Ieri ho incontrato a Lugano il cardinale Joseph Zen, arcivescovo emerito di Hong Kong, e stamattina sul Giornale del Popolo pubblico una intervista a tutto campo, la potete leggere qui.
Ieri ho incontrato a Lugano il cardinale Joseph Zen, arcivescovo emerito di Hong Kong, e stamattina sul Giornale del Popolo pubblico una intervista a tutto campo, la potete leggere qui.
dal Giornale del Popolo del 4 novembre 2008
Dodici mesi che non hanno cambiato il corso della storia. Fino ad oggi i motivi per cui Barack Obama sarà ricordato negli annali sono il fatto di essere il primo presidente degli Stati Uniti afroamericano e il fatto di essere succeduto a due mandati di presidenza di George W. Bush. Francamente un po’ poco, rispetto all’entusiasmo che ha caratterizzato prima la sua campagna elettorale e poi il suo insediamento. Eppure anche lui avrebbe il diritto di prendersi il suo tempo, se non fosse che chi ce lo ha presentato lo ha fatto spingendo sull’acceleratore dell’emotività facendo credere che una volta al potere “il volto nuovo” tutto sarebbe cambiato. Un buon modo per vincere le elezioni, un po’ meno per governare per più di un mandato. Chi è stato convinto dalla retorica della speranza ora chiede che le cose cambino davvero. Per questo Barack Obama oggi deve diffidare innanzi tutto da quelli che si dicono suoi amici e che, anziché aiutarlo a realizzare quel che ha promesso, alimentano aspettative su aspettative aumentando il potenziale margine di delusione nei suoi confronti.
L’esempio più eclatante è stato quello del Nobel per la Pace che ha costretto Obama ad essere il primo destinatario dell’onoreficenza pacifista a firmare, settimana scorsa, il più ricco bilancio militare della storia degli Stati Uniti (680 miliardi di dollari, venticinque milioni in più rispetto all’ultimo bilancio del guerrafondaio George W. Bush). I signori del Nobel, insomma, hanno trasformato Obama in una barzelletta vivente. Obama diffidi anche in coloro che, soprattutto in Europa, insistono a dipingerlo come colui che ha azzerato la politica estera del suo predecessore. Oltre a non essere vero nella sostanza, a ben vedere, non è vero neanche nei modi. La mano tesa al mondo musulmano (e all’Iran in particolare) è certamente un bel gesto, ma nel caso di un rifiuto dell’altra parte potrebbe trasformarsi in un insidioso boomerang. Per quanto riguarda i fronti di Iraq e Afghanistan assistiamo a un attendismo che finora non ha fatto altro che dare respiro ad al Qaida e ai Talebani: la promessa elettorale del ritiro delle truppe oggi è una scomoda palla al piede.
Anche sul fronte della politica interna sono diversi le sfide che potrebbero infrangere il mito di Obama. La sua ambizione di realizzare quello che a nessun altro suo predecessore è riuscito, e cioè la riforma della Sanità, potrebbe ritorcerglisi contro. Una riforma raffazzonata e frutto di mille compromessi potrebbe consegnarlo alla storia come colui che ha fatto la toppa peggio del buco. La cosa potrebbe costargli molto caro, visto che gli americani votano basandosi prevalentemente sui risultati in politica interna. C’è poi il fronte dei temi eticamente sensibili: dopo le promesse acrobaticamente pro-choice (della serie: io sono contro l’aborto, ma le mie convinzioni personali non posso giocarle in politica) da una parte ha ritoccato in peggio gli importanti passi avanti fatti da Bush, dall’altra non ha avuto il coraggio di farlo fino in fondo. Deludendo i questo modo i suoi elettori pro-choice. Resosi conto, tra l’altro, della tensione montata nei confronti del mondo cattolico, Obama è corso subito ad incontrare Benedetto XVI prima che le cose precipitassero e perdesse definitivamente credito presso l’elettorato cattolico.
