Della mostra di Anselm Kiefer, “Il Mistero delle Cattedrali” (nella sede di White Cube di Bermondsey St. fino al 26 febbraio 2012) è difficile parlare male. Il fascino di queste opere, forse, risiede nell’assoluto equilibrio tra pensiero e materialità. Culto misterico e concretezza degli oggetti e dei materiali. Qui Kiefer non gioca sulla sorpresa (è il Kiefer visto già a Venezia ai Magazzini del Sale, ma non solo) ma sullo stupore e la monumentalità. Complici gli spazi – da sballo – della nuova galleria di Jay Joplin l’artista tedesco toglie il fiato con paesaggi immensi e tridimensionali. Che il “mistero” delle cattedrali sia proprio la loro capacità di aprire spazi infiniti?
Nota di merito va alla cosiddetta galleria 9x9x9, fisicamente un cubo bianco dal lato di 9 metri, dove Kiefer piazza la sua “Sprache der Vögel” (1989) che sempra essere stata pensata apposta per quello spazio (le foto non danno la men che minima idea).
It is difficult to speak badly about Anselm Kiefer’s exhibition “The Mystery of the Cathedrals” (White Cube, Bermondsey Street, until Feb. 26, 2012) . The charm of these works, perhaps, lies in the absolute balance between thought and materiality. Mystery cult and concreteness of objects and materials. Kiefer does not play here on surprise (we have already seen the same Kiefer in Venice at Magazzini del sale, but not only) but on wonder and monumentality. Accomplices spaces – rocking – of Jay Joplin’s new gallery, the German artist takes your breath away with huge, three-dimensional landscapes. Is the “mystery” of the cathedrals precisely their ability to open infinite space?
Attention should be given to the so-called 9x9x9 gallery, a real white cube with a 9 meter side, where Kiefer places his “Sprache der Vogel” (1989), which seems have been specifically designed for that space (the photos do not give less than minimum idea).
Nel numero di novembre della rivista Tracce, ho scritto questo articolo sulla grande mostra su Leonardo pittore in corso alla National Gallery di Londra.
Una mostra solo di quadri di Leonardo da Vinci non l’avete mai vista. Perché? Semplice: negli ultimi settant’anni nessuno è mai riuscito a farla. Ce l’ha fatta quest’anno la National Gallery di Londra che fino al 5 febbraio propone una retrospettiva sugli anni milanesi del genio italiano intitolata “Leonardo da Vinci, pittore alla corte di Milano”. I presititi sono da capogiro, tanto che per la prima volta nella storia verrranno esposte insieme le due versioni della “Vergine delle rocce”, quella del museo londinese e quella del Louvre. Un evento come quello di Londra sarebbe stato l’occasione per fare un punto sullo stato della ricerca su uno degli snodi decisivi della storia dell’arte del Rinascimento. A ridosso della mostra, tuttavia, uno dei maggiori studiosi di Leonardo, il professore padovano Alessandro Ballarin, ha pubblicato un’opera monumentale (quattro volumi per un totale di 1392 pagine di testo e altre 1389 di immagini a colori e in bianco e nero) intitolata, guarda caso, proprio “Leonardo a Milano”. Ballarin ha lavorato a quest’opera negli ultimi quindici anni riscandagliando i pochi documenti a disposizione degli storici e proponendo nuovi scenari e soluzioni a molti problemi che restano ancora aperti, ma soprattutto proponendo interpretazioni di opere con le quali nessuno aveva mai osato confrontarsi. L’esempio delle due versioni della “Vergine delle rocce”, sui cui ruota tutta la mostra di Londra, è emblematico. Ballarin non concorda affatto con quanto i curatori inglesi sostengono sulla storia delle due opere e propone una lettura assolutamente inedita del loro significato.
