L’enigma di Andy Warhol

Andy Warhol, The Last Supper

Questo articolo è stato pubblicato sul numero di febbraio 2017 di Tracce

«Al momento della sua morte, che lo colse all’età di 59 anni, il 22 febbraio del 1987, Andy Warhol era per molti poco più che la parodia di un artista», ha scritto Jerry Saltz del New York Times: «Era considerato un parassita della società che viveva sulle spalle di artisti più giovani. Un individuo ormai cotto e sovraesposto, il mito di se stesso, un artista da night club che se ne andava in giro con Liza Minelli e faceva ritratti di gente famosa per soldi. Poi è morto e all’improvviso tutte le apparizioni mondane, le foto, gli show televisivi, i film, le riviste, perfino i quadri che tanta gente aveva sempre guardato con sospetto, hanno preso vita, crescendo di statura. La mia domanda è: come mai Warhol è più rispettabile da morto che da vivo?».

A trent’anni esatti dalla scomparsa del Pope of Pop, il papa del pop, ci sono diversi modi per rispondere a questa domanda. Un modo è considerare quanto accaduto alla messa di suffragio per Warhol, nella Cattedrale di Saint Patrick a New York a qualche giorno dalla morte. Per l’elogio funebre prese la parola il critico John Richardson che rivelò non solo che l’artista era un fedele volontario di una mensa per i poveri, ma che da cattolico di rito bizantino, fino agli ultimi giorni, frequentava la chiesa per la messa domenicale e per pregare durante i giorni feriali. «Chi di voi lo ha conosciuto in circostanze che erano l’antitesi dello spirituale sarà sorpreso che questo lato sia esistito», disse Richardson davanti a decine di celebrità: «Ma c’era eccome, ed è la chiave della sua mente di artista».

Per molti quel momento è stata l’occasione per riconsiderare l’opera di Warhol da un’altra prospettiva. Complice del grande fraintendimento fu lui stesso, che aveva fatto di tutto per confondere le carte: «Non prendete mai Andy alla lettera», si raccomandava Richardson. Eppure, a trent’anni di distanza, quello che appare un enigma non è stato del tutto chiarito. Come può un’arte intenzionalmente superficiale essere espressione autentica di un animo sinceramente religioso, per non dire cattolico?

I biografi hanno raccolto molti aneddoti che attestano il reale attaccamento di Warhol alla Chiesa. Qualcuno ha detto che tenesse sempre in tasca un rosario. L’amico Bob Colacello sostiene che dopo l’attentato del 1968, quando una squilibrata gli sparò lasciandolo in fin di vita, promise, se fosse sopravvissuto, di andare a messa ogni domenica. Esiste la fotografia del suo incontro con papa Wojtyla in Piazza San Pietro nel 1980. Sul suo comodino è stato trovato il libro di preghiere della sua infanzia. Richardson disse che Andy pagò il seminario a un nipote e, almeno in un caso, fu responsabile di una conversione (il critico non diede ulteriori particolari). Eppure tutti sapevano che Warhol non era un santo: la sua Silver Factory negli anni Sessanta fu per molti un luogo di autodistruzione (un esempio su tutti: il ballerino Fred Herko, che si gettò dal tetto dell’edificio). Debolezze ne aveva come tutti, e anche qualcuna in più. È evidente che il mistero non può essere risolto confidando solo sui dati biografici e limitandosi a constatare che, tra icone del consumismo e celebrità, nella sua produzione artistica compaiono anche soggetti religiosi.

Andy Warhol, Christ 112 timesSe esiste una chiave per risolvere l’enigma, essa va trovata – questa volta sì – in profondità, cioè nella concezione che Warhol aveva di ciò che gli interessava di più: le immagini. In questo senso serve sapere che la sua famiglia proveniva da un piccolo paese nei Carpazi – all’anagrafe era registrato come Andrew Warhola – e che, giunta a Pittsburgh, frequentava la chiesa bizantina cattolica di San Giovanni Crisostomo. Quella chiesa possiede un’iconostasi e i fedeli, come fanno anche gli ortodossi, entrando, baciano le icone. Il bacio dice di un legame quasi sacramentale con l’immagine, che diventa strumento del rapporto con il divino. Il fondo oro delle icone è lo spazio eterno della dimensione sacra. E tuttavia l’icona è viva e guarda il fedele il quale, con umiltà, si lascia guardare. Anche per questo la tradizione orientale ha codificato canoni per la composizione e la simbologia a cui gli iconografi si attengono.

