Nella bellissima mostra curata da Thomas Deman alla Fondazione Prada intitolata L’image Volée (qui trovate la recensione di @robedachiodi) c’è un’opera che mi ha commosso in modo particolare. Si intitola Purloined, Francis Bacon’s Portrait ed è stata realizzata da Sophie Calle. Il protagonista dell’opera è un ritratto di Francis Bacon realizzato nel 1952 da Lucian Freud, di proprietà della Tate Britain e che è stato rubato nel 1988 alla Neue Nationalgalerie di Berlino. L’opera è composta da una fotografia del cassetto dove il quadro veniva conservato a Londra e dalla trascrizione delle testimonianze dei custodi della Tate che avevano “vissuto” accanto al ritratto. Il testo ricorda quello stile da “soliloquio collettivo” che abbiamo imparato a conoscere leggendo i libri di Svetlana Aleksievic, Premio Nobel 2015. Lineare, di una poesia struggente. Avrei voglia di tradurlo, ma, ahimè, ci vorrebbe il tempo che non ho. Ve propongo così come il mio iPhone l’ha fotografata (cliccare per ingrandire). È un breve saggio sulla pittura di Freud, sì. Ma anche sulla dimensione affettiva delle immagini e, forse, sulla centralità del volto di Bacon per l’immaginario del Novecento.
Io, per quello che può contare, non ho dubbi: Jenny Saville è una grande artista. Orfani di Lucian Freud, probabilmente, è la pittrice più importante in circolazione che si dedichi alla figura umana (ve ne vengono in mente altri?).
La mostra al Modern Art Oxford è una retrospettiva che ripercorreà rebours le tappe più significative della carriera dell’artista scoperta da Charles Saatchi. I primi quadri sono quelli dell’ultimo triennio, mentre nell’ultima stanza sono esposte le opere dei primi anni Novanta.
Quel che balza agli occhi è lo scarto che c’è stato in questo ultimo periodo in cui il lavoro sul corpo umano, da una sorta di ossessione per i volumi della carne, qui debordante, là ferita e deturpata, si trasforma in una riflessione sulla linea e sul movimento. Nel video in mostra, come aveva fatto nell’intervista che avevo segnalato, la Saville dice che ciò che le ha fatto cambiare marcia è stata l’esperienza della maternità. Dopo aver avuto due figli a distanza ravvicinata, l’artista racconta che è mutata in lei la percezione del proprio corpo. I nuovi quadri, infatti, sono di nuovo degli autoritratti nei quali compaiono, questa volta, anche i suoi figli. Ma non solo. Il riferimento ai grandi dell’arte antica (Leonardo e Tiziano) diventa esplicito. Come se, per esprimere il proprio sguardo sul corpo umano, la Saville avesse bisogno di tornare a questi grandi. Come se, per dire la scoperta della maternità, avesse bisogno di tornare là dove più compiutamente il rapporto tra madre e figlio era stato messo in scena. Questo aspetto è reso ancor più chiaro dallo spin off della mostra al Ashmolean Museum dove due sue opere sono esposte nella sala della pittura italiana del Rinascimento.
Il confronto con questi grandi sembra riuscirle senza cadere nel ridicolo, secondo, perché riesce a non dimenticarsi neppure della lezione di Bacon, ma forse ancor di più di quella di Picasso.
L’immagine qui sopra è un particolare del grande quadro “Mirror” che vedete qui sotto per intero. Il riferimento esplicito è alla Venere di Urbino di Tiziano.
A year ago, in his blog, Jonathan Jones wondered (he said without irony) if the English painter was really an artist or she was nothing more than a strange phenomenon of feminist activism.
For what it’s worth, I have no doubt: Jenny Saville is a great artist. Orphans of Lucian Freud, she is probably the most important painter in circulation, which is devoted to the human figure (you can think of others?).
The exhibition at Modern Art Oxford is a retrospective covering a rebours the most significant stages of the career of the artist discovered by Charles Saatchi. The first pictures are those of the last three years, while the last room displays works of the early nineties.
