LA ISTANBUL DI BASILICO – L’ESATTEZZA DELLO SGUARDO

Viceversa, il grande fotografo milanese rimane fedele al proprio sguardo esatto, in cui il senso del mistero non si scosta mai da un’adesione tutta illuminista alla realtà delle cose. Come il narratore di talento sa cavare il fascino delle sue storie dalla scrupolosa messa in fila degli eventi, senza nulla concedere alle facili evocazioni d’atmosfera, così Gabriele Basilico usa la propria formidabile esperienza e tecnica per tenere lontani i fantasmi del preconcetto (quale che sia, è sempre il lavoro duro e serio a snidarlo, a dissiparlo), lasciando che la complessità delle cose si trasformi in esattezza di sguardo.

Luca Doninelli, dal catalogo della mostra “Istanbul 05010″ alla Fondazione delle Stelline di Milano, dal 16 settembre al 12 dicembre 2010

MILANO E’ UNA COZZA, SIGNORE


“Milano è una cozza signore, brutta come una cozza, ma poi è anche buona come una cozza. Anzi, signore, Milano è un chilo di cozze che prima ne prendi una, poi un’altra, poi un’altra ancora e non ti fermi più… Poi ogni tanto, tra tutte le cozze che ci stanno in giro, magari te ne capita una più brutta delle altre, ma dentro tiene una perla, signore, e là Milano ti fa pazzo, ché la perla a Milano non te l’aspetti”.

dal racconto di Fabio Greco in “Milano è una cozza. Storie di trasformazioni”, a cura di L.Doninelli, ed. Guerini

LUCA DONINELLI SUL DISCORSO DEL PAPA AGLI ARTISTI

INTERVISTA A LUCA DONINELLI

Dal Giornale del Popolo del 28 novembre 2009

Doninelli, cosa ha pensato quando si è trovato davanti al Giudizio Universale di Michelangelo nella Cappella Sistina?
Davanti al Giudizio Universale e anche sotto la volta con le storie della Genesi… beh, lì siamo nel centro della storia dell’arte e al centro di questo rapporto misterioso che c’è tra santità e bellezza. Un rapporto che è stato completamente dimenticato nel nostro tempo, anche se la reazione degli altri artisti ha confermato la mia: in realtà tutti noi sappiamo che la bellezza ha qualcosa a che vedere con il sacerdozio.

In che senso con il sacerdozio?
In quel luogo c’è una totale unità del fatto che si è di fronte all’opera centrale della storia dell’arte e del fatto che è anche il luogo dove si eleggono i papi. A questo si aggiunge che il soggetto di quell’affresco è il giudizio. “Giudizio” non nel senso di “condanna”, ma nel senso di risposta a ciò che tutti attendiamo. Noi non sappiamo chi siamo e desideriamo che qualcuno ce lo dica. Stare di fronte al Giudizio universale suggerisce l’idea che Dio ha pensato e pensa il mondo come un atto di bellezza, come un atto di poesia e proprio per questo come un giudizio.

Perché un atto di bellezza è anche un giudizio?
Il giudizio o è una condanna o è l’affermazione di uno splendore. O l’universo esiste per finire in una discarica (ma noi sappiamo che non è vero anche se poi diciamo che è così perché la modernità ci ha insegnato che va bene dire così), oppure è l’affermazione di una positività (il che dà più ragione del fatto
che le cose nascono). E quindi è nella bellezza che emerge il giudizio su che cosa noi siamo realmente. Perché, tra l’altro, dire che noi siamo fatti per il nulla è un bel modo per deresponsabilizzarci.

Il Papa cita Georges Braque : «la scienza rassicura, l’arte è fatta per turbare »…
Sì, perché nell’arte prende corpo l’esperienza del bello, e in questa esperienza non ci è più chiesto di dare un posto alle cose, ma di riconoscere l’irrompere del significato delle cose. È come se la legge matematica più difficile noi potessimo vederla come una cosa concreta… Quindi in questo senso è una ferita, un irrompere. C’è qualcosa che arriva nella carne. L’arte rimane sempre profezia dell’Incarnazione, ma nello stesso tempo se l’artista non tiene aperta quella ferita diventa un trombone. Il rischio è di non restare al livello della ferita che la bellezza ci procura, adagiarsi su posizioni più comode. È una cosa che dissi molti anni fa in un convegno e perfino Alessandro Baricco rimase molto colpito da questa affermazione, quindi doveva essere qualcosa di davvero forte, se ne è stato colpito anche Baricco… Quella ferita è una domanda d’Incarnazione. Tra l’altro in questo si gioca la questione della contemporaneità…

In che senso?
Che cosa vuol dire fare un’opera attuale? Che cosa vuol dire essere contemporanei? Vuol dire seguire i trend come credono molti scrittori italiani che si rifanno ai modelli americani di una decina di anni fa? Ciò che è davvero contemporaneo è questa ferita. La sfida del Papa agli artisti non è: «fate dell’arte cristiana» o «fate dell’arte ideologicamente cattolica». La vera sfida è : «Agite obbedendo a quella ferita». Questo poi significa esporsi al fallimento, perché è praticamente impossibile essere all’altezza della ferita della bellezza. Chi può scrivere un romanzo bello come un tramonto? O bello come il cielo stellato. Nessuna sinfonia può essere al livello di un cielo stellato d’agosto…
Francis Bacon diceva che passava da fallimento a fallimento…
Anche Dante inizia la Divina Commedia smarrito e la prima azione concreta che fa è dire «miserere mei» a uno che non sa nemmeno se è «omo od ombra». Dante non sa che è Virgilio e non distingue neanche se sia un uomo o un’ombra… Immaginati come era messo Dante in quel momento: le ha provate tutte e ha fallito. Che è come dire che stare a livello della ferita della bellezza è impossibile. Stare al livello della ferita che Beatrice ha inflitto al cuore di Dante è impossibile. Tu non puoi scrivere un libro pari a quella ferita, ma proprio in questo l’artista si spalanca. I poeti antichi invocavano la musa perché la realizzazione di una forma adeguata è un dono.

