ROVERETO, UNA MOSTRA AL TERMINE DELLA NOTTE

Questo articolo è stato pubblicato sul numero di maggio di Tracce

"Brameranno morire, ma la morte li fuggirà" #WernerHerzog @mart_museum #MuseumWeek

Una foto pubblicata da Luca Fiore (@lfiore) in data:

Aveva un braccio solo, il sinistro. L’altro lo aveva perso combattendo sulle rive dell’Isonzo con la divisa dell’Impero austroungarico. Chi avesse visitato Praga prima del 1976, avrebbe potuto incontrarlo, sul ponte Carlo o attorno alla cattedrale di San Vito. Un vecchio trasandato che trascinava un grande apparecchio fotografico di legno. La guerra lo privò di una parte di sé, necessaria per il mestiere di legatore al quale era destinato. Visse per sei anni, dal 1922 al 1927, nell’Invalidovna, la casa dei reduci della capitale cecoslovacca. È qui che iniziò a fotografare, osservando uomini, ombre e oggetti. Si chiamava Josef Sudek, il «poeta di Praga», uno dei più grandi fotografi del mondo. È lui uno dei protagonisti della mostra al Mart di Rovereto, dedicata al centenario della Grande Guerra, inaugurata nel 2014 ma che resta d’attualità anche in questo maggio 2015 a cento anni dall’entrata in guerra del nostro Paese. Il titolo, rubato da una poesia di Bertolt Brecht, recita La guerra che verrà non è la prima e fa subito capire che non si tratta di un’operazione che guarda al passato. Qui, per una volta, grazie al lavoro di coordinamento di Cristiana Collu, direttrice del museo fino a pochi mesi fa, la consunta espressione historia magistra vitae prende corpo in modo persuasivo. Le opere e i reperti d’epoca sono la spina dorsale di un discorso, magari rapsodico e non sistematico, che coinvolge immagini e opere disseminate lungo tutto il secolo passato. Dal Futurismo all’arte concettuale. Perché, come la storia di Sudek insegna, certe ferite si trovano anche là dove non te le aspetti. Così la Grande Guerra dialoga con l’Afghanistan, l’Iraq, il Kosovo. Ma, come convitati di pietra, appaiono anche Siria, Nigeria e Ucraina. L’oggi, insomma.

Corpi straziati. Il percorso si apre con una potente opera del 2000 dell’artista belga Berlinde de Bruyckere, intitolata In Flanders Fields (Nei campi delle Fiandre). Cinque figure di cadaveri di cavalli, realizzate a partire da calchi e rivestite della pelle degli animali stessi. Un anti-monumento equestre, nato dalla commissione ricevuta dal museo di Ypres, teatro di cinque violentissime battaglie durante la Prima Guerra. Lì, nel 1917, i tedeschi sperimentarono per la prima volta il gas mostarda nelle trincee nemiche. La De Bruyckere era andata a guardarsi la documentazione fotografica di quelle battaglie, scoprendo che, al pari dei soldati, sul campo rimanevano anche i corpi straziati degli animali. Così, la carneficina umana viene rappresentata indirettamente: l’orrore del sangue è evocato, senza il bisogno di raffigurarlo. È la violenza dell’uomo che si abbatte su se stesso e sulla natura. A contemplare le membra contorte dei cavalli, sulla parete, ci sono sei fotografie di Paola De Pietri. Sembrano normali paesaggi di montagna. In realtà è quel che rimane delle ferite della guerra sul territorio del fronte italo-austriaco. Ora l’erba e la neve coprono le voragini scavate dalle bombe, gli avvallamenti delle trincee, i tornanti delle mulattiere. Una natura non più vergine, come poteva essere quella catturata dalla macchina fotografica di Giuseppe Garbari: la neve immacolata sulle creste dell’Adamello nell’Anno Domini 1895.