Ultima osservazione: in campagna elettorale la parola d’ordine è stata “hope”, speranza. Un modo elegante per spostare il problema nel futuro. Ecco, quel che è singolare è che un anno dopo la sua elezione siamo qui a parlare di quella medesima parola. Il fatto è che la speranza o si fonda su qualcosa di presente, oppure è mera e irrealizzabile utopia. Per Obama è venuto il tempo di dimostrare qualcosa nel presente. Sul fatto di non essere Bush ha già tirato avanti un anno.
Per leggere anche il pezzo del mio sparring partener Gregorio Schira clicca qui
Al motto “minimo risultato con il massimo sforzo” domenica scorsa è andato online il nuovo sito del Giornale del Popolo. Ce l’abbiamo messa tutta e siamo riusciti, nonostante io fossi il “capo progetto”, a strappare la sufficienza, mi sembra. La cosa non desterà molto interesse ai miei lettori italiani, anche se qualche cosa di interessante sul sito lo potranno trovare anche loro. La maggiore novità mi sembra l’introduzione di alcuni blog: l’Ippopotamo, Davide e Golia (di Cristina Vonzun), Così per sport, Controvento (di Michele Fazioli) e la Ficcanaso che al nostro giornale deve, almeno, il nome di battesimo e una rubrica settimanale. La Ficcanaso si è arrabbiata perché la grafica del blog non le piace affatto. Abbiamo deciso di mettere in pista un pool di grafici extra-cool per farla contenta. Dubito riusciranno ad accontentarla.
Comuque: andate sul sito a dare un’occhiata. Magari anche più d’una. Magari anche più d’una al giorno…
PS: qualcuno mi ha chiesto perché NO NAME non è stato inserito tra i blog del GdP. Una risposta snob potrebbe essere: preferisco rimanga un blog “tendenza Samilzdad”. Una risposta più seria: mi sarebbe toccato cominciare a seguirlo seriamente trovando veramente qualcosa da dire e non delegando troppo spesso al genio di Garfield…
Dal Giornale del Popolo del 30 marzo 2009
Con la nascita del Popolo della Libertà, proclamata questo fine settimana da Silvio Berlusconi, si chiude il lungo periodo di transizione della politica italiana iniziato quindici anni fa con la scomparsa della Democrazia Cristiana. È un processo che ha avuto un’accelerazione negli ultimi due anni prima con la nascita del Partito democratico e poi con l’annuncio, sull’ormai celebre predellino di piazza San Babila a Milano, del partito fondato ieri dal Cavaliere. Da oggi l’Italia ha due grandi partiti che, a loro dire, hanno entrambi “vocazione maggioritaria”. Si tratta del risultato di alchimie assai diverse. Il PD nasce dall’unione del più grande partito rimasto sulla piazza, i DS (già PCI), e dai reduci della tradizione della sinistra democristiana, la Margherita; mentre il PDL è il risultato della fusione del più grande “non partito” della storia politica italiana, Forza Italia, e dei rappresentati dello storico partito della destra, Alleanza Nazionale. Il partito di Dario Franceschini ha dunque dalla sua il profondo radicamento sul territorio e una squadra più folta di professionisti della politica che sul lungo periodo può dare più garanzie; dall’altra, invece, c’è un approccio più spontaneamente pragmatico e maggior capacità di mettersi in sintonia con gli umori del Paese. Entrambe le formazioni avranno problemi di organizzazione interna tra le diverse anime: chi comanderà a livello locale? Come ci si “spartiranno” le poltrone? Anche la leadership sarà un problema, ma in senso diametralmente opposto: il PD ha bruciato in pochi mesi Veltroni, e Franceschini non appare come l’uomo che ne risolleverà le sorti; mentre per il PDL resta l’interrogativo sul dopo-Berlusconi. Ma al di là dei parallelismi il termometro elettorale non lascia dubbi: il PDL nasce con il vento in poppa e con un potenziale del 44% alle urne, mentre il PD è in un calo netto di consensi e prova in tutti i modi ad uscire dalle sabbie mobili.