Secondo la mostra di Londra la “Vergine delle rocce” conservata al Louvre è stata la prima ad essere realizzata. Dipinta tra il 1483 e il 1486 e sarebbe stata dipinta per la cappella della Confraternita dell’immacolata concezione nella chiesa francescana di San Francesco Grande (nei pressi dell’attuale università Cattolica e abbattuta agli inizi dell’800). Dopo una controversia sui pagamenti, Leonardo avrebbe venduto questa versione e successivamente realizzato quella della National Gallery attorno al 1490 per sotituire la prima nella cappella della confraternita. Leonardo ricorre al tribunale di Milano perché la Confraternita francescana non avrebbe finito di pagare l’opera. Secondo i documenti dell’epoca la confraternita, da parte sua, sosteneva che il pagamento non era stato completato dal momento che l’opera non era considerata finita. Ma se le cose stessero così, come avrebbe fatto Leonardo a rivendere un’opera non terminata? E poi: se la seconda versione avrebbe dovuto sostituire la prima nella complessa ancona di San Francesco, perché le due tavole hanno misure diverse? Infine: perché l’artista avrebbe deciso di modificare la composizione della seconda versione anziché farne una replica fedele?
Ballarin dice: la prima tavola, quella del Louvre, non fu affatto realizzata per San Francesco, ma si tratta di un’opera dipinta nei primi anni del suo soggiorno milanese. Si tratterebbe di un “biglietto da visita” per il suo nuovo signore, Ludovico il Moro, pensato per l’abside della cappella palatina di San Gottardo in Corte, la chiesa che ancora oggi si trova dietro al Palazzo reale a Milano. Questa chiesa era stata costruita dallo zio del Moro, Azzone Visconti, e la sua struttura originale replicava, nell’abside, la pianta ottagonale del battistero di San Giovanni ad Fontes (quello maschile, dove Ambrogio aveva battezzato Agostino) e che era stato sacrificato per il cantiere del nuovo Duomo. Sembra quindi che nelle intenzioni di Azzone San Gottardo doveva diventare una nuova “ecclesia fontis”. Contemporaneamente, però, la chiesa era anche dedicata all’Immacolata Concezione, culto che era stato diffuso in Italia e in particolare a Milano dai francescani. Una pala d’altare per quella chiesa avrebbe quindi dovuto far convivere il tema del battesimo di Gesù e quello dell’Immacolata. E, a ben vedere, la “Vergine delle rocce” del Louvre sembra essere in grado di rispondere a questa difficile esigenza.
Leonardo, infatti, sceglie di partire da antiche tradizioni apocrife sulla vita del Battista che raccontavano che al ritorno dall’Egitto, Gesù e la Madonna si fossero recati a trovare il cugino Giovanni il quale invece aveva trovato rifugio dalla persecuzione di Erode in una grotta, che si era aperta miracolosamente dopo le preghiere di Elisabetta. Era una grotta che permetteva di vedere all’esterno senza esser visti: infatti nel quadro di Leonardo si scorge il magnifico paesaggio in cui scorre il Giordano. In quell’occasione, dicono gli apocrifi, Gesù rivela a San Giovannino il destino di entrambi. L’angelo a destra trattiene Gesù sul ciglio di una pozza d’acqua e, allo stesso tempo, volgendosi verso di noi attira la nostra attenzione con il dito puntato verso il Battista il quale è abbracciato dalla Vergine. Dice Ballarin: «Sul primo piano la pozza allude alla fons, alla vasca battesimale, alla promessa del battesimo di Cristo nelle acque del Giordano; la mano della Vergine è sollevata sopra la testa del figlio in segno di protezione al destino della passione del figlio. (…) La Vergine è colei che adotta il Precursore del figlio, ma è anche colei che teme per le sorti del figlio, che vive, nell’incontro dei due piccoli, la premonizione della passione del figlio, grazie alla quale la salvezza sarà restituita al mondo. Ella presiede all’incontro, lo patrocina; ella conosce il disegno divino, anzi ne è lo strumento; ella è colei che sa. Voglio dire che in questo quadro alla Vergine viene assegnato un ruolo centrale nel compiersi del disegno divino, nella redenzione dell’umanità attraverso l’incarnazione ed il sacrificio di Cristo».
