Arian Gheie fa il botto a Sotheby’s

Adrian Ghenie

Praticamente è successo che l’altro giorno a Sotheby’s a Londra un quadro del pittore rumeno Adrian Ghenie, classe 1977, è stato battuto per un sacco di soldi: 3,1 milioni di sterline. Parecchio in assoluto e parecchio se si tiene conto che la stima di partenza era di 400-600mila sterline. Non male per l’asta che The Art Newspaper definisce come quella che ha segnato la fine del boom delle aste d’arte contemporanea.

Sul povero Ghenie si è scagliato sua maestà Jerry Saltz che su Facebook ha scritto cose poco lusinghiere su di lui

Not one original idea about color, surface, gesture, subject matter, scale, viscosity, nuttin’ honey. Thickish paint to seem like serious painting. Unfinished bits to let us know it’s modern and self-aware. – Every painting is pretty huge. But it could be great too. Looks a lot like art.
I have been on about how shit this artist is since the beginning; just another artist who makes art that looks like other art that art collectors buy because it looks like what other art collectors buy!)
Which is cool too I guess.

Mi sembra perlomeno ingeneroso. Almeno da quanto abbiamo visto con i nostri occhi al Padiglione Rumeno dell’ultima Biennale di Venezia. Se una cosa si può dire su Ghenie è che sa dipingere davvero bene. Ha una “padronanza del mezzo” davvero notevole. Poi, è vero, si ha l’impressione di vedere lì Bacon, qui Richter, là Polke… È una pittura all’insegna del sincretismo. Ma chi oggi è in grado di sintetizzare la lezione tutti questi grandi messi insieme in modo così credibile?

Lasciamo perdere il prezzo d’asta, chissene frega. Si vede lontano un miglio che il successo di Ghenie è creato a tavolino. Però mi pare resti una sorpresa per la pittura degli ultimi anni. Non l’artista più originale degli ultimi tempi, ma una voce profonda e intonata, dal timbro corposo e virile. Che vale la pena ascoltare.

Stiamo a vedere da che parte andrà in futuro.

Qui qualche immagine scattata a Venezia:

Adrian Ghenie
Adrian Ghenie

Adrian Ghenie
Adrian Ghenie

Adrian Ghenie
Adrian Ghenie

Qui un video sulla mostra alla Pace del 2014:

 

NEL VENTRE DELLA BIENNALE

Ecco il mio reportage dalla Biennale di Venezia 2013, pubblicato su Tracce di luglio/agosto:

Giovanni Testori la chiamava “biennalica balena”. Un cetaceo spiaggiato sulle rive della Laguna. Un enorme animale agonizzante, immagine di un evento che, già nel 1978, non aveva più niente da dire. Sono passati 35 anni e l’ombra di quelle parole si allunga ancora sul Canal Grande, su su, lungo la Riva degli Schiavoni fino ad arrivare ai Giardini di Castello, che con l’Arsenale sono sede della 55a Biennale di Venezia. Eppure una visita a quella che rimane la più importante manifestazione di arte contemporanea del mondo si può fare solo lasciando da parte – almeno per qualche ora – le giuste perplessità testoriane e non solo testoriane. Varrebbe la pena venirci anche solo per la vera novità del 2013: la presenza del padiglione della Santa Sede, fortissimamente voluto dal cardinale Gianfranco Ravasi e che tanto sta facendo discutere. Il Giornale dell’Arte ha titolato il numero di giugno «Il Papa alla Biennale». Papa Francesco a Venezia non ci verrà di persona, ma chi l’ha detto che proprio la Biennale non sia una di quelle «periferie esistenziali» con le quali ci invita a comprometterci?