Inutile dire che il catalizzatore di questo processo di cambiamento del panorama politico italiano è stato Berlusconi stesso. È un Berlusconi, lo si è visto nel discorso di ieri, che non ha smesso di promettere un’Italia diversa in continuità con quanto predicato nel ’94, ma che in tempo di crisi sa che di miracoli italiani non se ne possono promettere a cuor leggero. Il “non politico”, in fondo, ha imparato qualcosa da quindici anni di attività politica tanto che, anche attraverso la sua attività di Governo, ha mostrato come dietro gli slogan ammiccanti, inizi a delinearsi una cultura politica.
Il merito, la difesa del ceto produttivo, l’economia sociale (la crisi qui ha unito i liberisti pentiti e la vecchia corrente sociale di destra), l’anti-sessantottismo, la responsabilità individuale, l’anti-statalismo, la sussidiarietà: è una piattaforma di valori sulla quale oggi Berlusconi e Fini possono andare d’accordo. Non è poco. Ma se la nascita del nuovo partito è in puro stile berlusconiano e il suo destino, per ora, è legato da una logica di causa-effetto al suo creatore (anche se ieri il Cavaliere ha detto per la prima volta esplicitamente che questo partito gli sopravvivrà), la vera novità è il “fattore AN”. Più che una novità, a dire il vero, è un’incognita. Gianfranco Fini si candida al ruolo di “anima critica” del partito. Per ora questo ruolo lo ha interpretato, paradossalmente, provando a superare Berlusconi “a sinistra”. Su temi come immigrazione, laicità e bioetica, infatti, Fini è apparso più vicino alla sensibilità dal PD che non a quella dello stesso Berlusconi. È un modo per non farsi schiacciare dal peso della personalità di Berlusconi? È un modo per allargare la base di consenso del partito? Vuole tenere in pugno il pallino delle relazioni con il PD? Difficile dirlo, ma ora che le differenze nel centrodestra italiano non sono più di carattere partitico la battaglia interna sarà tutta sui singoli temi. Per ora questo appare il dato più importante.
Oasis pubblica una mia intervista a Mons. Louis Sako, vescovo di Kirkuk. Nelle scorse settimane il vescovo iracheno ha proposto al Papa l’idea di un incontro per mettere a tema i problemi dei cristiani del Medioriente che, sempre di più, rischiano di scomparire.
Dal Giornale del Popolo del 27 giugno 2007
La città vecchia di Vilnius è un gioiellino per turisti con la macchina fotografica al collo. Sembra l’abbiano finita di costruire ieri, in realtà è lì da secoli. I palazzi settecenteschi e ottocenteschi sono stati tutti tirati a lucido grazie a una massiccia iniezione di capitali freschi freschi. La città vecchia di Vilnius è un pullulare di locali alla moda, pub e ristoranti. La sera la gente gira fino a tarda ora: giovanotti trendy e professionisti vestiti bene. Ovunque quell’ordine e quella pulizia che l’immaginario comune associa alla Svizzera. La città vecchia di Vilnius è la vetrina della nuova Lituania, quella che nel 2004 è entrata, d’un sol colpo, nella NATO e nell’Unione europea. E come in una vetrina c’è di tutto il meglio: ristoranti, alberghi, centro commerciali. Il municipio ha persino un piano di espansione in grande stile che ha trasformato la capitale lituana in grande cantiere. Vilnius, non c’è che dire, è una città proiettata verso il futuro.
L’economia tira e negli ultimi anni la crescita si è assestata tra il 7 e il 10 per cento del PIL. Merito, certo, dell’entrata nell’Unione europea, che ha regalato al Paese non solo i ricchi finanziamenti di Bruxelles ma anche la consapevolezza di essersi lasciati finalmente alle spalle i giorni bui, quando a comandare erano gli invasori, i russi.