Rosso sangue. Di nuovo la natura è protagonista nell’estratto del documentario di Werner Herzog, Lektionen in Finsternis, del 1992. La telecamera riprende a volo d’uccello quel che rimane del territorio kuwaitiano dopo la ritirata delle truppe irachene. La Prima guerra del Golfo è finita, non si spara più. Restano accese soltanto le lingue di fuoco che salgono dai pozzi di petrolio incendiati. Le nuvole di fumo si specchiano sulle acque. Una colonna di veicoli distrutti giace nel deserto come una carovana colta di sorpresa dalla fine del mondo. La voce narrante recita frasi dall’Apocalisse: «In quei giorni gli uomini cercheranno la morte, ma non la troveranno; brameranno morire, ma la morte li fuggirà».
Poco prima avevamo visto una teca che mostrava i “luttini”, le immaginette per ricordare i mariti o i figli uccisi al fronte. Una sfilza di volti di ragazzi accostati alle preghiere delle loro madri, mogli o fidanzate. Viene in mente il rosario di fototessere viste su internet degli uccisi innocenti in Kenya o in Libia. Sulla parete, le formelle in bronzo del grande Arturo Martini, che fonde le immagini di una sorta di Via Crucis del soldato: I reticolati, Le crocerossine, I gas asfissianti, La messa al campo.
La pietà popolare e la tracotanza interventista. A volte contrapposte, a volte confuse. Il patriottismo e il nazionalismo. Il culto della bandiera, la retorica della guerra tornati di moda nella nostra Europa del XXI secolo. Lascia col sangue gelato la sequenza di fotografie della cattura e dell’esecuzione di Cesare Battisti. Basti guardare il sorriso del carnefice trionfante sul cadavere del patriota stampato sulle pagine dei giornali. Lo stesso compiacimento della morte usato oggi come propaganda dall’internazionale del terrore. Poco distante, appoggiato a terra, il quadro iperrealista datato 2009 del pittore Andrea Facco. Si intitola Monumento alla pittura N.1 e rappresenta con fedeltà fotografica la lapide con la scritta: «Qui Umberto Boccioni artista e soldato d’Italia trovava la morte il 16-VIII-1916». Zang Tumb Tumb.
Lungo il matroneo circolare progettato da Mario Botta sono esposti i reperti di guerra riemersi di recente a seguito della ritirata dei ghiacciai. Filo spinato, elmetti, scudi da trincea e quei commoventi settantasei soprascarponi di paglia intrecciata che scaldavano i piedi delle vedette austriache. Poco distante, la parete più riuscita della mostra: uno dei “sacchi” di Burri (1956) con una sottile lingua di tessuto rosso e una “combustione” di plastica, anche qui, rossa. A fianco il video del 2010 dell’artista iraniana Gohar Dashti: il primo piano di una garza bianca che lentamente si tinge di rosso. Il sangue è rappresentato, di nuovo, in modo indiretto evocando una ferita che non è soltanto fisica, ma che segna il corpo e l’anima dell’uomo del Novecento e che, stando al contraccolpo, non ha ancora smesso di sanguinare.
La mostra è ricchissima ed è impossibile ripercorrerne tutti i passaggi e le suggestioni. L’opera finale, però, sarà difficile da dimenticare. È la Pietà du Kosovo di Pascal Convert, ispirata a un’immagine del fotoreporter Georges Mérillon, che aveva immortalato la veglia funebre di un ragazzo ucciso dalla polizia serba. Convert ne realizza un calco su cera a grandezza naturale. Le nove figure di donna e il corpo disteso del giovane tornano alla forma del negativo fotografico ed è come se si imprimessero non solo nella parete di cera, ma anche nell’animo dello spettatore. Il riferimento al tema del compianto, preso dalla tradizione figurativa occidentale e ricorrente anche nella pratica dei reportage dalle guerre di oggi, è come se desse, a ritroso, il tono a tutta la mostra.

Domanda scandalosa. «Non abbiamo messo in campo un tragitto senza fine e senza speranza», scrive Cristiana Collu nell’introduzione al catalogo: «Nonostante il titolo, preso in prestito dal poeta, ne abbiamo fatto un viaggio al termine della notte. Con il soccorso della poesia, abbiamo preso la parola. In battere e in levare abbiamo cercato di rappresentare la ferita, il dolore, la tenerezza. Senza precipitare nella banalità del male e senza vuoti di memoria, ma con lo sguardo verso l’aperto che si leva dall’orrore umano che non si può dire, che non si può rappresentare, ci siamo spinti verso qualcosa di più simile a una preghiera». La preghiera che anche oggi si smetta di morire. La preghiera che non riaccada più. La preghiera dell’uomo davanti al cielo rischiarato dalla luna, come lo rappresenta il video del 2009 di Luca Rento. Quella silhouette nella notte, in ginocchio. Gli alberi che si muovono, le montagne. Ad innalzare la domanda più umana e scandalosa. Sulla guerra, sulla morte, sulla vita.