Da Jung a Pasolini. Quest’anno la mostra principale è stata affidata a Massimiliano Gioni, giovane curatore di Busto Arsizio, ma newyorkese d’adozione. Il titolo, Palazzo Enciclopedico, è ispirato da un eccentrico emigrato abruzzese in Pennsylvania, Marino Auriti, che negli anni Cinquanta immaginò di costruire un immenso grattacielo dentro il quale raccogliere tutto il sapere umano. Gioni è un grande regista dello sguardo, capace di creare un percorso in grado di spiazzare anche gli addetti ai lavori. Su 150 artisti, circa la metà sono sconosciuti. Molti non sono nemmeno artisti di professione, ma persone che si sono ritrovate a creare immagini per i motivi più vari.
La via maestra seguita dal curatore è quella della curiosità, la voglia di capire quali siano i confini del linguaggio dell’arte. L’approccio di Gioni può apparire anti-ideologico, verrebbe da dire “formalista”. Eppure ai Giardini la mostra si apre esibendo i tre “santi protettori” del Palazzo enciclopedico: Carl Gustav Jung, primo allievo di Sigmund Freud (con il Libro rosso, codice “miniato” con l’interpretazione dei propri sogni), André Breton, teorico del surrealismo (con la maschera che ne fa René Iché), e Rudolf Steiner, pedagogo, occultista e teorico della teosofia (con le lavagne da lui realizzate durante le tante conferenze). Capito da quale punto di vista stiamo per guardare il mondo, ci si allaccia le cinture e si percorre a capofitto il caleidoscopico viaggio dentro il ventre della “biennalica balena”.
Il racconto di questo percorso andrebbe fatto per immagini. Ma avendo a disposizione soltanto le parole, facciamo il nome di qualche artista. Quello di Viviane Sassen, ad esempio, fotografa olandese che ritrae persone da Ghana, Tanzania, Zambia e altri Paesi africani: per pudore spesso lascia in ombra il volto dei soggetti. O di Maria Lassnig, la novantaquattrenne pittrice austriaca ancora in grado di far vibrare il volto e il corpo umano sulla tela di un quadro. Shinro Ohtake, con il labirinto onirico dei suoi Scrapbooks. Roberto Cuoghi, che realizza una monumentale scultura astratta, Belinda, che sembra un pesantissimo macigno in bilico. In realtà è una struttura in polistirolo coperto di polvere dolomitica e cenere ottenuta dal forno di una pizzeria. La francese Camille Henrot che, in un filmato di qualche minuto, prova a ricostruire la vita della terra dal suo inizio. Richard Serra rende omaggio a Pasolini con due parallelepipedi di bronzo scuro, attorno ai quali fanno da cornice i mari tempestosi dipinti da Thierry De Cordier.

I raggi del sole. Ma a doversi soffermare su un’opera, val la pena parlare di Blindly, il video del polacco Artur Zmijewski. Il filmato mostra alcuni adulti ciechi a cui l’artista ha chiesto di dipingere un paesaggio e il proprio ritratto. Sullo schermo appaiono uomini alle prese con una sfida vertiginosa. La loro umanità emerge con forza. Il mistero della visione appare in tutta la sua insondabile profondità. A un certo punto uno dei “pittori ciechi” dice: «Devo dipingere il sole? Qui scelgo il pennello, le dita non vanno bene. Dicono che i raggi del sole sono fili sottili, le tracce delle dita sarebbero troppo spesse». Verso la fine del video si vede una mano impiastrata di colori. Una delle immagini indimenticabili di questa Biennale.
Oltre la mostra di Gioni, alla Biennale sono presenti 88 padiglioni nazionali. Il più bello? Forse quello dell’Irlanda. Il fotografo Richard Mosse ha portato un filmato realizzato nel Nord Kivu, nella Repubblica Democratica del Congo. Qui, dal 1988 sono morte quattro milioni di persone in una guerra dimenticata. Nel suo tentativo di reinventare la fotografia di guerra, Mosse aveva iniziato nel 2009 a scattare immagini con la pellicola a infrarossi. Sul rullino si imprime lo spettro di luce non visibile all’occhio umano. Le foto mostrano, cioè, quel che c’è ma non si vede: una metafora non solo della guerra dimenticata, ma anche un tentativo di mostrare ciò che ci sfugge di quel che guardiamo. Le immagini, poi diventate anche un filmato, sono di una bellezza tragica: il verde della foresta rigogliosa diventa di un magenta-rosa profondissimo. Una scossa. Anche per i cuori più impenetrabili.
È solo dopo aver attraversato gli oltre 10mila metri quadrati dell’esposizione principale e messo il naso nei padiglioni nazionali più importanti, che si può prendere la misura della sfida lanciata dal cardinale Ravasi portando la Santa Sede a Venezia. Se per le singole nazioni si tratta di presentare gli artisti più significativi del momento, oggi la Chiesa torna a riflettere sul proprio rapporto con l’arte contemporanea. Una ferita, un divorzio, il teatro di profonde incomprensioni. La via scelta non è quella di proporre una mostra di arte sacra, ma di suggerire ad alcuni artisti di primo livello (cosa nient’affatto scontata) un tema di lavoro, quello dei primi undici capitoli della Genesi. Si trattava di riallacciare un rapporto non tanto con l’arte contemporanea in generale, ma con alcuni uomini, chiamati a coinvolgersi in prima persona con opere realizzate per l’occasione. La scelta è caduta sul collettivo milanese Studio Azzurro, il fotografo ceco Joseph Koudelka e l’artista australiano Lawrence Carroll. Come ouverture sono state scelte tre opere che il pittore Tano Festa realizzò in omaggio al Michelangelo della volta della Cappella Sistina. Quella di Studio Azzurro è l’opera che più si fissa nella memoria. Su tre schermi vengono proiettate immagini di persone che camminano in uno spazio indefinito. Se lo spettatore appoggia la mano su una figura, questa si ferma e si rivolge verso di lui “pronunciando” alcune parole. Nel primo e nel secondo schermo, vengono mimati con l’alfabeto dei muti nomi di piante o animali. Nel terzo – ed è il momento più toccante di tutto il padiglione – i protagonisti sono alcuni detenuti del carcere di Bollate. Quando vengono toccati si fermano e appoggiano entrambe le mani sullo schermo. Iniziano a dire il proprio nome, quello dei genitori e dei genitori dei genitori. Mentre parlano può capitare che le nostre mani tocchino le loro. È quasi come essere nel parlatorio di un carcere. Dio comandò con la parola e le cose furono create, sembra suggerire Studio Azzurro, ma in quel momento non c’era ancora nessuno in grado di ascoltare quelle parole. L’uomo, invece, è creato proprio per pronunciare il proprio nome, per dire «io».