Soprattutto dopo l’11 settembre, il Paese è diventato una meta per gli investitori stranieri in cerca di mercati alternativi. Nella regione di Klaipeda, sulle rive del Mar Baltico, fanno affari anche gli svizzeri che, in alcuni casi, si sono portati a casa il 20 per cento di quello che avevano investito. Insomma, per ora, la Lituania non ha tradito chi è venuto qui per fare affari. Per aumentare l’attrattività verso le industrie straniere si sono perfino inventati, sempre a Klaipeda, una Free Economic Zone (FEZ). Ad appena 2 km dal porto commerciale uno spazio di 22 ettari dove impiantare il proprio stabilimento a condizioni vantaggiosissime: per chi investe almeno un milione di euro niente tasse per i primi 5 anni, metà del dovuto per il successivo decennio. A questo si aggiunge la disponibilità di manodopera lituana a prezzi competitivi. Inaugurata nel 2002, oggi la FEZ ospita gruppi danesi, giapponesi, irlandesi, austriaci e indonesiani. Ma sulla sponda lituana del Mar Baltico non si fanno solo affari: il mare è sempre il mare e anche la Lituania ha la sua Riccione che si chiama Palanga. A Palanga la gente viene anche dai Paesi vicini d’estate per far vita da spiaggia e alberghi, pub e locali notturni cercano di non perdere il treno della rinascita del Paese.
Fin qui la Lituania da cartolina, quella patinata che invade i dépliant turistici e le brochure per gli investitori. Poi c’è quell’altro paese, quello – e sono gli stessi uffici turistici a spiegarlo – che ancora oggi lotta contro postumi della terribile sbronza dell’invasione sovietica.
A Vilnius, dietro il modernissimo centro commerciale “Europa”, sormontato da un grattacielo tutto acciaio e specchi, c’è un quartiere fatto di catapecchie di legno risparmiate dall’avanzata delle ruspe post-sovietiche. Lì la gente trascorre gli inverni a meno venti, e quando piove è costretta ad attraversare le fangose strade non asfaltate. Qui, in pieno centro, incomincia la grande periferia che circonda il cuore di Vilnius e che si estende per tutto il territorio lituano. Sì perché, fatta eccezione per alcuni centri importanti come Kaunas o Klaipeda, il resto della Lituania è ancora troppo occupato a rincorrere il presente per pensare al futuro.
Un’istantanea del disagio la forniscono i dati sull’emigrazione. Sono circa 300mila dal 1990 le persone che hanno cercato fortuna all’estero. E su una popolazione di 3,4 milioni di persone è un bel numero. Oggi la Lituania detiene il primato del paese dell’UE con il più alto tasso di emigrazione. Anzi da quando nel 2004 Vilnius è entrata a far parte del club di Bruxelles il tasso di chi decide di andarsene è addirittura raddoppiato. Tra il 2004 e il 2005 gli emigranti sono stati circa 49mila. Vanno soprattutto in Gran Bretagna, Irlanda, Svezia e Spagna. I primi tre Paesi sono quelli che nell’UE hanno deciso di non contingentare l’arrivo di immigrati dai dodici nuovi membri dell’Unione. La maggior parte di chi parte è un operaio specializzato, anche se moltissimi sono i laureati. Il motivo principale che spinge i lituani a fare le valigie è presto detto: i salari. Negli ultimi anni, è vero, sono aumentati, ma la concorrenza dei Paesi europei è impossibile da contrastare. Emblematico è il caso dei medici. Il primo salario lordo di un medico neolaureato è di 800 litas al mese (circa 380 franchi) che è appena poco meno del doppio delle 450 litas del salario minimo. Così sono in moltissimi gli universitari che decidono di andare a studiare all’estero o i neolaureati che cercano fortuna in Europa. Nelle città c’è grande richiesta di operai specializzati e professionisti, ma in campagna chi si affaccia sul mondo del lavoro sa che ad aspettarlo ci sono salari da fame. Così la campagna si svuota di giovani e nei piccoli centri rimangono solo gli anziani e chi non è riuscito ad integrarsi nel nuovo sistema perché troppo abituato all’assistenzialismo dei tempi del regime. Il disagio sociale è in crescita. All’appello non mancano solo 300mila persone, manca praticamente una generazione intera. La classe politica scommette tutto sulle magnifiche sorti e progressive che sembrano dietro l’angolo e spera che i giovani emigrati tornino presto sui loro passi. Più che una speranza è una vera e propria scommessa da cui dipende il futuro del Paese. Sembra di sentirla corridori dei palazzi del potere di Vilnius l’eco di quell’interrogativo cruciale: «Chi si prenderà carico del nuovo Paese che stiamo costruendo?».