La ripetitività e la spersonalizzazione tipiche dell’arte bizantina sono le stesse che segnano l’opera di Warhol già nelle sue prime opere mature. Le lattine della zuppa Campbell sono riprodotte in modo fedele, senza volontà di interpretazione. La figura è ripetuta identica a se stessa. Gli oggetti della vita quotidiana sono offerti come un gesto di stima verso tutto ciò che ci circonda.

Quanto la pittura, in Warhol, inviti lo spettatore a far ciò che il fedele compie nei confronti dell’icona sacra, cioè entrare in rapporto reale con ciò che è rappresentato, possiamo solo supporlo. Di certo la sua era una vera e propria bulimia di realtà. In America, un diario visivo Warhol racconta che quando i giornalisti chiesero a Giovanni Paolo II che cosa gli piacesse di più di New York, rispose: «Tutto». E l’artista aggiunge: «È esattamente questa la mia filosofia».

Anche la sua passione per le celebrità, in fondo, è un modo tutto americano di celebrare il desiderio di essere voluti bene. E non appare per nulla frivolo proporre i ritratti di Marilyn Monroe, Jackie Kennedy e Liz Taylor nei momenti più drammatici delle loro vite. Anche qui: sembrerebbe l’invito a un gesto di affetto, a un bacio, a uno sguardo che entri in rapporto con ciò che di non superficiale c’è nei volti che tutti si accontentano di guardare con superficialità. Questo non significa che Warhol volesse fare arte religiosa e men che meno arte sacra.

Eppure, per uno strano destino, negli ultimi due anni si è ritrovato a lavorare in modo accanito sull’immagine di Cristo. L’occasione, abbastanza casuale, fu l’invito del gallerista Alexander Iolas a fare una mostra a Milano al Palazzo delle Stelline, a pochi metri dall’Ultima cena di Leonardo. Sarà l’ultima sua mostra, inaugurata pochi giorni prima di morire.

Jane Daggett Dillenberger, nel suo The Religious Art of Andy Warhol, ha calcolato che l’artista, comprese le versioni in cui ha usato il volto di Cristo come multiplo, lo abbia raffigurato 448 volte. Si tratta del ciclo a soggetto religioso più ampio di tutta l’arte americana. E alcune opere sono le più monumentali della produzione di Andy: The Last Supper (Red) del 1986, con i suoi dieci metri di larghezza, è perfino più grande dell’originale leonardesco.

Che Warhol si appassioni a questo lavoro è più che comprensibile: si trova a confrontarsi con una tra le immagini più mediatizzate della storia dell’arte, il cui protagonista, Gesù, a ben vedere, è la celebrità al massimo grado: Jesus Christ Superstar. Tutti lo conoscono, tutti lo amano. Non solo: quella di Leonardo è l’immagine che la famiglia Warhola aveva appesa sopra il tavolo della cucina della casa di Pittsburgh. E la madre Julia, che visse fino alla morte con il figlio, teneva nel suo libro di preghiere un santino del Cenacolo.

Andy Warhol, Last SupperL’incontro con il tema di Cristo può essere considerato, a ragione, il compimento di una poetica ormai matura, che fonda le proprie radici, come affermava Richardson, nella religiosità popolare. Il lavoro su Leonardo, ad ogni modo, non si limita a riproporre, con qualche modifica, l’immagine del Cenacolo. Warhol usa come base per i dipinti un disegno trovato in un’enciclopedia ottocentesca, e per le serigrafie una riproduzione comprata in un negozio coreano di oggetti religiosi non distante dalla Factory. Nascono così The Last Supper (Wise Potato Chips), in cui sovrappone alla scena evangelica, per indicarne l’aura di saggezza (Wise), il logo a forma di occhio di una marca di patatine fritte. In The Last Supper (Dove), usa il logo del noto sapone e una colomba. Il riferimento, suggerisce la Dillenberger, è a un episodio particolarmente caro alla Chiesa orientale, quello del Battesimo al Giordano, in cui lo Spirito Santo discende su Gesù in forma di colomba. Sulla sinistra il prezzo “59¢”, a indicare che, come i prodotti di uso comune a buon mercato, Cristo si offre a tutti. E a destra il logo della General Electric, l’azienda che porta energia e luce in tutte le case degli americani.

Un altro ciclo di dipinti è intitolato Be Somebody with a Body (with Christ of the Last Supper), in cui la scritta che dà il titolo all’opera è stretta tra l’immagine di Gesù dell’ultima cena e un sorridente bodybuilder, vagamente somigliante a Warhol. Qui si innesca un cortocircuito tra l’esperienza dell’artista, che negli ultimi anni aveva iniziato a essere seguito da un personal trainer, e la figura di Cristo nell’atto di istituire l’Eucaristia. Così la frase del titolo «Sii qualcuno con un corpo» diventa una doppia preghiera, a se stesso e a Gesù: entrambi non possono restare anime disincarnate.

