CRISTIANI IRACHENI IN LIBANO: UNO "TSUNAMI" UMANITARIO


Dal Giornale del Popolo del 2 novembre 2007

«È uno “tsunami” umanitario. Non so che altra immagine utilizzare. La situazione dei cristiani in Iraq è tragica, la loro stessa presenza nel Paese è ormai a rischio. Per questo fuggono e decine di migliaia di profughi giungono nei Paesi confinanti. Ma in pochi casi ottengono lo statuto di rifugiati. La loro diventa un’esistenza d’inferno, tutti i giorni confrontati con la paura di essere arrestati e rispediti nel loro Paese, dove è in atto una vera e propria persecuzione nei loro confronti». Così mons. Michel Kassarji, vescovo caldeo di Beirut, racconta il dramma dei cristiani iracheni che negli ultimi due anni, ormai, hanno cambiato la sua vita quotidiana. Ogni mattina, infatti, davanti alla porta del vescovado di Hazmieh, nei pressi di Baabda, la collina su cui sorge il palazzo del presidente libanese, si presentano una, due, tre famiglie di profughi fuggiti dall’Iraq che a lui chiedono aiuto. Sono clandestini e in Libano non potrebbero neanche starci. Il Libano ospita campi profughi palestinesi eredità del conflitto del 1948, ma non ha mai sottoscritto la Convenzione internazionale sui rifugiati del 1951, perciò non accetta profughi stranieri sul suo territorio se non nel caso di quelli a cui le Nazioni Unite rilascia un permesso temporaneo in vista del loro reisediamento in un Paese terzo.
«Oggi i cristiani iracheni – continua il vescovo caldeo – sono l’obiettivo diretto e programmato di una persecuzione che può essere paragonata a quella dei cristiani dei primi secoli. I fedeli vengono presi di mira dal fuoco delle squadracce sunnite e sciite, alcuni sacerdoti sono stati prima rapiti e poi uccisi, molte chiese sono state distrutte dalle autobomba». «Oggi a Baghdad – continua – un cristiano che passeggia per la strada con una croce al collo viene aggredito; in alcuni quartieri e in certe città vengono obbligati, pena la morte o la fuga, a pagare la “jizah”, l’antica tassa coranica imposta come tributo di soggezione a cristiani ed ebrei». Ma anche la fuga, la maggior parte delle volte, non sembra rivelarsi la soluzione. Le peripezie dei caldei iracheni in Libano, ad esempio, sono paradossali. Si spingono nel Paese perché sanno che lì vive una forte minoranza cristiana e che il capo dello Stato è cristiano. Ma presto scoprono una triste realtà. Attraversare la frontiera clandestinamente gli costa 200-300 dollari americani per persona, poi una volta entrati rischiano continuamente l’arresto per ingresso clandestino nel Paese. «Quando vengono presi – continua il vescovo – trascorrono dai tre ai cinque mesi in prigione in attesa del processo poi, dopo la sentenza, vengono espulsi. Molte volte ricevono telefonate dal Libano e dall’Iraq, anche nel cuore della notte, di parenti di persone arrestate che mi chiedono di intervenire. Io vado sempre alla prigione che spesso sono lontane dalla capitale e vicino al confine. Ho parlato diverse volte con il presidente, con il ministro dell’Interno, con responsabili dei servizi segreti, ma con scarsi risultati».
«La mia comunità caldea – dice mons. Kassarji – fino a un paio di anni fa era formata da circa 5000 fedeli. Oggi ci dobbiamo fare carico di 8000 fratelli iracheni. È quasi insostenibile, anche se noi facciamo tutto quello che possiamo fare». Quello messo in piedi dalla comunità caldea libanese è uno sforzo immenso: cinquecento pacchi alimentari al mese, 400 borse di studio per i figli dei profughi iscritti alle scuole cristiane libanesi, la scarcerazione di decine di arrestati, l’ottenimento del riconoscimento dello statuto di rifugiato per decine di profughi, la gestione di un doposcuola e di un corso di recupero serale per i ragazzi che di giorno lavorano. «È capitato – racconta ancora il vescovo – che uno di questi profughi è stato ricoverato in ospedale per una grave malattia. Dopo alcune settimana è morto. Sono andato all’ospedale per capire cosa fare per il funerale, ma mi è stato detto che il ricovero era costato diverse migliaia di dollari e fino a che il conto non fosse stato saldato da qualcuno, non mi avrebbero dato il corpo per seppellirlo. Cosa dovevo fare? Ho pagato e ho fatto il funerale».
Ma la sfida maggiore per mons. Kassarji è quella di tentare, insieme all’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite, di ottenere dallo stato libanese una politica più umana che permetta di dare a questi rifugiati un permesso di soggiorno temporaneo fino alla loro partenza verso altri Paesi. «Ma la nostra vera intenzione – conclude – è quella di provare, con le istituzioni internazionali e le ONG, di convincere il popolo iracheno a restare in Libano. Sono convinto che servirebbe a consolidare la presenza cristiana in Libano. Questa infatti è la condizione indispensabile perché il Libano continui ad essere un modello di convivenza tra cristiani e musulmani». Ma per realizzare quello che può sembrare un sogno, occorre che la Chiesa caldea libanese venga sostenuta, perché con proprie forze, non potrebbe mai farcela. Per questo Mons. Kassarji sta girando alcuni Paesi europei per chiedere aiuto e lancia un disperato appello: «Aiutate i cristiani dello “tsunami” iracheno».