«Voi siete maestri». Missione compiuta? Più che altro è un’avventura iniziata di nuovo. Si potevano scegliere altri artisti? Certamente. Ma il Cardinale ha intrapreso la sfida con il suo stile, ed è giusto che sia stato così. Quel che colpisce, rispetto al contesto della Biennale, è vedere come altrove l’immagine artistica cerca di svincolarsi dalla parola. Cerca cioè di dire ciò che le parole non arrivano a dire. Nel padiglione della Santa Sede, invece, all’immagine è chiesto, in qualche modo, di tornare alla parola. E non una parola a caso. Questo scarto è forse il grande problema. E non è detto che sia risolvibile in modalità convincenti. Ma se è così, è proprio necessario che questa riconciliazione avvenga? Non basterebbe rifarsi alle forme del passato, così riuscite e ammirate? Verrebbe da dire: no, non basta. Se è vero che Cristo o è contemporaneo a noi o non è, gli artisti di oggi devono giocarsi per quello che sono, da poveri uomini moderni, con la loro sensibilità e gli strumenti che hanno a disposizione. Guardare indietro sarebbe una scorciatoia. Usciti dal padiglione della Santa Sede, lasciandoci alle spalle la candida opera di Carroll, tornano in mente le parole di Paolo VI agli artisti: «Noi abbiamo bisogno di voi, voi siete maestri». Con questi pensieri, e molte immagini nella testa, si prende la direzione di San Zaccaria per salire sul vaporetto del ritorno. Un po’ come Giona sputato fuori dal ventre della balena. Che torna a riveder le stelle.

C’È MA NON SI VEDE. E RICHARD MOSSE LO FOTOGRAFA

Richard Mosse, The Enclave, Ireland Pavillion, Venice Biennale

Richard Mosse, The Enclave, Ireland Pavillion, Venice Biennale

Richard Mosse, The Enclave, Ireland Pavillion, Venice Biennale

Richard Mosse, The Enclave, Ireland Pavillion, Venice Biennale

Richard Mosse, The Enclave, Ireland Pavillion, Venice Biennale

Richard Mosse, The Enclave, Ireland Pavillion, Venice Biennale
Sarà difficile cancellare dalla memoria le immagini viste al padiglione dell’Irlanda. Il fotografo Richard Mosse ha portato un filmato realizzato nel Nord Kivu, nella Repubblica democratica del Congo. Qui, dal 1988 sono morte quattro milioni di persone in una guerra dimenticata. Nel suo tentativo di reinventare la fotografia di guerra, Mosse aveva iniziato nel 2009 a scattare immagini con la pellicola a infrarossi. Sul rullino si imprime lo spettro di luce non visibile all’occhio umano. Le foto mostrano, cioè, quel che c’è ma non si vede: una metafora non solo della guerra dimenticata, ma anche un tentativo di mostrare ciò che ci sfugge di quel che guardiamo. Le immagini, poi diventate anche un filmato, sono di una bellezza tragica: il verde della foresta rigogliosa diventa di un magenta-rosa profondissimo.

