Sono stato nello studio di Angelo Barone in via Bianconi a Milano. Lui è un signore distinto, colto, riflessivo. Mi racconta che si è letto tutte le 880 pagine della biografia di Willem de Kooning pubblicata qualche anno fa da Johan&Levi. Dice che l’ha colpito che negli ultimi anni il grande pittore, ormai malato di alzheimer, avesse perso il rapporto con la realtà ma non l’attaccamento alla pittura. Ogni mattina si alzava e dipingeva. “Aveva tradito tutte le persone che amava – dice Barone – ma non ha mai tradito lei, la pittura”.
La cosa che colpisce di Angelo Barone è la serietà intellettuale con cui si accosta al suo lavoro. Forse è proprio una fedeltà a una vocazione. La fedeltà al suo essere artista, che gli permette – da scultore – di flirtare con l’architettura e tradire la scultura realizzando bellissimi quadri e fotografie. Mi è piaciuta la libertà con cui sperimenta generi diversi per approfondire quelle che sono le sue profonde preoccupazioni. Che sono preoccupazioni che hanno a che fare con la conoscenza del mondo che ci circonda. E del modo in cui esso, in modo misterioso, prende forma e si presenta a noi.
Uno degli ultimi temi, ad esempio, è quello delle architetture naturali. Sistemi che si “autogenerano” in spazi architettonici come quelli, ad esempio, che si formano da assembramenti di lumache sui rami delle piante. O i sistemi complessi delle baracche di una favela brasiliana. Le opere sono realizzate stampando su tela delle fotografie, a volte realizzate dall’artista a volte no, e coprendole con un tessuto polverizzato monocolore. L’immagine ci appare dunque offuscata dietro questa sorta di sottilissimo tappeto. Sono immagini molto eleganti. Poetiche. Di una bellezza non decorativa.
Questa membrana di tessuto-colore va a formare una cataratta che si frappone tra noi e l’oggetto impedendoci di avere una visione limpida. Questo è un tema ricorrente nell’opera di Barone. La difficoltà a mettere a fuoco gli oggetti. Le cose. Un’impossibilità ad afferrarli e a conoscerli. La nostalgia per l’immagine definita. Una chiarezza, che forse non abbiamo mai posseduto, ma sentiamo comunque come andata perduta.
L’ultimo lavoro, recentemente esposto nella galleria C&H art space di Amsterdam e al MIA, si intitola “Casematte”. Secondo Barone le “casematte” o “bunker” sono l’archetipo dell’architettura, nel senso che sono “l’applicazione sintetica delle regole architettoniche più alte”. L’artista ha ripercorso l’itinerario che Paul Virilio, filosofo, scrittore e urbanista francese, fece negli anni cinquanta lungo le coste dell’Europa del Nord per visitare queste bizzarre opere di architettura militare. Qui il viaggio, però, è fatto virtualmente attraverso le immagini reperibili su internet e che, Barone, ha rifotografato con la sua Leica M8 (digitale) così come appaiono sullo schermo di un computer, senza cioè bisogno di nessun tipo di elaborazione. Il risultato è straniante. Il fascino delle architetture viene esaltato da questo senso di indefinitezza. E il molteplice passaggio da media diversi (la fotografia, il computer e ancora la fotografia) crea degli effetti di colore di grande raffinatezza. Per capire lo scarto di queste immagini ve ne propongo una accanto all’originale trovata su internet.
Grazie a Giovanni Frangi per le foto.