LA CULLA DELL’ABORTO FA RETROMARCIA

dal Giornale del Popolo del 31 ottobre 2007

In Russia parlano di “coma demografico”. Tra il 1992 e il 2005 il Paese ha perso il 16% della popolazione, 11 milioni di abitanti. Oggi sono 142 milioni, e di questo passo il Cremlino calcola che tra dieci anni scenderanno a 135 milioni. Per questo quel milione e 400 mila aborti nel solo 2007 appare ancor più allarmante a chi pensa al futuro della Russia. Così, senza neanche aspettare il normale iter legislativo, la ministra della Salute Tatiana Golikova ha deciso di ridurre per decreto il diritto all’aborto. Resterà legale solo per gravi ragioni mediche, per incesto o per stupro. Cade, da un giorno all’altro, l’interruzione di gravidanza per cause sociali ed economiche.
La storica decisione (l’Unione Sovietica fu il primo Paese a legalizzare l’aborto, ed è il primo a decidere di tornare sui suoi passi) giunge dopo anni di proclami natalisti delle autorità, come quello del governatore di Ulyanoysk – città natale di Lenin – che invitava i cittadini a prendersi un giorno di vacanza per «dare un figlio alla patria». Non ci illudiamo: le ragioni della marcia indietro del Governo russo non sono tanto di tipo etico, ma piuttosto di natura economica e sociale. L’incubo che si vuole fugare è quello di un’implosione demografica che potrebbe mettere in ginocchio questo immenso Paese ricco di risorse naturali, ma sempre più povero di “forza lavoro”. Quel che in Occidente accade più lentamente grazie ai flussi migratori, in Russia assume dimensioni allarmanti. Per ora è stato inutile provare a convincere le donne a fare figli offrendo loro sussidi e fondi pensionistici. Pochi soldi, infatti, non permettono alle famiglie con figli di barcamenarsi a cavallo della soglia di povertà. Così si è passati alle maniere forti e, per prima cosa, si è deciso di ridurre drasticamente il diritto all’aborto. Qualche mese fa il presidente Putin ha posto fra le emergenze nazionali la crisi demografica e ha fatto appello ad un ritorno alla “famiglia tradizionale”. Appello assai bizzarro se si pensa che gli adulti russi sono cresciuti nelle famiglie collettivizzate dell’Unione Sovietica e poi passate fin troppo velocemente allo stile di vita dei Paesi occidentali. Figli unici, gravidanze fuori dal matrimonio, madri sole e quindi povere e un tasso di divorzi degno dei Paesi occidentali. Il sospetto, più che fondato, è che l’ex colonello del KGB, oggi discusso presidente, proponga per il futuro della Russia il modello di famiglia prerivoluzionaria. Quello, cioè, della Russia cristiana. Che strano Paese la Russia: nel giro di un secolo introduce l’aborto per alimentare la forza lavoro femminile nell’ambito dei “piani quinquennali”, poi lo utilizza per la transizione al modello consumistico e, infine, lo vieta per un sempre più incalzante allarme demografico.
Noi, evidentemente, ci rallegriamo per la decisione del ministro russo, non foss’altro per i bambini che per questo decreto non verranno più uccisi. Ma dubitiamo che si possa, con i soli decreti, ridestare la coscienza di un popolo a cui è stato fatto dimenticare il valore dell’accoglienza dei figli. Distruggere, infatti, è sempre più facile che costruire.

DI TESSITORI, PONTI E METICCI

Dal Giornale del Popolo del 23 giugno 2007

“Non esistono milizie cristiane per difendersi. Quindi, un cristiano è un vulnerabile per eccellenza”. Si è aperto con il drammatico messaggio di mons. Louis Sako, arcivescovo iracheno di Kirkuk, il convegno del Comitato scientifico della rivista internazionale Oasis che si è tenuto mercoledì e giovedì a Venezia. Il vescovo iracheno non ha potuto partecipare all’incontro proprio per la difficilissima situazione della sua comunità cristiana. Uccisioni di preti, rapimenti, attentati e minacce alle comunità cristiane sono ormai all’ordine del giorno in alcuni Paesi del mondo musulmano e in Iraq in particolare. “Il problema non è tra cristiani e musulmani – prosegue Sako nel sul messaggio –. Il problema è il fondamentalismo che esclude l’altro e lo annienta per motivi religiosi ed etnici. La soluzione è aiutare la gente a riconoscere l’altro come una persona umana con un valore assoluto e collaborare con tutti per una società migliore in cui ognuno venga rispettato”. Ma per l’arcivescovo di Kirkuk occorre che anche il mondo politico si muova e chiede alla Lega dei Paesi arabi e all’organizzazione dei Paesi musulmani “di fare di tutto per proteggere la vita degli iracheni e quella della comunità cristiana che è una realtà fondamentale nella storia e nella cultura del Paese”.