In questa intervista Mosse spiega bene quel che voleva fare.

CAMILLE HENROT SPIEGA (MOLTO BENE) LA BIENNALE DI GIONI

Camille Henrot, Grosse Fatigue, biennale venice venezia

Camille Henrot, Grosse Fatigue, biennale venice venezia

Camille Henrot, Grosse Fatigue, biennale venice venezia

In the begining there was nothing but shadow
Only darkness, and water and the great god Bumba
In the begining there were quantum fluxuations
In the begining the univers was a black egg
Wherever in earth was mixed together
In the begining there was an explosion
(Camille Henrot, da Grosse Fatigue, 2013)

Camille Henrot ha vinto il Leone d’argento come miglior giovane artista. Molto bello il suo video (un video anche lei, sì, i pittori per entrare nel padiglione di Gioni dovevano essere matti, morti o quasi morti – esagero?). Nel post precedente ho detto che la sua opera non è all’altezza di quella di Artur Żmijewski, ma questo non vuol dire che Grosse Fatigue non sia tra le cose più interessanti viste in Laguna quest’anno. Dal desktop del suo computer la Henrot comincia un viaggio di immagini e cortocircuiti coinvolgente. Il tema di partenza è l’inizio del mondo, la genesi di tutto, poi si approda ai tentativi di catalogazione di quel che la genesi ha prodotto.

È un’opera-simbolo di questa Biennale. Non a caso nel video qui sotto a un certo punto è lei a dare una delle definizioni più azzeccate del senso del Palazzo enciclopedico messo in piedi da Massimiliano Gioni:

«Penso che questa Biennale rispecchi perfettamente questo aspetto: la dimensione della follia, della saturazione e dell’eccesso, dove il problema non è più l’estetica, ma contenere tutto»

IL LEONE D’ORO SECONDO NONAME VA A ARTUR ŻMIJEWSKI

Il Leone d’Oro per il miglior artista della Biennale è andato a Tino Sehgal. Lui non vuole assolutamente che si riproducano in alcun modo le sue performance, ma io me ne sono fregato e ve ne offro dei frammenti.

Tino Sehgal, Biennale di Venezia, Venice Biennale
Tino Sehgal, Biennale di Venezia, Venice Biennale
Tino Sehgal, Biennale di Venezia, Venice Biennale

Tino Sehgal, Biennale di Venezia, Venice Biennale

Per quanto mi riguarda il premio l’avrei dato a Artur Żmijewski. Il suo video Blindly mi è parsa l’opera più bella di tutta la Biennale di Massimiliano Gioni. Meno divertente del video di Camille Henrot – giovane Leone d’argento – è vero, meno spettacolare, è vero, meno… Sì, ma molto più un sacco di altre cose. In pochi minuti Żmijewski riesce a portarci dove pochissimi artisti scelti da Gioni riescono a portarci. Il video mostra alcuni adulti ciechi a cui l’artista ha chiesto di dipingere il proprio ritratto e un paesaggio. Vengono mostrate le varie fasi del lavoro dei protagonisti e possiamo sentire la voce. L’artista stesso decide di comparire nel video, in un gesto di grande coinvolgimento umano. Sullo schermo appaiono uomini alle prese con una sfida vertiginosa. La loro umanità emerge con forza. Il mistero della visione appare in tutta la sua insondabile profondità. A un certo punto un uomo dice: «Devo dipingere il sole? Qui scelgo il pennello, le dita non vanno bene. Dicono che i raggi del sole sono fili sottili, le tracce delle dita sarebbero troppo spesse». La bellezza del video è anche formale. Quella mano impiastrata di colori che si vede verso la fine è una delle immagini indimenticabili di questa Biennale.