Nulla di simile si era ancora visto: non a Firenze, e neppure a Milano. Un’immagine del genere ha una coloritura tutta francescana, impensabile senza tener conto della nuova sensibilità per il culto mariano frutto dell’accesissimo dibattito che i frati minori, guidati da Francesco della Rovere, generale dell’ordine e poi papa con il nome di Sisto IV, conducono contro i domenicani per l’affermazione della dottrina del concepimento immacolato della Vergine. E proprio Milano era uno dei fronti più accesi di tale disputa. Dice ancora Ballarin: «Si potrebbe dire che Leonardo ha inteso significare il concepimento immacolato della Vergine, la sua natura di creatura immacolata concetta, attraverso il ruolo che Dio le ha dato di corredentrice: quello che i teologi francescani di oggi direbbero il privilegio della corredenzione, cioè della cooperazione della Vergine nell’opera salvifica di Cristo, come prova del suo essere stata concepita senza peccato originale».
Solo cogliendo queste implicazioni teologiche possiamo comprendere l’interesse dei francescani milanesi per un tipo di immagine come quella del Louvre. È così molto probabile che colta la genialità della prima “Vergine delle rocce” – che a noi oggi appare sfumata perché non più partecipi della sensibilità dei contemporanei di Leonardo – la Confraternita dell’Immacolata Concezione abbia deciso di commissionare a Leonardo una nuova immagine che, partendo dalla struttura della prima, si concentrasse solo sul tema che stava loro a cuore. A quel punto a Leonardo non rimane che emendare la prima e acrobatica ingegneria iconografica dai riferimenti diretti al tema del battesimo. Nella tavola conservata alla National Gallery, dunque, non vengono riprodotti la pozza d’acqua in primo piano e il dito dell’angelo che indica San Giovannino. Gesù, il Battista, l’angelo e la Vergine qui formano una sorta di piramide che ha il suo fulcro proprio nella figura di Maria, imponente e matura, diversa dalla giovinetta fragile della prima versione. «Quella Vergine di Leonardo – scrive Ballarin – determinata nei gesti, sicura del proprio agire, ma fragile nei sentimenti, è veramente l’annunzio, il battesimo, di una nuova èra mariologica, aperta, in modi e tempi diversi, da due francescani, Giovanni Duns Scoto e Francesco Della Rovere». Lo studioso padovano arriva a dire che se il Medioevo è stato un periodo cristologico, soprattuto nei secoli XIII e XIV, la prima parte del Rinascimento è stata tutta per la Madonna. Forse, anche se furono anni difficili, Maria andava ad assumere un ruolo sempre più importante come madre del popolo cristiano.
You have never seen an exhibition with only pictures by Leonardo da Vinci. Why? It’s simple. In the past 70 years, no one has managed to organize one. This year, London’s National Gallery has managed it. From November 9th to February 5th, it proposes a review of the Italian genius’ Milanese years, entitled, “Leonardo da Vinci: Painter at the Court of Milan.” The list of loans is breathtaking. The two versions of Leonardo’s Virgin of the Rocks, belonging to the National Gallery and the Louvre, are shown together for the first time. An event of this kind could be the occasion for an update on the research on one of the crucial nodes of the history of Renaissance art. Alongside the exhibition, one of the greatest experts on Leonardo, Professor Alessandro Ballarin, from Padua, has published a monumental work (four volumes–1, 392 pages of text and 1, 389 pages of photographs) entitled, “Leonardo in Milan.” Ballarin worked on this book over the past 15 years, sifting through the few documents available to historians and proposing new scenarios and solutions to many questions still open but, above all, proposing interpretations of works that no one up to now dared to analyze. The example of the two versions of the Virgin of the Rocks, around which the whole London exhibition gravitates, is emblematic. Ballarin is not in fact in agreement with what the curators of the English exhibition maintain about the history of the two works and proposes a totally new interpretation.
