Capitò che quando i coniugi Becher andarono in pensione e lasciarono vacante la gloriosa cattedra di fotografia all’Accademia di Dusseldorf, venne chiamato a sostituirli Jeff Wall. L’avventura del fotografo canadese durò poco. Ci fu uno studente che alla prima occasione gli puntò contro una pistola carica. Non premette il grilletto, ma il gesto fu sufficiente per far capire a Jeff Wall che doveva cambiare aria. E si dimise.
Forse il gesto fu un po’ eccessivo, ma rese bene l’idea della distanza tra i mondi della Scuola di Dusseldorf e quello di Jeff Wall. Si tratta in entrambi i casi di fotografia al servizio dell’arte concettuale, o arte concettuale che si fa fotografia. Quel che fa la differenza, secondo me, è la dimensione della narrazione. Completamente assente nel magistero dei Becher e costitutiva nello stile di Wall.
Detto questo, sono andato con molta curiosità a vedere Actuality, la mostra di Jeff Wall al Pac di Milano e curata da Francesco Bonami. La cosa che si capisce dopo quaranta secondi passati in mostra è che nessun catalogo può restituire anche solo minimamente l’impatto delle immagini costruite da Wall. È un po’ come, si parva licet, pretendere di capire La zattera della Medusa senza trovarsi di fronte ai suoi sette metri di larghezza. Questo capita anche alle immagini non retroilluminate, come Young man wet with rain (2011) o Band & crowd (2011).
La perizia tecnica di Wall è davvero notevole. L’idea dei lightbox (praticata almeno dal 1975) è affascinante. La ricerca della composizione colta, fatta di geometrie e citazioni dalla storia dell’arte, è intrigante. Eppure, almeno nella mostra del Pac, Wall non è riuscito a mandarmi al tappeto. Ho l’impressione che le sue immagini siano in grado di rimetterti in moto la testa, ma non il cuore.