Artur Żmijewski, Blindly, Biennale Venezia Venice

Artur Żmijewski, Blindly, Biennale Venezia Venice

Artur Żmijewski, Blindly, Biennale Venezia Venice

Artur Żmijewski, Blindly, Biennale Venezia Venice

Artur Żmijewski, Blindly, Biennale Venezia Venice

Artur Żmijewski, Blindly, Biennale Venezia Venice

Artur Żmijewski, Blindly, Biennale Venezia Venice

Artur Żmijewski, Blindly, Biennale Venezia Venice

Artur Żmijewski, Blindly, Biennale Venezia Venice

Artur Żmijewski, Blindly, Biennale Venezia Venice

Artur Żmijewski, Blindly, Biennale Venezia Venice

Artur Żmijewski, Blindly, Biennale Venezia Venice
Artur Żmijewski, Blindly, Biennale Venezia Venice
Artur Żmijewski, Blindly, Biennale Venezia Venice

IL MIO INCUBO VENEZIANO AL PALAZZO DI GIONI (AI GIARDINI)

Un paio di giorni a Venezia per dare un’occhiata alla Biennale. Stanotte dormirò male. Farò certamente un incubo. NO NOME è in grado in anticiparlo e presentarvelo per immagini. Un po’ come faceva Gustav Jung nel suo Libro rosso.

Viviane Sassen (1972), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Viviane Sassen (1972)
José Antonio Suaéz Londoño (1955), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
José Antonio Suaéz Londoño (1955)
Eva Kotátková (1982), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Eva Kotátková (1982)
Shinro Ohtake (1955), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Shinro Ohtake (1955)
Viviane Sassen (1972), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Viviane Sassen (1972)
Shinro Ohtake (1955), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Shinro Ohtake (1955)
Viviane Sassen (1972), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Viviane Sassen (1972)
Maria Lassnig (1919), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Maria Lassnig (1919)
Jean-Frédéric Schnyder (1945), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Jean-Frédéric Schnyder (1945)
Jean-Frédéric Schnyder (1945), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Jean-Frédéric Schnyder (1945)
Dominico Gnoli (1933-1970), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Dominico Gnoli (1933-1970)
Evgenij Kozlov (1955), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Evgenij Kozlov (1955)
Nokolay Bakharev (1946), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Nokolay Bakharev (1946)
Eva Kotátková (1982), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Eva Kotátková (1982)
Rudolf Steiner (1861-1925), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Rudolf Steiner (1861-1925)
Jean-Frédéric Schnyder (1945), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Jean-Frédéric Schnyder (1945)

Thierry De Cordier (1954), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Thierry De Cordier (1954)

I COLORI DELLA POVERTÀ. LAWRENCE CARROLL SECONDO PANZA

Lawrence Carroll, mostra al Museo Correr, Venezia, 2008
Lawrence Carroll, mostra al Museo Correr, Venezia, 2008

 

Uno degli artisti che probabilmente (chissà, vediamo, sapremo il 14 maggio) sarà presente al Padiglione della Santa Sede alla Biennale di Venezia 2013 è Lawrence Carroll (Melbourne, 1954). Fu una delle passioni del conte Giuseppe Panza e alcune sue opere si possono vedere nella villa di Varese. Di lui Panza parla in Ricordi di un collezionista. Le parole del conte sulle intenzioni e i risultati di questo artista sono davvero uno dei punti più belli di tutto il libro. Eccone qualche stralcio.

 

«Il suo obiettivo è il condividere la vita dell’uomo e dell’umanità, e le sue sofferenze. L’individuo perso tra la folla della metropoli. La tristezza e la solitudine. Il bisogno di amore. L’esistenza delle persone rifiutate dalla società, che non hanno la forza per competere con gli altri per sopravvivere. (…)

Molti non hanno colpa del loro destino, della loro miseria. Anche per chi ha colpe, di chi sono le vere colpe? Non vi è giustizia che può sanare queste sofferenze, sono nascoste dentro l’imprevedibile destino di ognuno. Dove è una possibilità di salvezza? Lawrence Carroll non è un fotografo, non descrive la realtà che i nostri occhi vedono. La rappresenta in un modo che è più sostanziale, arriva all’essenza della realtà, dove nascono il bene e il male. Il piacere e il soffrire. Esplora il mondo invisibile della coscienza, l’attimo insostituibile e irripetibile dell’esistere. La metafora di quello che vediamo, prima che il reale diventi reale.