What leaps to the eye is the gap that there was in this last period in which the work on the human body, a sort of obsession with the volumes of meat, overflowing here, wounded and disfigured there, it becomes a meditation on line and movement. In the video in exhibition, as she had done in the interview that I had indicated, Saville says that what changed her way of working has been the experience of motherhood. After having two children at close range, the artist says that perception of her body has changed in her. The new paintings, in fact, are still self-portraits in which, this time, even her children appear. But not only. The reference to the great ancient art (Leonardo and Titian) becomes explicit. As if to express her vision of the human body, Saville needed to go back to these great masters. As if to express the discovery of motherhood, she needed to go back there where more fully the relationship between mother and son had been staged. This is made even clearer by the spin-off show at the Ashmolean Museum, where two of his works are exhibited in the hall of Italian Renaissance painting.
The comparison with these great masters seems to succeed without ridicule. She can also not even forget the Bacon’s lesson, but perhaps even more Picasso’s one.
The image above is a detail of the big painting “Mirror” that you see below in full. The explicit reference is the Venus of Urbino by Titian.
Tra alcuni giorni aprirà una retrospettiva di Jenny Saville al Modern Art Oxford. È la prima volta che un’istituzione pubblica inglese dedica una mostra alla pittrice resa famosa da Charles Saatchi prima e da Larry Gagosian poi. Rachel Cooke sul Guardian le dedica un lungo articolo che vi consiglio di leggere. Mi hanno colpito tre passaggi in particolare:
«Non sono contro l’arte concettuale. Non penso che la pittura debba essere rivalutata. L’arte rispecchia la vita, e le nostre vite sono piene di algoritmi, così molte persone vogliono fare arte come se fosse un algoritmo. Ma il mio linguaggio è la pittura, e la pittura è l’opposto. C’è qualcosa di primitivo in essa. Il bisogno di fare segni è innato. È per questo che quando si è bambini si scarabocchia».
Abbiamo parlato annche del lavoro di altri. Le piacciono sia Gerhard Richter alla Tate Modern che Lucian Freud alla National Portrait Gallery. «È triste che Freud non dipingerà mai più. Ma sto cercando di capire se sia un grande artista o un grande ritrattista. In fondo, perché non dovrebbe essere un grande artista? Ma quando guardo Richter, me lo domando. Richter è senza dubbio un grande artista nel senso pieno della parola».
Recentemente, ha lavorato sul tema della maternità (ha due bambini picoli). «La gente mi diceva [prima che avessi figli] che non sarei stata in grado di impegnarmi nel lavoro una volta che sarebbero nati». Chi erano? Donne? «No!» ride. «Erano uomini. Comunque si sbagliavano. Ora mi godo il mio lavoro dieci volte di più di prima. È ancora una necessità, qualcosa che devo fare. Ma sono più libera da preoccupazioni».
Tra il 2010 e il 2012 Jenny Saville ha lavorato proprio sul tema della maternità. Si è fatta fotografare incinta con il primo figlio in braccio e poi con entrambi i figli. La citazione esplicita è del cartone di Leonardo della National Gallery. Il risultato è la serie “Reproduction” di cui qui sotto ci sono grandi disegni. A me paiono di una bellezza straordinaria. Mi colpisce come la Saville abbia sentito il bisogno, nel rappresentare il rapporto con i suoi figli, di rendere il senso di movimento. Come se il rapporto tra madre e figlio fosse necessariamente dinamico e fonte di un’energia centrifuga. Ed è proprio questa energia che diventa il vero soggetto del quadro.
In a few days will open a Jenny Saville’s retrospective at Modern Art Oxford. It is the first time that a British public institution devoted an exhibition to the painter made famous by Charles Saatchi and Larry Gagosian. Rachel Cooke in The Guardian devotes a long article that I recommend you read. Here are three passages in particular:
«I’m not anti conceptual art. I don’t think painting must be revived, exactly. Art reflects life, and our lives are full of algorithms, so a lot of people are going to want to make art that’s like an algorithm. But my language is painting, and painting is the opposite of that. There’s something primal about it. It’s innate, the need to make marks. That’s why, when you’re a child, you scribble».
We talk, too, about other people’s work. She loved both Gerhard Richter at Tate Modern and Lucian Freud at the National Portrait Gallery. «It’s sad he [Freud] is not going to make any more paintings», she says. «But I’m trying to work out whether he can be seen as a great artist, or whether he is a great portrait painter. I mean, why shouldn’t he be a great artist? But then you look at Richter, and you wonder. Richter is definitely a great artist in the fullest sense of the word».
More recently, she has been inspired by motherhood (she has two small children). «People told me [before I had children] that I wouldn’t be able to engage with my work in the same way once they were born». Which people? Were they women? «No!» She laughs. «They were guys. Anyway, they were wrong. I enjoy the work 10 times more now. It’s still a necessity to me, something I have to do. But I’m more carefree. Partly, it’s watching them – the total freedom they have, scribbling across paper, the way they paint without any need for form. I thought: I fancy a bit of that myself».