According to the London experts, the version of the Virgin of the Rocks preserved in the Louvre was the first to be made. Painted between 1483 and 1486, in their view it was painted for the oratory of the Confraternity of the Immaculate Conception in the Franciscan church of San Francesco in Milan (near what is now the Catholic University, and demolished in the early 1800s). After an argument over payment, Leonardo is said to have sold this version and successively (around 1490) painted what is now in the National Gallery to replace that in the oratory of the Confraternity. Leonardo had recourse to the Milan Tribunal claiming that the Confraternity had not finalized payment for the work. According to the documents of the time, the Confraternity maintained that payment was not finalized because the work was not considered completed. But if this were the case, how could Leonardo have sold an unfinished work? And then, if the second version was to replace the first in the complex altarpiece of San Francesco, why are the two panels of different sizes? Lastly, why would the artist have decided to alter the composition of the second version instead of making an exact copy?
The well and the fons. Ballarin says, “The first panel, that of the Louvre, was not in fact painted for San Francesco, but is a work painted during the first years of his sojourn in Milan. It would have been a ‘calling card’ for his new patron, Ludovico il Moro, destined for the apse in the palatine chapel of San Gottardo in Corte, the church that can still be found behind Milan’s Palazzo Reale. This church had been built by Ludovico’s uncle, Azzone Visconti, and its original structure was a replica, in the apse, of the octagonal plan of the baptistery of San Giovanni ad Fontes (for males, where Ambrose baptized Augustine) and had been sacrificed for the building of the new Duomo. It would seem, then, that Azzone’s intention was for San Gottardo to become a new Ecclesia Fontis.”
At the same time, though, the Church was dedicated to the Immaculate Conception, a cult spread in Italy and particularly in Milan by the Franciscans. An altarpiece for that church would therefore have been required to combine the theme of the Immaculate Conception with that of the Baptism of Jesus. The Louvre version of the Virgin of the Rocks would therefore correspond to these complex requirements.
As it was, Leonardo chose to begin from ancient apocryphal prophecies about the life of the Baptist, which tell that, on their return from Egypt, Jesus and Our Lady went to see their cousin, John, who had taken refuge from Herod’s persecution in a cave that opened miraculously thanks to the prayers of Elizabeth. It was a cave that allowed those inside to see out without being seen. In fact, in Leonardo’s painting we get a glimpse of the countryside with the Jordan passing though. The apocryphal stories say that on that occasion, Jesus revealed to John both their destinies. The angel holds Jesus near the edge of a well and, at the same time, looking towards us, guides our attention with his finger pointed towards the Baptist who is embraced by the Virgin. Ballarin says, “In the foreground, the well alludes to the fons, to the baptismal font, to the promise of the Baptism of Christ in the waters of the Jordan; the Virgin’s hand is raised above her Son’s head as a sign of protection in His destiny of the Passion. …The Virgin is she who adopts her Son’s precursor, but also she who fears for the fate of her Son, and who lives, in the meeting of the two children, the premonition of her Son’s Passion, thanks to which salvation will be restored to the world. She presides over the meeting, promotes it; she knows the divine plan, she is its instrument; she is she who knows. I want to say that in this painting, the Virgin is assigned a central role in the fulfilling of the divine plan, in the redemption of mankind through the incarnation and the sacrifice of Christ.”