Il precipitare della situazione dei cristiani iracheni (i cattolici secondo alcune fonti si sarebbero ridotti da 500mila a 25mila negli ultimi quattro anni) dà la misura dell’urgenza e dell’importanza dell’attività della rivista promossa dal Patriarca di Venezia Angelo Scola. Essa, infatti, costituisce lo strumento principale di una rete di rapporti nata proprio per avvicinare i cristiani che vivono in Occidente e quelli che si trovano nei Paesi a maggioranza musulmana. In questo senso il rapporto con l’Islam diventa per i promotori di Oasis un orizzonte ineludibile. A Venezia erano presenti personalità come il vicario apostolico del Kuwait, mons. Camillo Ballin, il vicario Apostolico d’Arabia, mons. Hinder, il nunzio apostolico in Kuwait, Yemen, Bahrain e Qatar, mons. Paul Mounged El-Hache, il vescovo di Islamabad, mons. Anthony Lobo e l’Arcivescovo Coadiutore di Gerusalemme, Fouad Twal. Con loro una cinquantina di studiosi europei, arabi cristiani e cristiani residenti in Paesi a maggioranza musulmana. Il cardinal Scola ha definito questa “rete di rapporti” come “Una cerchia di amici sempre aperta ed appassionata in modo caparbio all’incontro tra uomini di tutto le religioni e culture anche quando le circostanze, non raramente tragiche – in Iraq, in Afghanistan, in Palestina – assumono la natura dello scontro doloroso e perfino mortale”.

Un’amicizia tra cristiani, insomma, che definisce sia la natura della relazione tra i promotori della rivista e del centro studi ad essa collegato, sia la modalità di lavoro: “Il metodo con cui vogliamo operare un confronto a tutto campo con le problematiche derivanti dal processo che indicammo già anni fa di ‘meticciato di civiltà e culture’ – ha detto nella sua introduzione ai lavori il Patriarca di Venezia – è quello di passare umilmente attraverso la presenza delle minoranze, provate ma intensamente testimoniali, dei nostri fratelli cristiani. La bontà di questo metodo si è già più volte documentata nella capacità di costringere noi cristiani d’Occidente a superare l’intellettualismo che endemicamente ci affligge e nel provocare i nostri fratelli, d’Oriente ad assumersi fino in fondo il compito di accompagnarci all’incontro con le religioni, in particolar mondo con l’islam nelle sue diverse forme”. Al centro dei lavori del Comitato quest’anno è stato posto proprio il concetto di “meticciato di civiltà” che sembrerebbe descrivere in modo plastico il processo di rapida, dolorosa e a violenta trasformazione in atto nel mondo. Se infatti l’idea del multiculturalismo si limita a promuovere una giustapposizione di mondi, quella di meticciato descrive una situazione in cui le parti si coinvolgono profondamente e, partendo da una chiara identità che le distingue, sono capaci di influenzarsi vicendevolmente. È convinzione del cardinale di Venezia che quella del “meticciato” non sia l’unica categoria per spiegare il fenomeno al quale stiamo assistendo, ma essa debba essere privilegiata a quelle classiche di “identità”, “dialogo” e “interculturalità”. E provocatoriamente ha anche sottolineato che a questa categoria non debba essere sottratta la sua genesi biologica: “Il cristianesimo – si è domandato Scola – deve forse temere la fusione di razze e di popoli che è passata attraverso la generazione di persone da genitori di popolo diversi?”.

Tutto lo sforzo, insomma, sembra quello di andare oltre l’ormai consunta categoria di “scontro di civiltà” che non riesce a rendere ragione di moltissime realtà testimoniate fornite dagli intervenuti al convegno. “Parlando del meticciato, una parola che è tornata spesso nelle nostre discussioni è stata quella di “tessitore”, – ha riferito Scola – si è detto che l’uomo verso cui stiamo andando, nella misura in cui sarà inevitabilmente un po’ meticcio, sarà un ‘tessitore’”.

In un momento in cui si moltiplicano gli appelli per la difesa delle minoranze cristiane nei Paesi islamici (oltre a quello del Papa, significativo quello lanciato da Magdi Allam dalle colonne del Corriere della Sera) lo sforzo di Oasis per comprendere la natura delle sfide che emergono dall’attualità appare come una vera e propria novità. Per contenuti e, come abbiamo detto, per modalità.