Monumentali e maestose sono le tre grandi serigrafie, sempre dedicate al quadro di Milano: quella rosa, quella camouflage e quella rossa. Ma forse l’immagine più sconvolgente è quella offerta da Christ 112 Times, in cui il Gesù di Leonardo viene ripetuto in modo ossessivo 28 volte su quattro ordini. Non è la prima volta che Warhol fa un’operazione simile. Ma qui diventa la maniera di rendere in immagine il modo in cui, certamente da bambino, Warhol era abituato a pregare. Tipica del cristianesimo orientale, infatti, è la giaculatoria: «Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore», che si ripete come un mantra decine e decine di volte: Gospodi pomilui.

Dell’ultimo periodo, poi sono anche due piccole opere, che riproducono le scritte: «Repent And Sin No More», (Pentiti e non peccare più), e «Heaven and Hell Are Just One Breath Away» (Paradiso e inferno sono a un respiro di distanza). E un piccolo e commovente Christ $9.98, un Gesù popolare davvero accessibile a tutti.

Se qualcuno avesse chiesto a Warhol perché dipingesse quei soggetti, si sarebbe limitato a un laconico: «Perché mi piacciono». Eppure il suo apparente distacco dalle cose e dai loro significati sembra essere contraddetto da una frase carpita da Pierre Restany, grande critico francese, che presenziò all’inaugurazione della mostra di Milano. «Fui sorpreso da quanto Andy mi disse quel giorno: “Pierre, pensi che gli italiani vedranno il rispetto che ho per Leonardo?», racconta il critico: «Consciamente o no, Warhol mi sembra aver agito come uno che ha cura di un capolavoro della cultura cristiana, preoccupato di continuare una tradizione di cui si sente parte».

A MILANO I CRISTI FOSFORESCENTI DI ANDY WARHOL

Sono stato a Palazzo Reale a vedere Andy Warhol. La mostra è molto bella per diversi motivi. Il primo è che è una mostra in cui si impara. Si impara che Warhol non è un artista né improvvisato né superficiale. Il secondo motivo, e sta alla base del primo, è che a Palazzo Reale è stata portata la collezione della Brant Foundation: una raccolta di pezzi scelti sapientemente e con gusto.

Che Warhol non sia un artista improvvisato di capisce subito, nella prima sala, dove vengono esposte le opere degli anni Cinquanta. Disegni, acquarelli e opere su carta (e qualche altra cosa che andrebbe sotto la definizione di “arte applicata”. La mano di Andy è sicura e raffinata. Il tratto è continuo e non ha ripensamenti. Chi ha visto il meraviglioso stand della galleria Daniel Blau quest’anno ad Art Basel sa di cosa sto parlando (vedi qui, qui e qui).

L’aura di spensieratezza che pervade la prima sala si perde ben presto e lascia il posto a un senso di inattesa inquietudine (me l’ha fatto notare Petra, ed è vero). Dietro l’ostentato vitalismo un po’ cazzone che Warhol coltivava alla Factory e smerciava nelle interviste e nelle serate mondane, c’è un dramma mica da ridere. Marilyn appena morta (in mostra ce n’è una perforata da un proiettile), Liz Taylor dopo la malattia, i car crash, i teschi…  Fino alle feroci pennellate degli anni settanta sulle serigrafie di Mao o al grande autoritratto rosso dell’ultimo periodo (di questa serie ha parlato qui robe da chiodi).

L’ultima sala, poi, è un colpo al cuore. Quell’immensa tela che rifà l’ultima cena di Leonardo è un trionfo. Torna fuori la mano del disegnatore: il tratto è ininterrotto, divertito e senza paura. È l’ultima cena di Cristo ed è l’ultima cena di Andy al banchetto dell’arte. Quei due Cristi fosforescenti, prima di uscire, emanano una luce notturna. La felicità delle due natività della prima sala, con Gesù bambino che gioca con i gatti, lascia spazio a un’inquietudine premonitrice. È l’in exitu vibrante per una mostra difficile da dimenticare.

Le immagini qui sotto sono tratte dal sito della Brant Foundation.