The dispute. Nothing of its kind had been seen before–not in Florence, nor in Milan. This image has a coloring wholly Franciscan, unthinkable without taking into account the new sensitivity for the Marian cult, fruit of the intense dispute between the Friars Minor–led by Francesco della Rovere, General of the order and later Pope by the name of Sixtus IV–and the Dominicans, so as to affirm the doctrine of the Immaculate Conception of Our Lady. Milan was one of the hot spots in this dispute. Once again, Ballarin says, “We could say that Leonardo intended to mean the Immaculate Conception of the Virgin, her nature as a creature conceived immaculately, through the role God gave her of Co-redemptrix–what today’s Franciscan theologians would call the privilege of co-redemption, that is, of the Virgin’s cooperation in Christ’s salvific work, as the proof of her being conceived without original sin.”
Only if we grasp these theological implications can we understand the interest of the Milanese Franciscans in an image like that of the Louvre. Thus, it is highly probable that, having grasped the genius of the first Virgin of the Rocks–which for us today seems obscure because we no longer share the sensitivity of Leonardo’s contemporaries–the Confraternity of the Immaculate Conception decided to commission from Leonardo a new painting that, starting off from the structure of the first would concentrate only on the theme they had at heart. At that point, all Leonardo had to do was to purge that first, acrobatic iconographic engineering of direct references to the theme of Baptism. In the panel preserved at the National Gallery, therefore, there is no trace of the well in the foreground, or the angel’s finger pointing to St. John. Jesus, the Baptist, the angel, and the Virgin here form a sort of pyramid that has its fulcrum in the figure of Mary, imposing and mature, different from the frail little girl of the first version. “The Virgin of Leonardo,” writes Ballarin, “determined in her gestures, sure of her own action, but frail in her feelings, is truly the announcement, the Baptism, of a new era in Mariology, opened, in different ways and times, by two Franciscans, John Duns Scotus and Francesco Della Rovere.” The Paduan scholar goes as far as to say that if the Middle Ages was a Christological period, above all in the 13th and 14th centuries, then the first part of the Renaissance was all for Our Lady. Perhaps, even though they were difficult years, Mary went to take up a more and more significant role as Mother of the Christian People.
Ho trovato finalmente un filmato che rende vagamente l’idea di cosa siano le istallazioni sonore di Sunsan Philipsz, la vincitrice del Turner Prize 2010 di cui avevamo parlato alcune settimane fa.
Non mi pare paragonabile alla retrospettiva di Anish Kapoor dell’anno scorso alla Royal Academy, ma la prima mostra di James Turrell da Gagosian vale certamente la gita a Londra. Entrare in “Dhātu” (2010, immagini qui sopra) è davvero una di quelle esperienze che non si dimenticano facilmente. Lo sprovveduto che scrive non ha poi potuto entrare in “Bindu Shards” (2010, qui sotto), un’opera nella quale si entra come in apparecchio per esami TAC per “trip” di un quarto d’ora nei colori (e suoni) di Turrel. Occorreva prenotarsi per tempo qui, ma a quanto pare è già tutto esaurito fino alla fine della mostra il 1o dicembre. A questo punto c’è da sperare che qualche genio la riesca a portare in Italia (magari alle Stelline di Milano?).
Ho visto l’esposizione alla Tate Britain per il Turner Prize 2010. L’artista più genuina e meno cervellotica mi è sembrata la scozzese Susan Philipsz. Ho trovato la sua istallazione sonora “Lowlands”, semplice ma commovente. Quello qui sotto è il testo del lamento scozzese del XVI secolo cantato dall’artista. È il canto del fantasma di un uomo morto affogato, che torna a trovare la sua amata. La storia di un amore spezzato, di una bellezza perduta. Di una malinconia tipicamente scozzese, ma anche tipicamente umana.