QUELLE SPORCHE OLIMPIADI

dal Giornale del Popolo del 24 maggio 2007

Jacques Rogge, presidente del Comitato Olimpico Internazionale (CIO), era stato categorico: vogliamo «il pieno rispetto dei diritti umani in Cina» prima di celebrare in questo Paese le Olimpiadi del 2008. A poco più di un anno dall’apertura dei Giochi nulla sembra essere cambiato dalle parti di Pechino: libertà di espressione, libertà di religione, rispetto della vita e delle minoranze. Nulla di nulla. A stare a quel che Amnesty International riporta nel suo rapporto per il 2006 pubblicato ieri, in Cina vi sarebbe stato addirittura un peggioramento nel campo dei diritti umani. «Un numero crescente di avvocati e giornalisti sono stati ostacolati, arrestati e imprigionati – dice Amnesty –. Migliaia di fedeli che praticano la loro fede al di fuori delle chiese ufficiali sono stati perseguitati, molti sono stati arrestati e incarcerati. Diverse migliaia di persone sono state condannate a morte e giustiziate. Migranti dalle aree rurali sono stati privati dei loro diritti fondamentali. Sono continuate le dure repressioni contro gli Uiguri nella Regione Autonoma dello Xinnjiang, e la libertà di espressione e di religione è stata severamente limitata in Tibet e per i tibetani». Se è questo che il CIO intende per «pieno rispetto dei diritti umani» c’è davvero da preoccuparsi. Paradossalmente per Pechino l’organizzazione dei Giochi Olimpici è stata un’ulteriore occasione per calpestare i diritti dei propri cittadini. Basti vedere come si sono mosse le ruspe nei cantieri che affollano la capitale cinese. Per realizzare alberghi e sedi olimpiche in centro, da anni Pechino è sottoposta a una violenta trasformazione urbanistica. Vecchie case attorno al Palazzo imperiale – perfino alcune ville di mandarini del 1400, ma ormai ridotte male – sono state demolite; gli abitanti, giunti al tempo di Mao dopo il terremoto di Tangshan nel ’76, espulsi con la forza. Alcuni sono stati perfino prelevati nella notte e trasferiti nelle campagne: l’indomani la polizia li ha trovati e imbavagliati. Nel frattempo le loro abitazioni sono state distrutte. Almeno 200mila pechinesi hanno dovuto accontentarsi di un irrisorio risarcimento da parte del Governo della città, insufficiente anche per affittare una baracca in periferia. Tutte le denunce sono state messe a tacere. Anche la periferia è in balia delle ruspe. Per far nascere i nuovi villaggi olimpici attorno alla circonvallazione, si stanno distruggendo circa 300 villaggi fatti di lamiera e legno, che poco si adatterebbero agli avveniristici impianti sportivi. Amnesty International denuncia una vera e propria campagna per scoraggiare i migranti a risiedere nella capitale e riferisce che le autorità municipali hanno discusso di un piano per l’espulsione di milioni di lavoratori migranti dalla città fino al termine delle Olimpiadi. A questo si aggiunge la decisione di chiudere tutte le oltre 200 scuole private per i figli dei migranti per scoraggiare i lavoratori clandestini a risiedere a Pechino. Chi solo prova a denunciare questa situazione viene costretto al silenzio. «Le autorità – si legge nel rapporto di Amnesty – hanno moltiplicato le misure di repressione contro i giornalisti, gli scrittori e gli internauti». La censura di internet ha raggiunto un grado di raffinatezza che non ha paragoni nel mondo, anche grazie all’appoggio di giganti occidentali come Yahoo, Google e Oracle. Mentre per i giornalisti stranieri è sempre più difficile entrare in contatto con la gente comune, anche perché chi prova a collaborare con la stampa straniera viene presto preso di mira. Oggi la Cina può vantare molti record e quello di sciorinare numeri astronomici in qualsiasi campo è diventato lo sport preferito dal Governo di Pechino: abitanti, crescita economica, sviluppo industriale, infrastrutture. Ma tra i vari campi in cui la Cina non è seconda a nessuno è quello della pena di morte. Secondo Amnesty International solo l’anno scorso sono state condannate a morte nel Paese almeno 2790 persone, mentre le esecuzioni di cui di ha avuto notizia sono 1010. In novembre, per la prima volta, il Governo ha ammesso che la maggior parte degli organi utilizzati per i trapianti appartengono ai condannati a morte. Di fronte a una situazione così imbarazzante in Occidente molti si stanno chiedendo se sia davvero il caso partecipare a una festa organizzata da un ospite così spietato con i propri cittadini. La proposta di un boicottaggio di Pechino 2008 è sorta agli onori della cronaca perfino durante il dibattito che ha preceduto l’elezione del presidente della Repubblica francese. La candidata socialista Ségolène Royal – sulla scia della provocazione dell’attrice e ambasciatrice dell’ONU Mia Farrow – si è detta favorevole a disertare l’Olimpiade a causa della connivenza del regime cinese con il Governo sudanese, colpevole del genocidio in Darfur. Insomma: se boicottiamo Pechino facciamolo per le sue responsabilità in Darfur e non per i suoi problemi interni. In questo modo, però, si finisce per accusare gli sponsor ufficiali dei Giochi e si dice nulla delle aziende occidentali che quotidianamente sfruttano il lavoro di chi in Cina è trattato come carne da catena di montaggio. «Se l’Occidente vuole boicottare – scriveva padre Bernardo Cervellera sulle pagine di Avvenire – deve boicottare anzitutto se stesso e i suoi rapporti iniqui con Pechino: per essere credibile, il boicottaggio deve costare qualcosa a noi stessi». «Per questo – continua il direttore di Asianews – meglio sarebbe che tutti coloro che commerciano con la Cina stilassero contratti cui collegare condizioni etiche: migliore trattamento degli operai, libertà di associazione, libertà di religione per le comunità locali, liberazione di qualche dissidente ». Per Cervellera, dunque, il problema non è tanto l’opportunità o meno della passerella olimpica, quanto una seria inversione di rotta nell’approccio dell’Occidente economico e politico nei confronti dei palazzi di Pechino. Manca poco più di un anno a quell’8/08/2008 (nella superstiziosissima Cina, l’8 è un numero fortunato) quando si apriranno i battenti dell’evento sportivo più importante a livello planetario. Nessuno, probabilmente, troverà il coraggio di restare fuori dal gioco. Ma non è detto, che qualcuno decida di giocarlo in modo diverso.