Andy Warhol, Brant Foundation

Andy Warhol, Brant Foundation
Andy Warhol, Brant Foundation

Andy Warhol, Brant Foundation

 

CARA BEFANA, BUON NATALEDEAR BEFANA, MERRY CHRISTMAS

Cara Befana,
visto che l’anno scorso Babbo Natale non mi ha dato retta mi rivolgo a te. Gesù Bambino quest’anno, indipendentemente dal fatto che sia stato buono o cattivo, mi porterà una nuova città, un nuovo lavoro e una nuova casa. Che un neonato sia già così capace di leggere nel cuore di un adulto, ammetterai, è una cosa dell’altro mondo. So dunque che chiedere di più sarebbe difficile. Ma siccome a me piacciono le sfide, ci provo. Cara Befana, hai tempo fino al sei gennaio per portarmi almeno uno dei doni che elenco qui sotto. Se non arriva nulla convinco Mario Monti ad aumentare anche il bollo per le scope volanti.
Buon Natale,

tuo Luca

 

1) Georg Immendorf, Untitled, 2006, 250x300cm

 

2) Andy Warhol, Modern Madonna, 1981*

 

* Il riflesso non fa parte dell’opera

 

3) Ryan McGinley, Knotty Pine, 2011

Dear Befana,
considered that last year Santa did not give me straight, I turn to you. Baby Jesus this year, regardless of whether I was good or bad, He will bring me a new city, a new job and a new home. It is something out of this world that a baby is already able to read in the heart of an adult, isn’t it? So it would be difficult to ask for more. But because I like challenges, I try. Dear Befana, you have unti lJanuary 6 to take me at least one of the gifts that I list below. If you do not get anything, I will convince Mario Monti to increase the stamp duty on flying broomsticks.
Merry Christmas,
Luca

1) Georg Immendorf, Untitled, 2006, 250x300cm

 

2) Andy Warhol, Modern Madonna, 1981*

 

* The reflection is not part of the work

 

3) Ryan McGinley, Knotty Pine, 2011

FATE PRESTO. ANDY WARHOL E IL SOLE24OREFATE PRESTO. ANDY WARHOL AND ILSOLE24ORE

La prima del Sole24ore del 10 novembre 2011

Warhol e la serigrafia della prima del Mattino del 26 novembre 1980

Christian Caliandro su Artribune ricorda che il titolo a caratteri cubitali utilizzato oggi dal quotidiano di Confindustria è la citazione di quello fatto dal Mattino il 26 novembre del 1980 in occasione del terremoto in Irpinia (Roberto Napoletano, direttore del Sole viene proprio dal Mattino). Quella prima pagina fu presa da Andy Warhol per farne una serie di serigrafie giganti. Proprio la circostanza che originò il titolo dell’80 e il fatto che Warhol la assunse come icona mi fa pensare che il titolo del Sole sia fuori misura. Non foss’altro se si pensa ai circa 280.000 sfollati, 8.848 feriti e 2.914 morti di allora.

The first of Sole24ore, 10 november 2011

Andy Warhol and the silkscreens "Fate presto"

Christian Caliandro (Artribune) remembers that the headline used today by “Il Sole 24 Ore” is the same used by  “Il Mattino” in the morning of 26 November 1980 on the occasion of the earthquake in Irpinia. That first page was taken by Andy Warhol to make a series of giants silkscreens. I think the title is out of place today. Think of some 280,000 displaced, 8,848 wounded and 2,914 dead of that time.

ARTISTI CINESI TOP SELLER, ECCO CHI SONO

Alla conferenza stampa di presentazione della mostra di Gerhard Richter alla Tate Modern, il grande pittore tedesco rispondendo a una domanda ha detto che il mercato dell’arte è “assurdo quanto la crisi bancaria” ed è “impossibile da capire ed è sciocco”. Qualcuno gli fa notare che è facile dire così da parte di uno che nel 2010 è stato il primo degli artisti viventi a comparire nella classifica dei 500 artisti che hanno venduto di più nelle aste di quell’anno (è al 16° posto con 192 opere vendute per 62milioni di dollari – nb: non sono soldi che sono andati in tasca a lui, ma ai venditori e alle case d’asta).

Detto questo è abbastanza impressionante dare un’occhiata ai nomi in cima alla classifica stilata da artprice.net. Non ci sarebbe nulla di stupefacente, ma io mi stupisco lo stesso: tra i primi dieci artisti della classifica 4 sono cinesi (gli altri sono in ordine: Picasso, Andy Warhol, Giacometti, Matisse, Modigliani, Lichtenstein). Io, nella mia immensa ignoranza, non ne ho mai sentito parlare. Non so voi. Io comunque me li segno. Un giorno, magari, ci metterò la testa per conoscerli e capirli.

Qi Baishi (齊白石, 齐白石, 1864-1957)

Secondo classificato dopo Pablo Picasso e prima di Andy Warhol, nel 2010 sono state battute 914 sue opere per un valore di 339 milioni di dollari.