Between 2010 and 2012 Jenny Saville has been working on the theme of motherhood. She has been photographed when she was pregnant with her first child in her arms and then with both children. The explicit mention is of Leonardo’s cartoon at the National Gallery. The result is the series “Reproduction” (below). I think they are extraordinarily beautiful. It strikes me as Saville felt the need, representing the relationship with his children, to evoke a sense of movement. As if the relationship between mother and son were necessarily dynamic and source of centrifugal energy. It is this energy that becomes the true subject of the picture.
Sono stato a vedere “A Bigger Picture”, la mostra di David Hockney alla Royal Academy di Londra. Era l’ultimo giorno di apertura e ho dovuto fare un’ora di coda per entrare. Ma ne è valsa la pena. Mi hanno colpito alcune cose. Sintenticamente:
1) L’energia creativa che può avere un’artista a 75 anni. La forza di reggere le immense pareti della Royal Accademy con tele giganti o infinite serie di disegni uno diverso dall’altro. La controllata bulimia pittorica che si può permettere di ripetere uno stesso soggetto all’infinito senza per questo stancare chi guarda. È un’energia che due grandi (più grandi di lui) come Lucian Freud e Gerhard Richter mi sembrano non abbiano.
2) La questione dei disegni con l’iPad. Visto il risultato lo strumento mi pare assolutamente marginale. È vero: sono più belli visti su schermo piuttosto che stampati. Ma in fondo lo schermo è come una lightbox, un po’ un effetto speciale.
3) La polemica con Damien Hirst. È stato certamente un trucco promozionale (che ha funzionato). Ha funzionato soprattutto perché la mostra è bellissima. Al di là dell’argomento futile (Hockney fa le opere con le sue mani, Hirst no), avendo visto entrambe le mostre posso dire che questo match lo ha vinto Hockney. Bisogna dare a Hirst quel che è di Hirst: ha fatto delle opere che difficilmente si dimenticheranno. Tuttavia a questo punto della sua carriera mostra un momento di stanca (questo non vuol dire che la mostra della Tate non sia una grande mostra).
4) Mi colpisce come un’istituzione potenzialmente parruccona come la Royal Academy dimostri più coraggio della giovanilistica Tate Modern. Hockney dice che è stato contattato per questa mostra nel 2007 e che gli è stato chiesto chiesto esplicitamente di non fare una retrospettiva: volevano opere nuove. Se si va alla Tate Modern, invece, sembra che quella della retrospettiva sia una costante. Negli ultimi anni ho visto: John Baldessarri, Gerhard Richter, Yayoi Kusama e Damien Hirst. Tutti autori viventi a cui è stata chiesta una retrospettiva. Alle opere nuove era dedicata, sì e no, l’ultima stanza. È una scelta più che ragionevole per un’istituzione come la Tate, ma certamente meno coraggiosa. È vero anche che non tutti gli artisti hanno l’energia di Hockney.
5) L’ultima cosa che direi è questa: mi è capitato poche volte di uscire da una mostra d’arte contemporanea (e di pittura!) con il buon umore con cui sono uscito dalla Royal Accademy. Sarò forse sentimentale. Ma è stato come farsi una gita in campagna. Lontano dal “logorio della vita moderna”, direbbe la pubblicità del Cynar, guardando l’opera di Hockney si è costretti a una dimensione di contemplazione a cui non siamo abituati. Non so se sia un’arte da pensionati (ma comunque di altissimo livello). No, non penso sia questo. Certo fa impressione che ci sia una mostra così serena in questo cupo 2012.
Ecco alcuni disegni realizzati con l’iPad tratti dalla serie “The Arrival of Spring in Woldgate, East Yorkshire in 2011 (twenty-eleven)”:
Jonathan Jones si lamenta dell’enfasi con cui in questi giorni si sta celebrando David Hockney come il più grande artista britannico vivente (qualcuno addirittura dice “del mondo”). Dice: morto Lucian Freud si è subito incoronato Hockney come il più grande. Ma perché tutta questa fretta? Dice Jones:
I find it quite tasteless (and I’m sure he does, too) that David Hockney is widely described as Britain’s “greatest living artist” now Lucian Freud is gone. Hockney has inherited the job, it seems. What is the basis for this assumption? It comes down to two things, apparently: one, Hockney is no longer young; and two, he’s a craftsman who makes his paintings with his own two hands.