All green and wet with weeds so cold,
Lowlands, lowlands, away my John,
Around his form green weeds had hold,
My lowlands away
«I’m drowned in the lowland seas,» he said,
Lowlands, lowlands, away my John,
«Oh, you an’ I will ne’er be wed,»
My lowlands away
«I shall never kiss you more,» he said,
Lowlands, lowlands, away my John,
«Never kiss you more – for I am dead,»
My lowlands away
«I will cut my breast until the bleed,»
Lowlands, lowlands, away my John,
His form had gone – in the green weed,
My lowlands away
Conoscevo un po’ come lavorano quelli di Christie’s da quanto scritto da Sarah Thornton. Ma questa mattina, nella loro sede di Londra, ho capito davvero che questi hanno davvero delle idee. Venerdì prossimo (15 ottobre 2010) ci sarà l’asta d’arte contemporanea e quella d’arte italiana. Bene, qui sopra vedete come era allestita la sala principale dell’esposizione dei lotti. In primo piano un “Cavaliere” di Marino Marini (1955), alle sue spalle “I am become death, shattered of worlds” di Damien Hirst (2006). A parte il fatto che non avevo mai visto nulla di più bello fatto da Hirst, trovo che il cortocircuito con Marini funzioni benissimo. In realtà funziona proprio perché non si tratta affatto di cortocircuito, ma di un sapiente contrappunto tra due linee di canto commensurabili. Il dialogo tra le due opere è al contempo scenografico, poetico e sconvolgente. Al di là del prezzo a cui verranno battute (scrivono che Hirst sia in caduta libera, vedremo come andrà), la scelta dei curatori di Christie’s ci lascia comunque un’ipotesi critica sui cui chi ne sa potrà lavorarci.
Detto questo se venerdì qualcuno mi dotasse di qualche milione di sterline mi presenterei alla casa d’aste con un altro obiettivo: “Zwei Bäume” di Gerhard Richter (1987) che vince il premio “No Name 2010” per il miglior pezzo messo all’asta nell’anno in corso. Ci sarebbe anche un altro colpo fenomenale fa fare, però questa volta alla prossima asta di New York, i cui quadri sono esposti in questi giorni a Londra. Si tratta di “Zwei Kerzen” sempre di Richter (1982). Altra cosa sull’asta di New York: se volete aggiudicarvi “No.18 (Brown and Black on Plum)” di Mark Rothko del 1958, andate a vederlo di persona, perché a me ha dato l’impressione di essere in uno stato di conservazione non esaltante.
Ultima curiosità: all’asta d’arte italiana c’è anche la divertente serie di Gabriele Basilico “Conctat” del 1978.
Sono stato a Londra e ho visto gli ultimi quadri di Damien Hirst (dice di averli dipinti di persona). La critica li ha stroncati sonoramente (qui l’Observer e qui il Financial Times). Siccome sono senza vergogna riporto l’sms che ho scritto in risposta a un amico pittore che mi chiedeva come fossero questi quadri visti dal vivo:
Sono quadri veri. La tecnica c’è tutta. A un certo punto, poi, scompaiono teschi, squali e iguana e compare un bosco. Se è un inizio, è molto interessante.
Qui sotto invece una frase quasi shock se si pensa che a dirla è lo stesso Hirst nella conversazione riportata sul catalogo della mostra:
“I don’t like conceptual art in the end, I’ve always thought that being a painter was better than being an artist or a sculptor. I always thought painting was the best thing to do.”
Sono stato a Londra e ho visto gli ultimi quadri di Damien Hirst (dice di averli dipinti di persona). La critica li ha stroncati sonoramente (qui l’Observer e qui il Financial Times). Siccome sono senza vergogna riporto l’sms che ho scritto in risposta a un amico pittore che mi chiedeva come fossero questi quadri visti dal vivo:
Sono quadri veri. La tecnica c’è tutta. A un certo punto, poi, scompaiono teschi, squali e iguana e compare un bosco. Se è un inizio, è molto interessante.
Qui sotto invece una frase quasi shock se si pensa che a dirla è lo stesso Hirst nella conversazione riportata sul catalogo della mostra:
“I don’t like conceptual art in the end, I’ve always thought that being a painter was better than being an artist or a sculptor. I always thought painting was the best thing to do.”