I colori, bianchi, grigi, gialli, più o meno scuri ma prevalentemente chiari, sono macchie, superfici dipinti su tela attaccata a un supporto di legno, di una cassa trovata per strada adattata a diventare un quadro con tre dimensioni. I colori e le forme della povertà.

È un’arte che si deve guardare con attenzione per scoprire una raffinata bellezza, nascosta tra colori smunti, senza rilievo, pallidi e tristi. Quando la si scopre, si prova una profonda emozione; la bellezza nascosta, non evidente, senza aggressività, è la bellezza che ha radici, che rientra nel nostro essere. Ci comunica una realtà sotterranea che è la condizione primordiale del nostro esistere. Ci mette in relazione con gli altri, con l’umanità, con tutti quelli che non vediamo, ma che vivono.  (…)

Carroll ha un forte interesse per un famoso pittore italiano, Giorgio Morandi, poco apprezzato in America, un artista che ha speso tutta la sua vita, dagli anni ’20 fino agli anni ’50, dipingendo una sola cosa: bottiglie. Un soggetto quanto mai modesto, insignificante. Ciononostante è stato un grande pittore. Condivido l’interesse di Carroll. Non vi sono eroi, o tristezze opprimenti, solo immagini domestiche della vita quotidiana. Credo che per questo mi coinvolga così tanto. Non interessano i grandi drammi, ma la vita della moltitudine che scompare senza lasciare traccia, ma vive. (…)

Le opere di Carroll esprimono intensamente ed efficacemente la realtà del dolore perché la sublimano con una rappresentazione metaforica di una realtà che diversamente sarebbe aggressiva e lacerante, troppo violenta per essere rappresentata. Oggi questo compito spetta ai fotografi della cronaca giornalistica o della televisione, che è generosa nell’informare su tante cose che sarebbe meglio non vedere. I soggetti di Carroll non sono gli episodi violenti: è la vita triste di chi non riesce a vivere come gli altri per tante ragioni, vizi, malattie mentali, disfunzioni del carattere, debolezza fisica. Spesso situazioni di povertà per l’improvvisa perdita del reddito e la difficoltà di rifarsi una vita. La miseria ha colori e forme apparentemente disordinate che l’artista utilizza e l’arte fonde in un’armonia nuova che stupisce per la sua bellezza. Stupisce chi è ancora capace di spogliarsi dei propri pregiudizi». 

(Giuseppe Panza, Memorie di un collezionista, Jaca Book, 2006)

Lawrence Carroll, mostra al Museo Correr, Venezia, 2008
Lawrence Carroll, mostra al Museo Correr, Venezia, 2008

RAVASI ALLA BIENNALE NON PORTA QUEL CHE AVREBBE VOLUTO

Lucio Fontana, Via Crusis (X stazione), 1947.
Lucio Fontana, Via Crusis (X stazione), 1947.

Niente Kounellis, niente Kapoor, niente Bill Viola. Non ci sarà neanche il tema della Genesi. Ci saranno, probabilmente, Josef Koudelka, Lawrence Carroll, Lucio Fontana (che sarebbe stato ripescato dopo il ritiro dell’artista colombiana Doris Salcedo) e un altro artista che resta ancora avvolto nel mistero. A riferirlo è il Corriere del Veneto che cita tra le sue fonti il blog il Francesco Colafemmina. Come andranno veramente le cose lo si saprà solo il 14 maggio, giorno della presentazione ufficiale del Padiglione della Santa Sede alla Biennale di Venezia 2013.

Le cose, evidentemente, non sono andate come avrebbe voluto il cardinale Gianfranco Ravasi che dal 2008 si dice convinto della necessità della presenza della Santa Sede alla maggiore manifestazione di arte contemporanea del mondo.

Josef Koudelka e Lawrence Carroll sono certamente grandi nomi, magari non quelli che ci si sarebbe aspettati viste le dichiarazioni rilasciate in passato da Ravasi. Altrettanto certo è che la proposta di un tema non è stato raccolta dal mondo degli artisti. Nulla si sa sulle ragioni che avrebbero portato Doris Salcedo a rinunciare alla sua partecipazione. Il Corriere dice che si era pensato di portare Shibboleth, l’opera che l’artista istallò nel 2007 nella Turbin Hall della Tate Modern di Londra. Ma davvero si pensava di riproporre quella stessa opera negli spazi ristretti dell’Arsenale? Io ne dubito fortemente. La possibilità che artisti di caratura mondiale accettino di coinvolgersi con una committenza così prestigiosa (ma così esigente) non è affatto scontata. Anzi.

