Relazioni e 4 Proposte di risoluzione che hanno “attaccato” posizioni della Santa Sede. In sintesi quasi 30 occasioni in cui il Parlamento Europeo ha attaccato la Chiesa o le posizione del Vaticano. Per rendere l’idea delle proporzioni di questa offensiva basti dire che il numero di interventi riguardanti i regimi dittatoriali e sanguinari di Cuba e Cina è inferiore a quello nei confronti del Vaticano.
Ma qual è il contenuto di queste prese di posizione?
Vanno dalla richiesta di non ingerenza nelle materie come il matrimonio o la vita alle posizioni che rimproverano l’atteggiamento della Chiesa nei confronti degli omosessuali o dell’uso del preservativo per la lotta all’AIDS. Ma anche richieste di sospendere i finanziamenti dell’Unione a istituzioni cattoliche. In sostanza si vuol far passare per “fondamentalista” la semplice espressione di un credo religioso. Il mancato riconoscimento delle radici cristiane nella Costituzione europea è solo l’esito più evidente di un clima ormai molto radicato nelle istituzioni di Bruxelles.
Una situazione preoccupante…
Ma io non sono preoccupato né per i cristiani né per il cristianesimo, sono preoccupato piuttosto per la democraticità delle istituzioni, che sono frutto di quell’insegnamento che ha separato nettamente religione e politica, e che è insito nel cristianesimo stesso. Quando Gesù rende chiaro a tutti di avere distinto tra ciò che bisogna dare a Cesare e ciò che bisogna dare a Dio, pone le fondamenta dell’esercizio della libertà, quindi di un habeas corpus, come di ciò che della persona resta impenetrabile al potere. Sacrificare questo sull’altare del politicamente corretto significa far risultare politicamente scorretta l’esperienza della libertà. Le nostre istituzioni sono il frutto di una separazione convinta, completa e articolata – che non è mai ostracismo – tra religione e politica. E le radici dell’Europa sono radici cristiane perché serbano questo particolare accento della libertà che è poi il cristianesimo stesso. Questa ricerca del politicamente corretto a tutti costi sembra oggi quasi incomprensibile, non tanto perché nasca da una particolare ostilità verso il cristianesimo, ma piuttosto perché è espressione di una più profonda ostilità verso la libertà.
Questo atteggiamento è politico o deriva da una mentalità diffusa nell’Europa “già” cristiana?
Nel corso dei lavori preparatori della Costituzione europea ebbi l’occasione di scambiare due parole con Giscard d’Estaing, Presidente della Convenzione per la Costituzione, che mi fece notare come i cattolici praticanti nei 25 stati dell’UE rappresentassero solo il 3 per cento per cento della popolazione e che dal suo punto di vista, tenendo conto di questa percentuale, avrebbero già conseguito abbastanza. In politica quello che conta sono le relazioni di potere ed è certo che se le radici del nostro continente sono cristiane è altrettanto sicuro – a questo punto – che i cattolici in Europa contano molto meno delle proprie radici, come è stato ancora una volta dimostrato dal caso Buttiglione, da cui è emersa una chiara indicazione: «i cristiani ai leoni». La decisione della Commissione “Libertà” del Parlamento europeo contraria alla nomina di Buttiglione ha significato che ogni buon cattolico che manifesti la propria fede senza reticenza non sia idoneo a ricoprire incarichi al vertice dell’Unione e che tra il cristianesimo cattolico e i principi in cui si riconoscono le istituzioni europee esiste una incompatibilità sostanziale.
Come giudica le reazioni dei politici europei alle proteste contro il discorso del Papa a Regensburg?
Il Papa non ha fatto altro che invitare al dialogo e il suo discorso è stato frainteso. Fa specie che manchi all’appello dei difensori delle parole del Vicario di Cristo il nome di tanti, troppi, che hanno responsabilità politiche. Quasi che la politica si vergognasse o fosse vigliacca nel difendere la ragione e la libertà.
E lei come ha reagito?
Nei giorni scorsi ho inviato il testo del discorso del Papa a tutti i miei colleghi eurodeputati nella speranza che venissero evitate strumentalizzazioni future e che il Parlamento europeo assumesse una posizione chiara a sostegno della libertà di parola e di espressione.