INTERVISTA A GIANPAOLO PANSA
Giornale del Popolo, 19 dicembre 2006
Giampaolo Pansa è un giornalista di razza. Graffiante, caustico e scomodo. Scomodo, soprattutto, da quando si è messo a scrivere libri che raccontano la storia della resistenza italiana dal punto di vista di chi quella guerra civile l’ha persa. “Il sangue dei vinti” e “Sconosciuto
Pansa, qual è la “grande bugia” a cui si riferisce?
La grande bugia non è, come qualcuno cerca di farmi dire per ragioni di propaganda,
Non più accettabile? Perché?
Perché è un racconto troppo reticente e troppo falsato. In questo libro lo spiego con molta precisione e molti dettagli. È accaduto quello che succede sempre quando finiscono le guerre, soprattutto le guerre civili: uno vince, l’altro perde. Hanno vinto i partigiani e gli antifascisti, per fortuna aggiungo io, e hanno perso i fascisti. Poi a parlare sono stati solo i vincitori, mentre chi ha perso ha dovuto stare zitto perché gli è stato messo il sasso in bocca. Questa cosa non è durata solo un anno o due, ma è durata praticamente quasi sessant’anni. Parlando solo chi ha vinto, anzi il più forte tra i vincitori, il Partito Comunista Italiano, ne è uscita una storia autoritaria. Una storia in parte falsa: piena di pagine bianche, piena di omissioni, piena di mezze verità, piena di mezze bugie, piena di bugie totali, di storie non raccontate e di storie inventate di sana pianta. Dunque quello che è definito con una punta di disprezzo dagli agiografi della ricerca storica “il revisionismo” è un atteggiamento mentale assolutamente normale. Quindi non chiedermi se sono un revisionista, perché io sono un revisionista “ultrà”, nel mio dilettantismo. E penso che la storia della resistenza italiana sarebbe più accettabile, specialmente dalle nuove generazioni, se fosse più corretta. Se fosse meno scandalosamente faziosa e soprattutto se tenesse conto di tutti i fattori in gioco in quei venti mesi terribili.
Ma chi ha alimentato e ha avuto interesse ad alimentare questa bugia?
Come ho detto è stato il Partito comunista italiano. Perché il PCI aveva il problema di non potersi accreditare come partito nazionale e democratico se non riferendosi alla sua battaglia contro il fascismo.
In che senso?
Perché per il resto il PCI è stato un partito filosovietico legato agli interessi del comunismo internazionale, succube degli ordini che venivano da Mosca. E questo fin quasi alla caduta del muro di Berlino. E non poteva presentarsi con nessun’altra bandiera che non fosse quella dell’antifascismo. Ma l’antifascismo raccontato nel modo che faceva comodo a loro. Questa è una cosa talmente evidente a chi si occupa come me di storia del fascismo, anti fascismo e guerra partigiana, che non serve nemmeno dimostrarlo. Io comunque ho provato a dimostrarlo facendo una serie di esempi.
La sinistra ha reagito male ai suoi primi libri sulla resistenza a partire da “Il sangue dei vinti” passando per “Sconosciuto
…non della sinistra: ho detto del PCI, perché la sinistra non è solo il PCI o gli eredi del PCI. La sinistra italiana come soggetto unitario non esiste più, esistono tante sinistre diverse e tutte in rotta tra di loro. Anche all’interno dei DS ci sono degli atteggiamenti diversi sulla storia stessa del partitone rosso. Quindi non è vero che tutta la sinistra è contraria ai miei libri, è contraria quella sinistra post-comunista riconoscibile in quei partiti che hanno ancora questa parola nei loro simboli, in una parte dei DS e poi in quei circoli di ragazzi, ahimè ignoranti, che sono i no global. Questi, in particolare, che pensano di poter fare qualunque cosa in nome della resistenza e non si rendono conto di essere i primi a tradirla e a smentirla con il loro atteggiamento intollerante, violento e pronto a menar le mani.