E la Via Crucis di Lucio Fontana? A me pare una buona idea, anche se di ripiego. Sottolineare da una ribalta così importante, che quello che viene considerato il maggior artista italiano del secondo Novecento ha realizzato una serie di opere a tema esplicitamente religioso, è comunque un’operazione interessante. Sulla polemica circa l’eventuale acquisto dell’opera da parte della Santa Sede e i relativi costi, non so cosa dire: portare all’Arsenale quella Via Crucis non impone che l’opera venga comprata. Ma forse la sovrapposizione delle due operazioni non era prevista.

Tutto questo ammesso e non concesso che il Corriere sia bene informato.

UPDATE (4 maggio 2013)

Il Pontificio Consiglio della Cultura ha finalmente annunciato la conferenza stampa di presentazione del Padiglione della Santa Sede alla Biennale (14 maggio, ore 11,30, sala stampa vaticana). Qui trovate il comunicato in cui viene confermato il tema della Genesi. 

PADIGLIONE DI RAVASI ALLA BIENNALE? ANCORA NEI PENSIERI DI DIOTHE RAVASI PAVILLION AT THE BIENNALE? THREE SCENARIOS

Gianfranco Ravasi, padiglione vaticano biennale di veneziaIl cardinal Gianfranco Ravasi ha annunciato la sua intenzione di portare un Padiglione della Città del Vaticano alla Biennale di Venezia ormai qualche anno fa. Previsto per l’edizione del 2011, fu posticipato a data da destinarsi. Forse nel 2013. Quando gli chiesi informazioni nell’autunno del 2010 mi rispose che non c’erano i tempi tecnici per arrivare pronti al 2011. Ma da come parlava sembrava che l’idea ci fosse, ma fosse difficile da realizzare. La vera verità è che, a febbraio 2012, non sembra esserci neppure l’idea. Per ora sembra che il cardinale abbia riunito nel dicembre scorso un ipotetico comitato scientifico che potrebbe occuparsi del progetto. Ne farebbero parte Sandro Barbagallo, critico d’arte dell’Osservatore Romano, Micol Forti, direttore della Collezione d’arte contemporanea dei Musei vaticani, Francesco Buranelli, già direttore dei Musei vaticani e oggi segretario della Pontificia Commissione per i Beni culturali e padre Davide Dall’Asta, direttore della Raccolta Lercaro di Bologna. Il comitato, trapela da voci nei corridoi vaticani, in teoria dovrebbe occuparsi di realizzare le direttive suggerite da Ravasi. Ma sembra che in questo momento direttive non ce ne siano. Il gruppo di lavoro si sarebbe dovuto incontrare di nuovo a gennaio. Ma ai quattro le convocazioni non sono arrivate. Allo stato delle cose, dunque, oltre alle dichiarazioni via stampa di Ravasi non sembra esserci nulla di concreto. E il Padiglione vaticano alla Biennale resta un miraggio.

 

E fin qui la cronaca. Ecco invece tre possibili scenari che mi pare potrebbero realizzarsi:

 

1) Versione clerical del padiglione Sgarbi

È già stata collaudata l’estate scorsa in occasione della mostra per il sessantesimo anniversario dell’ordinazione sacerdotale di Benedetto XVI. Una lista di un centinaio di artisti che alternava grandi nomi, illustri sconosciuti e personaggi al di sotto di qualsiasi sospetto. Ogni artista dona un’opera di sua scelta. Nessuna preoccupazione di organicità.

VANTAGGI: Facile da realizzare. Poco costosa. Accontenta gran parte del sottobosco artistico romano legato a cardinali e monsignori di curia. Poche polemiche in ambito cattolico.

SVANTAGGI: Basso profilo mediatico. Critiche degli esperti del settore.

 

2) Versione art chic del portico dei gentili

È l’idea paventata nell diverse interviste dallo stesso Ravasi che ne sarebbe il vero curatore. Nomi di respiro mondiale come Bill Viola, Anish Kapoor, Yanis Kounellis. Un bel tema ampio e biblico (il libro della Genesi). Libertà assoluta per gli artisti. Poche opere, ma di impatto.