IL VECCHIO FALCO SE LA PRENDE CON GLI SVIZZERI


dal Giornale del Popolo del 21 maggio 2007

Il “piano svizzero” per una soluzione pacifica del contenzioso sul nucleare iraniano sta davvero dando nell’occhio se un ex pezzo da novanta dell’amministrazione Bush si sente in dovere di bollarlo come «una farsa». È il caso dell’ex ambasciatore americano all’ONU John Bolton che ieri, in un’intervista alla “SonntagsZeitung”, ha sparato ad alzo zero contro la diplomazia elvetica. «La Svizzera dovrebbe tenersi lontano da questo dossier» ha dichiarato senza mezzi termini al domenicale zurighese. John Bolton ritiene che la proposta elvetica sia un’illusione utile solo a permettere all’Iran di prendere ancora tempo per realizzare i propri progetti per una bomba atomica. Alla proposta svizzera – si legge nell’intervista – starebbe lavorando da diversi anni l’ex ambasciatore della Svizzera a Teheran Tim Guldimann. Bolton, conservatore di ferro vicino al vicepresidente americano Dick Cheney, critica violentemente il diplomatico svizzero, in funzione a Teheran dal 1999 al 2004, affermando che Guldimann avrebbe così tanti pregiudizi anti-americani che Washington aveva considerato la possibilità di esigere una mutazione all’interno della rappresentanza elvetica o di trovare un’altra ambasciata per rappresentare gli USA. L’ex ambasciatore americano all’ONU spera che lo “Swiss Paper”, di cui da alcune settimane si sta parlando a livello internazionale, non rappresenti un progetto del Governo svizzero. Ma a smentirlo è stato direttamente il portavoce del Dipartimento degli Esteri Johann Aeschleiman: «La Svizzera – dice al Giornale del Popolo – si sta impegnando per una soluzione diplomatica di questo conflitto ed è in contatto diretto con tutte le parti in causa. Il nostro tentativo è quello di trovare delle strade che siano accettabili per tutte le parti e che facilitino il dialogo». Meno diplomatica una nostra fonte vicina al Segretario di Stato Michael Ambühl che afferma che Bolton non sa di cosa sta parlando e che l’ex ambasciatore Guldimann non si sta affatto occupando del dossier iraniano, anche perché il diplomatico non è più in carica da ormai tre anni. Per quanto riguarda l’atteggiamento di Guldimann nei confronti degli Stati Uniti, al Dipartimento degli Affari Esteri non risulta che Washington si sia mai lamentata di come negli anni passati la Svizzera abbia svolto il suo ruolo di intermediaria con Teheran. A Berna, poi, si ha la convinzione che al Dipartimento di Stato americano, guidato da Condoleezza Rice, abbiano capito che le intenzioni della diplomazia svizzera non contrastano gli interessi americani. Bolton, infatti, sembra confondere due piani assolutamente distinti: da una parte i rapporti che Berna gestisce a Teheran per conto di Washington e dall’altra l’iniziativa diplomatica incentrata sul dossier nucleare che la Svizzera conduce a proprio titolo e non per conto terzi. Dopo essersi dimesso da ambasciatore presso l’ONU, John Bolton è tornato a lavorare per il Think Tank conservatore “American Enterprise Institute” come Senior Fellow; da allora non ha perso occasione per criticare la propria diplomazia e quella altrui. È capitato, ad esempio, nel caso dell’accordo raggiunto dalla comunità internazionale con la Corea del Nord che ha portato all’interruzione del programma nucleare di Pyongyang. È di settimana scorsa, invece, una sparata di Bolton contro il Foreign Office di Londra colpevole di aver danneggiato i rapporti con gli Stati Uniti. Ma stando a quello che si dice nei corridoi del Dipartimento di Stato americano sarebbero stati proprio i modi bruschi di Bolton a danneggiare l’immagine degli Stati Uniti all’estero. Nonostante in passato Bolton sia stato vicino alla posizione della Casa Bianca, e in alcuni casi l’abbia ispirata, oggi l’ex diplomatico non sembra poter rappresentare la posizione ufficiale di Washington. Forse su una sola cosa Bolton sembra aver ragione: il tempo sta dalla parte di Teheran.