Ma a quest’ultimo libro che reazioni ci sono state?
La prima reazione è stata che in poco più di un mese è arrivato a nove edizioni per 350mila copie vendute. Questa accoglienza è stata al di là di ogni mia previsione e con decine di richieste di andare in giro per l’Italia a presentarlo. E ho potuto soddisfarne per ragioni di tempo la metà della metà. Poi se leggi l’Unità, se leggi Liberazione o se ascolti i discorsi dei Comunisti Italiani vedi che questo libro gli ha dato fastidio come una trave in un occhio. Però era scontato che avvenisse. Questi sono ancora inchiodati, per loro opportunismo partitico, a un’immagine della nostra guerra interna che non corrisponde a quella della verità storica. Certo, questi hanno rognato, ma se non avessero rognato mi sarei sentito nei guai.
Come si spiega invece il successo dei suoi libri precedenti?
Io non sono il primo che ha scoperto quello che è successo in Italia dopo il 25 aprile, ma sono stato il primo che l’ha raccontato in modo ordinato – sto parlando de “Il sangue dei vinti” uscito nel 2003 – coprendo quasi per intero l’Italia del Nord. Un testo così non c’era; c’erano tanti libri e libretti, oppure c’erano anche ricerche serie sulle varie zone, ma non c’era un racconto che riguardasse quella che poi è stata la patria della guerra di liberazione o della guerra civile. Era un libro che aspettavano sia i lettori di sinistra che quelli di destra. E soprattutto è stato accolto con un sospiro di sollievo da chi ha avuto parenti uccisi o scomparsi (perché sono tantissimi i casi di uccisioni senza il ritrovamento dei cadaveri) durante la fase successiva alla fine della guerra. E, bada, queste persone non sono mica tutti fascisti. Di questi molti hanno militato nella sinistra e sono diventati parlamentari di partiti di sinistra. Una persona mi ha detto che finalmente ha visto un autore che pur non appartenendo al loro mondo «ridava dignità ai loro morti». Questa frase mi ha molto colpito e mi risuona sempre nelle orecchie. In Italia si è abituati a una pubblicistica storica, per quel che riguarda la storia contemporanea, troppo legata al partitone e alle cattedre dei professori marxisti. La prima ragione del successo è stata che ad affrontare un tema tabù era un giornalista di sinistra, però laico, democratico, tollerante e antifascista. Se poi il successo è continuato per gli altri libri vuol dire che sono un autore credibile presso un pubblico molto largo.
Torniamo alla questione del revisionismo; in un’intervista ha dichiarato: «una sinistra riformista, se non è anche revisionista, che sinistra è?». Cosa intendeva?
Volevo dire quello che è chiarissimo. E cioè che se la sinistra che si dichiara riformista vuole riformare in senso moderno le strutture di questo Paese, la sua politica, la sua pubblica amministrazione, il suo bilancio, la sua economia, i suoi rapporti con i cittadini, deve per prima cosa leggere fino in fondo dentro la propria storia. Se no non è credibile. Faccio il revisionista fuori dal mio appartamento, ma nel mio appartamento invece dico che è sempre andato tutto bene? Mi rifiuto di vedere l’album di famiglia? Mi rifiuto di vedere cosa c’è negli armadi che mi hanno lasciato la nonna e poi la mamma e poi la zia? È assolutamente fatale questo. Questa è una mia opinione che sono pronto a discutere. Ma non so se è un’opinione anche dei capi dei partiti della sinistra riformista a cominciare dai leader dei DS. Questi leader la pensano esattamente come la penso io (lo so da colloqui privati), però non osano dirlo in pubblico perché hanno dei fatturati elettorali così striminziti che hanno paura di perdere il voto anche dell’ultimo partigiano dell’ANPI (Associazione Nazionale dei Partigiani Italiani, ndr).
Scriverà ancora libri su questi argomenti?
Questo se lo sapessi non te lo direi. Perché per scaramanzia non annuncio mai i miei programmi prima di averli impostati e soprattutto prima di averli realizzati. Non è detto, stiamo a vedere. Come dicono gli spagnoli: “mañana”, domani.