Eppure, lui dice Freud non era il più grande solo perché era un vecchio pittore:
He did not earn his extraordinary reputation by being a safe pair of hands. He was not just a decent craftsman who worked patiently until he became great. He was a profoundly original, scathing, cruel, sensual, serious observer of the human condition. His art attained a profundity that was paralleled in modern British culture by, say, the plays of Harold Pinter, and the poetry of T.S.Eliot.
E conclude: lasciamo ancora un po’ vacante il posto di “più grande artista inglese vivente”, giusto per non prendere cantonate.
Stiamo parlando del più grande artista inglese vivente [Hockney, ndr.], Lucien Freud non regge il confronto , e Damien Hirst è di un’altra generazione e anche troppo coccolato per essere così veramente trasgressivo. La capacità di David Hockney di rinnovarsi, di cambiare rotta, di sperimentare linguaggi nuovi lo rende un artista assolutamente moderno. Ha usato la fotografia in tempi non sospetti inventando immagini memorabili. E’ un grandissimo disegnatore che può stare tranquillamente al fianco di Degas. Un maestro per le generazioni di giovani artisti, Alex Katz vicino a lui sparisce. Tutti i quadri californiani degli anni 60 dalle piscine ai ritratti in ambienti sono lo specchio preciso di un epoca. I quadri immensi del Grand Canyon hanno una potenza visiva struggente , mischia la cultura pop con il cinema. Le vedute dipinte en plein air nello Yorkshire dove lui è nato fino al Bigger painting per la Royal Academy sono una riflessione di un vecchio che torna bambino, in effetti l’elenco potrebbe essere anche troppo lungo: Picasso, Ocean Drive , il teatro , il nudo maschile…
Si chiama Charlie Lumley e oggi ha 79 anni. È il soggetto di questo bellissimo ritratto che Lucian Freud dipinse nel 1952 e che il mese prossimo andrà all’asta da Sotheby’s per almeno 4 milioni di sterline. Lumley ha raccontato all’Independet che durante il periodo in cui posò per il dipinto dovette fare da “baby sitter” al grande pittore inglese. A chiederglielo furono gli amici di Freud preoccupati per la sua incolumità a causa delle difficoltà tra l’artista e Lady Caroline Blackwood, alora sua moglie. “Francis Bacon – racconta Lumley – mi disse ‘per amor del cielo tienilo d’occhio perché temo che salti giù dal tetto’. Così dovetti fargli da baby sitter”.
“Freud non smetteva mai di parlare – continua Lumley – Conversava su qualsiasi argomento. Aveva una memoria incredibile. Poteva discutere di boxe – di cui io all’epoca parlavo molto – ma Dio solo sa lui cosa sapesse di boxe…”.
Divertente e non scontato il ricordo di David Hockney su Lucian Freud raccolto dall’Evening Standard. Fu Freud a chiedere a Hockney di posare per lui, ma per accettare il secondo mise come condizione che Freud facesse altrettanto per lui. “Accettai – racconta Hockney – nonostante sapessi che non mi avrebbe dedicato molto tempo e io avrei dovuto dedicarne molto a lui (…) Lavorava molto lentamente. Sapevo che aveva abbandonato alcuni ritratti e siccome gli stavo dedicando molto tempo non volevo che accadesse anche con il mio. Così cooperai. Gli piaceva una certa mia giacca e una camicia blue. Indossavo sempre quelle. Ero affascinato dal suo metodo di lavoro. (…) Gli dissi che avrei voluto fumare mentre posavo. Accettò ma mi chiese di non accennare alla cosa con Kate Moss che era il suo altro soggetto di quel periodo. Vidi la Moss solo assieme a Lucian e ci fumammo una sigaretta insieme fuori da un ristorante”.
A parte questi particolari Hockney rivela l’amore di Freud per i disegni di Rembrandt che erano ritratti di persone dal vero e descrive in modo dettagliato il modo in cui Lucian mescolava i colori sulla tavolozza (ne usava otto e non chiudeva mai i tubetti con il tappo).
Non ne ho la certezza matematica, ma penso che Hockney sia stato l’unico pittore ritratto da Freud dopo Francis Bacon.
Ultima cosa: Hockeny dice che Freud quando posò per lui si addormentò…