GLI SVIZZERI CHE VORREBBERO RISOLVERE IL PASTICCIO DEL NUCLEARE IRANIANO


Dal Giornale del Popolo del 16 maggio 2007

Ne ha fatta di strada negli ultimi tre mesi la bozza di accordo elaborata dalla diplomazia svizzera per la soluzione di quel ginepraio che è il contenzioso sul nucleare iraniano. Da quando cioè il 14 febbraio scorso gli sherpa svizzeri hanno presentato a Vienna un documento il cui contenuto è stato reso noto in esclusiva dal Giornale del Popolo. Se allora al Dipartimento degli Affari Esteri ci si chiudeva in un misterioso riserbo, oggi non è più mistero che le difficili trattative vengano condotte dal rappresentante dell’Unione europea, Javier Solana, proprio su uno “Swiss Paper” redatto negli uffici di Berna. A confermarlo indirettamente a fine aprile è stato lo stesso Solana e la settimana scorsa lo ha fatto direttamente il ministro degli Esteri iraniano Manucher Mottaki. Tra la fermezza di Washington e quella di Teheran, dunque, esiste uno spiraglio di dialogo costituito dalla proposta svizzera. Sembra che il testo originario della proposta si sia evoluto dai sei punti originari e la posizione portata avanti in questo momento è definita “double time out”. La proposta, cioè, che Teheran interrompa l’arricchimento dell’uranio e, nel contempo, la comunità internazionale si impegni a non imporre nuove sanzioni. L’idea dei diplomatici svizzeri è che non è possibile pretendere dall’Iran l’interruzione dell’arricchimento dell’uranio come condizione per sedersi al tavolo delle trattative. Per Berna lo stop all’arricchimento deve essere già parte del negoziato.
In un primo momento, dicono al GdP fonti diplomatiche, gli Stati Uniti si erano molto indispettiti per l’iniziativa elvetica tanto che l’ambasciatore americano Peter Coneway aveva espresso il proprio disappunto in un incontro a quattrocchi con la signora Calmy-Rey. Per Coneway l’atteggiamento di Berna poteva indebolire il fronte della fermezza mantenuto da Washington. A Teheran, diceva Coneway, si potrebbe pensare che dietro alla proposta svizzera vi siano gli Stati Uniti. Da allora, dicono a Berna, sembra che la posizione di Washington nei confronti dell’iniziativa svizzera si sia fatta più morbida e siano ricominciati con più serenità i contatti tra i vari funzionari che si stanno occupando dello spinoso dossier. Certamente gli americani si sono tranquillizzati costatando che Berna non desidera giocare un ruolo da protagonista nell’affare, ma intende mettere in campo le sue competenze e mandare avanti qualcun altro nei negoziati veri e propri.
Nei corridoi dell’ala Ovest di Palazzo federale chi tira le fila di questo dossier è lo stesso Segretario di Stato Michael Ambühl. Uscito dal Politecnico di Zurigo con una laurea in gestione aziendale e in matematica applicata, Ambühl a prima vista non sembrerebbe l’uomo adatto a un affare di alta politica internazionale e potrebbe essere facile preda dei pescecani della diplomazia iraniana e statunitense. In realtà il funzionario zurighese si è fatto le ossa tra il 2000 e il 2004 con le trattative dei Bilaterali II e alla segreteria di Stato è arrivato l’anno successivo con una notevole esperienza nel gestire i dossier più complicati. Non è escluso che le sue frequentazioni degli uffici di Bruxelles gli abbiano permesso di avvicinarsi ai collaboratori di Javier Solana per accreditare la proposta svizzera. Ambühl non ha il physique du rôle del diplomatico di razza, ma certamente ce la sta mettendo tutta e non risparmia le suole delle scarpe dato che, come scriveva domenica la NZZ am Sonntag, si è recato a Teheran già una mezza dozzina di volte negli ultimi mesi.
Certo resta imprevedibile e spinosa la variabile costituita dall’atteggiamento ambiguo dell’Iran, che non si adopera per scongiurare lo scontro diretto. E mentre a intermittenza il negoziatore Ali Lariani si dice pronto a sedersi al tavolo del negoziato, ieri gli ispettori dell’AIEA hanno confermato che la produzione dell’uranio arricchito da parte di Teheran ha conosciuto un’importante escalation.