Mi ha impressionato la citazione di Von Balthasar: chi considera la bellezza un ninnolo all’esotico non è più capace di pregare e presto non sarà più capace di amare. Davvero se uno non riconosce la bellezza in questo senso non è più capace di amare?
Io credo di sì, perché prima di tutto tu che cosa ami se non qualcosa di bello? Secondo: perché la bellezza è altro da te. Tu di fronte alla bellezza sei di fronte a qualcosa che è diverso da te. Quindi è il riconoscimento di un’altra misura. Allora io penso che quando uno non riconosce più la bellezza vuol dire che non è più disposto a riconoscere una misura diversa da sé. E allora che cosa ama? Alla fine è come quella gente che è capace di parlare solo di sé stessa.

Ma l’uomo non è ferito solo dalla bellezza. Pensando alle storie che lei racconta nei suoi libri, la relazione con la bellezza non è immediata. Mi riferisco soprattutto alle trame…
Noi possiamo sostituire la parola “bellezza” e usare la parola “giustizia”. È una situazione dolorosa che mi fa cominciare a scrivere un romanzo. Come diceva Tolstoj, si incomincia dalle cose che non vanno bene. Ma a livello di trama, come dici tu, il problema è che cosa rende giustizia fino in fondo? Se io devo parlare di un dolore, che cosa rende giustizia fino in fondo di questo dolore? Ciò che rende giustizia fino in fondo a questo dolore è una cosa non mia. Proprio in questo senso c’entra la bellezza. Nei miei libri ho sempre cercato di dire questa cosa. È l’essere percossi da qualcosa di altro. Altrimenti se stiamo alla nostra misura possiamo raccontare solo il fatto che tutto finisce nel nulla. Lo scrittore ha la necessità di rendere giustizia delle cose di cui parla. Se io parlo di un dolore, di un amore che finisce, di uno stupro, di un assassinio, la domanda è: come fare in modo che l’umanità sia conservata pienamente, come fare in modo che il cinismo non prevalga? Non sono cinico non perché io appartengo all’ideologia cristiana, perché si può essere enormemente cinici facendo i confessionali, facendo i cristiani. Ciò che rende giustizia di un orrore, di una cosa brutta è il mio spalancarmi a qualcosa d’altro che accade. Per cui la scrittura è sempre l’attesa di un avvenimento. Perché anche se hai in testa tutta la storia che vuoi raccontare, se mentre scrivi non preghi, non stai neanche scrivendo. Che poi pregare non è che vuol dire recitare il “Padre nostro” o “L’ave Maria”, può essere anche qualcos’altro, può essere un’invocazione. Ma il punto è questo.

DONINELLI IN PIAZZA TIENANMEN

Ho letto il reportage dalla Cina di Luca Doninelli pubblicato in due puntate nei giorni scorsi sul Giornale. Dice alcune cose molto sagge e interessanti:

1) Noi che lavoriamo con la Cina – nel commercio, nella finanza, nell’impresa – non ci accorgiamo nemmeno di essere soli, uno per uno, di fronte a un mondo compatto, che si muove compattamente. E non ce ne accorgiamo perché noi, invece, non portiamo in Cina il nostro mondo, portiamo (al massimo) solo noi stessi, la nostra avidità: per questo i cinesi ci vogliono rapire pezzi di quel mondo che noi, ai loro occhi, stiamo sottraendo loro.
La Cina, invece, è sempre un mondo, ed è come mondo che si muove. L’apparente individualismo di molti rampanti non deve trarre in inganno. La Cina è un mondo e cerca mondi – tant’è che, all’università per le discipline economiche, si studia Dante.

2) La Cina coniuga coerentemente la propria storia e la propria antropologia con il modello globalista, che non è né occidentale né orientale. Rispetto all’Occidente, ha una storia altrettanto antica ma appare molto più pronta ad abbracciare il mondo globalizzato, come se la globalizzazione fosse stata inventata appositamente per i cinesi. Il loro vantaggio sta nella minima considerazione accordata alla persona umana, nella superiorità della funzione sull’individuo. L’impressionante muro di palazzi che costeggia le grandi vie di Pechino comunica una freddezza che Manhattan non ha. Finestra dopo finestra, piano dopo piano, noi vediamo con l’immaginazione corridoi e stanze, scrivanie, sedie, computer, moquette, marmi, fontane, show-room, sorrisi, mani ben curate, vediamo le funzioni e le cariche, direttore generale, direttore di dipartimento, segretario generale, dirigente di reparto, capufficio, impiegato, telefonista: ma non vediamo il volto delle persone. Senza la persona umana e i suoi diritti, la pianificazione può trionfare, il piano potrà essere realizzato.

Prima puntata: L’intraducibile Cina, il mondo senza persone
Seconda puntata: Il ritmo globalizzato della «movida» cinese