VANTAGGI: Copertura mediatica globale. Plauso degli esperti del settore, dei collezionisti che contano e un servizio di sei pagine su Vogue. Poter dire che la Chiesa è tornata ad essere un interlocutore per l’arte che davvero conta.

SVANTAGGI: Difficile da realizzare (convincere gli artisti a partecipare). Costoso. Assicurata l’ondata di critiche del mondo cattolico. Necessità di un giubbotto antiproiettile per poter girare nei palazzi vaticani.

 

3)  Versione cur(i)atoriale

 

Scegliere un curatore vero ma cattolico. Affidargli l’incarico di selezionare un gruppo ristretto di artisti di primo piano (da uno a cinque, non necessariamente di grido) in grado di mettersi in gioco in un progetto in cui il curatore possa dire davvero la sua. Quindi libertà dell’artista e libertà del curatore/committente. Come modello potrebbe essere presa l’esperienza dell’Evangeliario ambrosiano.

 

VANTAGGI: Possibilità di dire che la Chiesa è tornata a fare committenza a alti livelli. Discreto impatto mediatico.

SVANTAGGI: Difficoltà nel reperire un curatore vero ma cattolico senza innescare faide. Critiche sia da parte cattolica che da parte degli esperti di settore. Discreto impatto mediatico.Gianfranco Ravasi, padiglione vaticano biennale di venezia

Cardinal Gianfranco Ravasi announced its intention to bring the Vatican Pavilion at the Venice Biennale a few years ago. Scheduled for the edition of 2011, it was postponed until a later date. Maybe in 2013. When I asked him (it was the fall of 2010) he said that there were no technical time to get ready in 2011. But as he spoke, it seemed that there was the idea, but it was difficult to achieve. The real truth is that, in February 2012, there seems to be not even the idea. For now it seems that last December the cardinal had gathered a hypothetical scientific committee that could deal with the project. It would be part Sandro Barbagallo, art critic of the Osservatore Romano, Micol Forti, director of contemporary art collection of the Vatican Museums, Francesco Buranelli, former director of the Vatican Museums, and now secretary of the Pontifical Commission for Cultural Heritage and father David Dall’Asta, Director of Collection Lercaro of Bologna. The committee, leaked by voices in the corridors of the Vatican, in theory should take care to make the guidelines recommended by Ravasi. But it seems that at this moment there are no directives. The working group would have to meet again in January. But the four summonses have not arrived. As things stand, therefore, in addition to Ravasi’s statements in the press, there would be nothing concrete. And the Vatican Pavilion at the Biennale remains a mirage.

 

In the cardinal’s mind, we hope, are taking shape three possible scenarios to achieve what will be known as the Ravasi Pavilion:

 

1) Clerical version of the Sgarbi pavilion

It has already been tested last summer on the occasion of the exhibition for the birthday of Benedict XVI. A list of a hundred artists who alternated big names, illustrious unknown, people under any suspicion. Each artist donates a work of his choice. No worries of organicity.

PROS:

Easy to achieve. Inexpensive. Satisfied much of the roman art undergrowth related to cardinals of the Curia and monsignors. Some controversy in Catholic circles.

CONS: Basso profilo mediatico. Critiche degli esperti di arte.

 

2) Art-chic version of the arcade of the Gentiles

It’s the idea announced in several interviews by the same Ravasi who would be the true curator. Names of worldwide importance such as Bill Viola, Anish Kapoor, Yanis Kounellis. A nice wide biblical theme (the book of Genesis). Total freedom for artists. Few works, but impact.

PROS:

Global media coverage. Praise of art experts, big collectors and six pages of Vogue. To say that the Church is once again a partner for great art.

CONS: Difficult to achieve (to convince the artists to participate). Expensive. Ensuredthe wave of criticism of the Catholic world. Need for a bulletproof vest to run in the Vatican.

 

3) Cur(i)atorial version

 

Choose a true curator but Catholic. Entrust the task of selecting a small group of leading artists (one to five, not necessarily ultra-cool) can get involved in a project in which the curator can really have a say. So artistic freedom and freedom of the curator. As a model could be taken the Evengeliario ambrosiano.

 

PROS: Opportunity to say that the Church is back to do commission in high levels. Poor media coverage.

CONS: Difficulty in finding a true curator but Catholic without triggering feuds. Criticism both from Catholics by art experts. Poor media coverage.