FAMILY DAY: UN’IDEA PER L’EUROPA

dal Giornale del Popolo del 14 maggio 2007

«Verranno tempi in cui spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie degli alberi sono verdi d’estate». Questo diceva, profeticamente, G.K. Chersterton che già all’inizio del secolo scorso preannunciava la necessità di una battaglia per la difesa della ragione e del senso comune. Sabato al Family Day di Roma tantissimi cattolici e molti laici hanno invaso Piazza San Giovanni con questo spirito e nella convinzione che occorra combattere per difendere qualcosa che fino a non troppi anni fa era una realtà scontata come, appunto, il colore delle foglie sugli alberi. Sono arrivati i tempi in cui bisogna ricordare che cosa è la famiglia fondata sul matrimonio e per quali buoni motivi va tutelata e promossa. Sembra una banalità ma, purtroppo, non lo è più. Non si ricorda nella storia d’Italia una manifestazione di queste dimensioni che portasse in piazza nonni, genitori e passeggini in un carosello di allegria e positività. Sui numeri è meglio non discutere troppo: è ormai convenzione assodata che chi occupi per intero Piazza San Giovanni abbia il diritto di annunciare la partecipazione di almeno un milione di persone. Sabato in piazza è comparsa tutta quella fetta di società che non è mai tenuta in conto dagli editoriali della stampa nazionale; un popolo fino a sabato rimasto nell’ombra, anche se aveva fatto sentire la sua presenza in un’altra occasione due anni fa con il referendum fallito per l’abrogazione della legge sulla procreazione assistita. Da oggi la politica italiana, dell’una e dell’altra parte, non potrà più far finta di non aver visto e di non sapere. Si affannino pure i partiti a provare a cavalcare, per fini elettorali, l’onda del successo della mobilitazione. Ma la politica partitica, per sua natura, faticherà non poco a ingabbiare un movimento di questo genere così composito e allo stesso tempo capace di unità per un tema così importante. Dal palco di Piazza San Giovanni nessuno slogan contro il governo, solo la decisa presa di posizione contro la soluzione (i DI.CO) scelta per garantire i diritti alle coppie di fatto. Sarebbe però superficiale e miope guardare al Family Day come a un folkloristico fenomeno italiano. La battaglia lanciata dai cattolici italiani (e condivisa da molti laici, ebrei, protestanti e musulmani) ha un valore culturale che travalica i confini nazionali. Eugenia Roccella, portavoce della manifestazione, in un’intervista al GdP diceva che quella del Family Day è una battaglia d’avanguardia per l’Europa, in anticipo sui tempi; un discorso proiettato al futuro che fa sembrare la recente legge svizzera sul registro delle unioni dei conviventi un arnese appartenente a un tempo ormai lontano. È la famiglia che garantisce il futuro della società, solo chi è attento ad essa può dire di guardare al futuro.

QUESTO IL MONDO NON LO SAPRA’

La nostra giovane età non ci ha permesso di essere contemporanei di questo racconto. Peccato. La leggeremo come se fosse un romanzo eppure è un piccolo brandello di storia. Una storia davvero d’altri tempi, fatti di giovani sognatori i cui destini si incrociano con le cupi tragedie della storia. Due ragazzi torinesi che con un’antenna riescono a captare misteriosi segnali dallo spazio: sono i disperati messaggi dei cosmonauti che “non ce l’hanno fatta” e che, abbandonati dalla macchina propagandistica, lasciarono il posto a quello che divenne il mito di Yuri Gagarin.
Qui un articolo sulla Stampa. Qui una storia un po’ meno scafata ma più dettagliata. Qui il libro che ne racconta la storia.