Qi Baishi (齊白石, 齐白石, 1864-1957) Qi Baishi (齊白石, 齐白石, 1864-1957) Qi Baishi (齊白石, 齐白石, 1864-1957)

Zhang Daqian (張大千, 张大千, 1899-1983)

Quarto classificato tra Andy Warhol e Alberto Giacometti. 795 opere vendute per un valore di 304 milioni di dollari.

Zhang Daqian (張大千, 张大千, 1899-1983)

Zhang Daqian (張大千, 张大千, 1899-1983)

Zhang Daqian (張大千, 张大千, 1899-1983)

Xu Beihong (徐悲鴻, 徐悲鸿, 1895 – 1953)

Sesto classificato dietro Alberto Giacometti e prima di Henri Matisse. 248 opere vendute per un valore di 176 milioni di dollari.

Xu Beihong (徐悲鴻, 徐悲鸿, 1895 - 1953) Xu Beihong (徐悲鴻, 徐悲鸿, 1895 - 1953)

Fu Baoshi (傅抱石, 1904-1965)

Nono classificato tra Amedeo Modigliani e  Roy Lichtenstein. 203 opere vendute per un valore di 125 milioni di dollari.

Fu Baoshi (傅抱石, 1904-1965) Fu Baoshi (傅抱石, 1904-1965)

Fu Baoshi (傅抱石, 1904-1965)

MI CHIAMO CHARLES SAATCHI E SONO UN ARTOLICO

charles saatchi
Cose divertenti trovate nel libro intervista di Charles Saatchi:

Domanda: Si è mai approfittato di qualcuno nel mondo dell’arte?
Charles Saatchi: Chieda al Dalai Lama, a Madre Teresa o al Mahatma Gandhi se si sono mai approfittati di qualcuno, mentirebbero se affermassero il contrario. Mi metta pure lassù con loro, grazie.

D: Qual è il risultato di cui va più orgoglioso?
CS: Non ne faccio una questione di orgoglio. Non che non abbia un ego delle dimensioni di un hangar, ma non sono orgoglioso neppure di quello.

D: Cosa compra oltre all’arte?
CS: Soffro di una terribile dipendenza da frappuccino, perciò quello che non spendo in arte finisce da Starbucks.

D: È famoso per aver creato lo slogan “Labour isn’t working”. Era un Tory? Lo è?
CS: Una volta mi sono anche gettato a capofitto nella campagna antifumo del Dipartimento della Salute, ho visitato corsie d’ospedale con malati di enfisema , ho studiato le foto di tumori al polmone e ho elaborato il testo più raccapricciante che potessi , tutto ciò fumando allegramente una sigaretta dopo l’altra. Davvero commovente pensare che i testi pubblicitari nascano dal cuore.

D: Ha della roba cinese in casa?
CS: Roba? È arte, ragazzi miei.

D: La fotografia ha tolto senso all’arte figurativa?
CS: L’arte non è mai senza senso. L’altro giorno, facendo due chiacchere, Immanuel Kant mi ha detto che il significato dell’arte è di non avere alcuna funzione.

D: La pittura è morta?
CS: Che noia!

D: È vero che ha seguito una dieta di nove uova al giorno? Ha funzionato?
CS: Vero. Ero grasso e brutto e ora sono magro e brutto.

D: Guardiamo al futuro: tra cento anni come crede verrà considerata l’arte britannica degli inizi del XXI secolo? Quali sono i grandi artisti che passeranno l’esame del tempo?
CS: I libri di storia dell’arte del 2105 saranno tanto spietati con la fine del XX secolo quanto con tutti gli altri secoli. Tranne Jackson Pollock, Andy Warhol, Dunald Judd e Damien Hirst, chiunque altro sarà una nota a piè pagina.

DUE O TRE COSE SU MAPPLETHORPE A LUGANO

1) La mostra su Robert Mapplethorpe, in questi giorni al Museo d’arte di Lugano, è una mostra interessante e allestita con eleganza. È la stessa mostra esposta qualche mese fa alla Galleria dell’Accademia a Firenze e rispetto a quella ha il vantaggio che non ci sono le opere originali di Michelangelo (i prigioni e il David). Qui a Lugano, infatti, il confronto probabilmente è meno schiacciante e fuori luogo. Invece il momento più alto, senza dubbio, è la stanza con le opere di Andy Warhol.

2) La mostra presenta il Mapplethorpe più “patinato”: ne emerge un’immagine addomesticata che non dà conto della forza sovversiva del fotografo newyorkese.

3) Come non mi convince il confronto con Michelangelo così mi appare forte il legame con Man Ray. Lo si può vedere fino a sabato a Milano alla Fondazione Marconi.