Oggi con Giuseppe, Davide, Petra e Alessandro sono stato alla mostra “Miseria e splendore della carne. Testori e la grande pittura europea” curata da Claudio Spadoni per il Mar di Ravenna. Mi hanno detto che se voglio continuare a tenere questo blog devo parlar bene di questa mostra. Allora lo faccio (senza sforzo). La mostra è molto bella. Bello il primo piano (c’è un Fra Galgario il cui sguardo farebbe commuovere anche un toro), il secondo piano è il più debole (come fare a portare i grandi Géricault, Courbet, Giacometti?), il terzo è quello dei fuochi artificiali (soprattutto per la stanza di Morlotti, anche se la splendida sequenza degli adda alla mostra “Testori a Lecco” resta forse insuperabile). L’ultima stanza è un vero e proprio coup de théâtre.
Di seguito vi segnalo i tre quadri che mi sarei portato a casa. Non c’è il Caravaggio, lo so. Ma per quello non avrei i soldi per l’assicurazione. Non c’è Giacometti, lo so. Non c’è Bacon, lo so. E neanche Tanzio, neanche Cairo, Fra Galgario, Ceruti… Ho scelto questi. Punto. Se ripasso per Ravenna ne scelgo altri tre.
La verità è che in questi enormi, dissenati e rovesciati teloni, il coito e l’assassinio son sempre lì, a un passo; a un passo il tranello che non dà scampo […]. Anche perché, capitanate dalla beccatrice, vi favoleggiano le diavolesse (bondasche e no); e vi danzano, abbracciati in una baraonda mai vista, una baraonda da giudizio universale sganasciato e finente poi nella più fallimentare e totale liquidazione che si conosca, loro (noi): quelli che si credono vivi; cioè a dire, le pisce dell’esistere; i fantasmi del gran ballo che è la vita; e del suo inevitabile abbattersi e risorgere nella perpetuazione del dolore e del niente.
Giovanni Testori, L’ironia, la cenere, il niente, in Giovanni Testori. Villy Varlin, catalogo della mostra: Milano, Rotonda della Besana, marzo-aprile 1976, Electa, Milano 1976, p. 20
Dir natura, insomma; ma’ non dirlo, contro la giungla della città, di strade, fabbriche e cose dov’è pure un ingorgo da penetrare e scoprire; riproporre un senso della terra talmente profondo e massiccio, da sopportar che da esso si partissero i voli fra gli astri e le avventure dell’uomo e dei suoi ordigni dentro il cosmo; rioffrir, insomma, ai viventi il senso di una terra che, malgrado tutto, continua a sostenere e alimentare la loro esistenza. Ecco qual fu e qual è al presente, il significato dell’opera di Morlotti.
Giovanni Testori, Ennio Morlotti. Nato a Lecco il 20.IX.1910, risiede a Milano, in VII Quadriennale Nazionale d’Arte di Roma, catalogo della mostra: Roma, Palazzo delle Esposizioni, dicembre 1959 – aprile 1960, De Luca, Roma, pp.78-79
Al contrario di Bacon, Fetting, il corpo dell’uomo, non può che adorarlo. Ma la sua adorazione non nasce da alcun modello già esistente di bellezza. Nasce dal violento attacco che bellezza e luce non cessano un solo istante di compiere in lui. Bellezza e luce fustigano Fetting; lo flagellano; lo martirizzano. Ma proprio perché accetta questo furibondo assalto, Fetting può sopportare in sé fustigazioni, flagellazioni e martirii e lasciare che il corpo cercato, inseguito, raggiunto e amato, il corpo che egli, prima e dopo averlo dipinto, ha stretto a sé o da cui s’è fatto stringere come per ricomporre, finalmente, e sia pure per un breve istante, una sola carne e l’unità dell’essere.
Giovanni Testori, Una luce suicida, in “Flash Art”, XIX, 132, aprile-maggio, pp.26-29