CADEMARIO, DOVE LA SVIZZERA SI STUPISCE DI SE STESSA

Da Vita del 25 agosto 2006

«Il Wellness Hotel Kurhaus Cademario offre tutti i vantaggi di una struttura che combina il comfort di un hotel di classe, il relax di un centro benessere e la professionalità di un istituto terapeutico. È aperto tutto l’anno». Così esordisce il depliant informativo della più nota attrattiva di questa località a 850 metri di altitudine, il piccolo comune di Cademario, 800 anime scarse. Siamo in Canton Ticino, a poco più di dieci chilometri da Lugano, un’ottantina da Milano. A volte, d’inverno – dicono – dalla terrazza del Kurhaus è possibile godere una vista spettacolare su un mare di nuvole che copre il lago giù a valle. Insomma, un posto ideale per anziani facoltosi e pazienti in cerca di un incantevole posto per lussuose riabilitazioni. Il Kurhaus è una sintesi dello spirito svizzero: comfort, professionalità, bellezza paesaggistica: il tutto al servizio del benessere. È proprio la ricerca del benessere il motore non solo del Kurhaus di Cademario, ma a ben vedere, di tutto il sistema- Svizzera. Secondo il mito qui tutto funziona alla stregua di un orologio di alta precisione. Mito o non mito in pochi posti al mondo come in Svizzera gli uomini, per dirla con T.S. Eliot, hanno sognato (e in qualche caso realizzato) «sistemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe bisogno di essere buono». Tutto più o meno funziona, ma il benessere? Quella del tasso di suicidi record non è una leggenda, anzi, e tra i sistemi “talmente perfetti” oggi la Svizzera può contare anche le associazioni che, in caso di gravi malattie, ti aiutano a toglierti la vita. Il metodo è sempre lo stesso: professionalità, discrezione e cortesia. Lo chiamano “suicidio assistito”. A poche centinaia di metri dal Kurhaus c’è una villa semplice di tre piani, grandi finestre che danno sul lago. Il bosco vicino, un grande prato, aria buona. Un posto ideale, chessò, per un agriturismo di successo. Anche qui, da qualche tempo, un piccolo popolo giunge dal fondo valle cercando un benessere fatto non di piscine a idromassaggio e camerieri in giacca bianca. A muovere questa gente sono desideri e inquietudini difficili da definire con le solite categorie sociologiche. Si tratta del Monastero dei Santi Francesco e Chiara. Qui abitano otto clarisse che vivono la clausura secondo la regola dei santi di Assisi. La comunità è stata fondata nel 1992, ma lo scorso giugno – grazie alle nuove vocazioni e alla richiesta della Diocesi di Lugano – è stata eretta a monastero autonomo. Era dall’800 che in Svizzera non veniva eretto un nuovo monastero di clarisse. A Cademario arriva gente di tutti i tipi: adulti in cerca di qualcuno che ascolti, famiglie, gruppi di parrocchie e movimenti, bambini della Prima Comunione. Tutti desiderosi di conoscere queste donne che fanno la vita più strana che si possa immaginare: una vita semplice e povera, fatta di preghiera e contemplazione. Chiediamo a suor Myriam, la madre badessa, il motivo di questo interesse: «È un mistero di Dio. Le cose nascoste è come se venissero alla luce. La verità viene alla luce e il cuore dell’uomo è sempre in grado di riconoscerla. La nostra vita è il segno più grande di questo: ciò che è vero, ciò che uno desidera, anche se nascosto, si fa strada da sé». Mi racconta che recentemente sono venuti al monastero i bambini della Prima Comunione della parrocchia del paesino: «Ci hanno fatto tantissime domande, alcune anche divertenti: mi hanno chiesto, per esempio, se sotto il velo avevo i capelli… Certo, vengono molti bambini, ma i più colpiti sono sempre gli adulti che li accompagnano ». Ma cosa dite a questa gente? «Noi non facciamo nient’altro se non accogliere, ascoltare e dire con la nostra vita che c’è il Signore. Che è proprio vero che questo Signore accompagna l’uomo. È come se la gente lo sapesse già, ma è come se avesse bisogno di vedere e toccare che è possibile dare tutto a Lui. Vengono e vedono ragazze giovani che lasciano tutto: la carriera, gli affetti, la ricchezza… per cosa?». Suor Miyriam racconta che alle ragazze che chiedono di entrare in monastero dice senza giri di parole che non si tratta di un albergo a quattro stelle, ma la risposta è sempre la stessa: «A me va bene così». Le ultime arrivate a Cademario si chiamano suor Mirjam Cristiana e Daniela. La prima è già novizia, la seconda è arrivata da appena 10 mesi. Hanno entrambe 27 anni. Tutte e due sono laureate, la prima in Scienze dell’educazione, la seconda in matematica. Sorridono. Hanno uno sguardo profondo e bellissimo. Sono italiane: la prima è brianzola, la seconda di Crema. Sono arrivate a Cademario con storie diverse, tramite amicizie e anche grazie al caso (o alla Provvidenza). Cristiana dice che da grande avrebbe voluto fare la mamma, Daniela aveva già un ragazzo. Niente. Il fascino per una vita dominata dall’amore a Cristo le ha vinte e portate qui. In questo posto sperduto sulle montagne, che ora la gente non cerca più solo per l’elegante Kurhaus, ma anche per vedere i loro sguardi penetranti dietro la grata di legno chiaro. Proprio qui. Nella efficiente, laica e sempre più disperata Svizzera.