Risultato?
L’Europarlamento si è rifiutato di intervenire sulle accuse fatte a Benedetto XVI. Nella riunione dei presidenti dei gruppi politici non è passata la mia proposta in cui chiedevo una risoluzione o almeno un messaggio di solidarietà per sostenere la posizione del Vaticano. Il presidente dell’Europarlamento, lo spagnolo Josep Borrell, ha così escluso questa iniziativa dalla sessione plenaria in corso in questi giorni a Strasburgo. Borrell mi ha fatto sapere che soltanto uno dei leader dei gruppi si è detto favorevole. Sono irritato soprattutto perché l’Europarlamento, in genere, non lesina di certo la sua solidarietà.
Torniamo alla Costituzione europea: Angela Merkel sostiene che verrà riscritta inserendo un cenno alle radici cristiane, Aznar invece non crede che sia opportuno rilanciare il processo costituzionale. Chi ha ragione?
L’entrata in vigore della Costituzione è stata rinviata senza trovare il coraggio di entrare nel merito di un brutto testo che ha sancito un pessimo accordo. Il problema non è l’allargamento dell’Unione. Il problema è quel che nella Costituzione c’è scritto e che esprime ciò in cui l’Europa crede. Si tratta di stabilire qual è il cemento su cui costruire l’allargamento. Quel testo è figlio di una generazione di politici che temono tutto e il contrario di tutto, perché piegati alla logica del consenso e dell’esercizio del potere fine a se stesso, privo di grandi ideali. Nella maggior parte degli Paesi membri oggi sarebbe difficile assicurare un “sì” referendario alla Costituzione. Mentre una volta la gente aveva l’impressione che dall’Unione europea provenisse tutto il bene possibile, oggi la situazione si è capovolta. Segno evidente del fatto che il problema più grande consiste nell’incapacità di restituire dignità all’Europa dei popoli. Per troppo tempo tutto è stato sacrificato in favore delle burocrazie nazionali perverse che poggiano su Stati malati di sovranismo e allo stesso tempo inguaribilmente nemici dei propri popoli, tanto da tollerarne la desertificazione culturale e morale attraverso l’approvazione di leggi inique, come nel caso di Zapatero in Spagna.
Dunque come se ne può uscire?
C’è la necessità di un’iniziativa politica che sblocchi l’impasse nel quale si trova il processo di ratifica del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa da parte degli Stati membri. Considerando che il modello “Convenzione più Conferenza intergovernativa” ha dimostrato di non essere in grado di rappresentare adeguatamente le istanze dei cittadini europei, insieme ai miei colleghi del PPE, sto lavorando per proporre un nuovo Progetto connotato da un forte ancoraggio nazionale, con il massimo coinvolgimento possibile delle opinioni pubbliche nazionali, della società civile a livello nazionale. È stato questo uno dei punti deboli della Convenzione: essere troppo europea e poco nazionale.
Molti criticano l’Unione europea perché avrebbe tradito gli intenti dei suoi padri fondatori. È vero? E se sì, qual è il modo per avviare di nuovo l’Unione su quella strada?
L’Europa sta perdendo il proprio orizzonte, la propria dimensione. Dopo l’era Kohl l’Europa è stata dominata da politici senza il coraggio necessario per poter generare il domani e senza la forza per poter mantener fede alla costruzione politica creata poco più di cinquant’anni fa da Adenauer, De Gasperi e Schumann. Una generazione di politici giunta a un’idea di Europa, bocciata dai referendum francese e olandese, per cui l’integrazione è diventata un valore in sé senza che ad essa venga associato un vero contenuto. Una scatola vuota, insomma. Paradossalmente ritengo che parte di quello che è stato fatto in cinquant’anni di paziente e complessa costruzione europea abbia, in qualche modo, dissipato l’intuizione originaria di Adenauer, Schumann e De Gasperi, anziché inverarla. L’Europa è sempre più lontana da come l’avevano immaginata i padri fondatori, radicati saldamente nell’esperienza cristiana. La storia recente della UE è una somma di delusioni. L’ultima, mi spiace doverlo ammettere, viene da Tony Blair che a luglio 2005 – all’inizio del semestre di presidenza britannica – aveva fatto un discorso coraggioso e rivolto al futuro.