La prima cosa da dire è che non è una mostra di Fontana ma su Fontana. E non è una differenza da poco. Il motivo è semplice: tutti e nove gli “ambienti” presenti all’Hangar per la mostra Lucio Fontana -Ambienti/Environments all’Hangar Bicocca di Milano, a cura di Marina Pugliese, Barbara Ferriani e Vicente Todolí, sono ricostruzioni, seppur filologiche, di interventi andati perduti. Questo, entrando in mostra, occorre averlo chiaro (e i curatori non lo nascondono) perché ci permette di comprendere un sottile paradosso. Questa esposizione restituisce alla nostra generazione Lucio Fontana per il precursore assoluto che è stato rispetto quella grande arte americana che ha riflettuto sulla luce e sullo spazio. James Turrell, Robert Irwin, Dan Falvin qui appaiono definitivamente come arrivati dopo. Le date non mentono: i neon di Fontana sono già del 1948-49, quando Dan Flavin portava ancora i pantaloni corti.
Ma dove sta il paradosso? Il punto è che senza gli americani a nessuno, probabilmente, sarebbe venuto in mente di mettere in atto una macchina così raffinata e costosa per “resuscitare” queste opere perdute. E senza di loro non potremo comprendere quanto davvero l’artista italiano sia arrivato prima.
Su questo Fontana non aveva dubbi. E lo rivendicava con forza. Una volta, rimproverando gli americani di sciovinismo e provincialismo, raccontò a Carla Lonzi, un dialogo avuto con un critico statunitense. «Ma sì, ma lei… lo spazio, ma cosa vuole, lei italiano, lo spazio… noi americani, i deserti dell’Arizona, lì…», fece quello. E l’altro: «Guardi, io non sono italiano, io sono argentino (era nato a Rosario, ndr) e ho la pampas che è dieci volte più grande dei deserti dell’Arizona… Ma lo spazio non è la pampas, lo spazio è un altro nella testa, capisce?».
Il problema, però, sta nel capire perché per Fontana non fosse importante che queste opere rimanessero, come invece è per i suoi colleghi d’oltreoceano. Perché non solo non si preoccupò che fossero conservate, ma nemmeno lasciò indicazioni su come istallarle nuovamente. È un enigma che la mostra non risolve. O forse l’enigma non c’è e per Fontana la mostra all’Hangar non andava fatta.
Niente Kounellis, niente Kapoor, niente Bill Viola. Non ci sarà neanche il tema della Genesi. Ci saranno, probabilmente, Josef Koudelka, Lawrence Carroll, Lucio Fontana (che sarebbe stato ripescato dopo il ritiro dell’artista colombiana Doris Salcedo) e un altro artista che resta ancora avvolto nel mistero. A riferirlo è il Corriere del Veneto che cita tra le sue fonti il blog il Francesco Colafemmina. Come andranno veramente le cose lo si saprà solo il 14 maggio, giorno della presentazione ufficiale del Padiglione della Santa Sede alla Biennale di Venezia 2013.
Le cose, evidentemente, non sono andate come avrebbe voluto il cardinale Gianfranco Ravasi che dal 2008 si dice convinto della necessità della presenza della Santa Sede alla maggiore manifestazione di arte contemporanea del mondo.
Josef Koudelka e Lawrence Carroll sono certamente grandi nomi, magari non quelli che ci si sarebbe aspettati viste le dichiarazioni rilasciate in passato da Ravasi. Altrettanto certo è che la proposta di un tema non è stato raccolta dal mondo degli artisti. Nulla si sa sulle ragioni che avrebbero portato Doris Salcedo a rinunciare alla sua partecipazione. Il Corriere dice che si era pensato di portare Shibboleth, l’opera che l’artista istallò nel 2007 nella Turbin Hall della Tate Modern di Londra. Ma davvero si pensava di riproporre quella stessa opera negli spazi ristretti dell’Arsenale? Io ne dubito fortemente. La possibilità che artisti di caratura mondiale accettino di coinvolgersi con una committenza così prestigiosa (ma così esigente) non è affatto scontata. Anzi.
E la Via Crucis di Lucio Fontana? A me pare una buona idea, anche se di ripiego. Sottolineare da una ribalta così importante, che quello che viene considerato il maggior artista italiano del secondo Novecento ha realizzato una serie di opere a tema esplicitamente religioso, è comunque un’operazione interessante. Sulla polemica circa l’eventuale acquisto dell’opera da parte della Santa Sede e i relativi costi, non so cosa dire: portare all’Arsenale quella Via Crucis non impone che l’opera venga comprata. Ma forse la sovrapposizione delle due operazioni non era prevista.
Tutto questo ammesso e non concesso che il Corriere sia bene informato.
Un modo per parlare della mostra su Edgar Degas alla Fondazione Beyeler di Basilea è partire dalla fine. E cioè dalla sala che segue l’ultima stanza della mostra. Qui sono esposte tre opere di Francis Bacon (In memory of George Dyer, 1971; Portrait of George Dyer riding a bicycle, 1966 e Sand dune, 1983), una di Auguste Rodin (Iris, messagère des dieux (figure volante), 1890/91) e una di Lucio Fontana (un Concetto spaziale in terracotta simile a questo). L’effetto “doccia scozzese” che procura questa sala aiuta, con il suo shock, a toglierci di dosso la lettura che saremmo portati a sulle opere dell’ultimo Degas (tema della mostra). Invece guardare Degas con gli occhi di Bacon è un esercizio salutare perché spoglia il pittore francese da una possibile lettura “piccolo borghese”. Non è un mistero che Bacon amasse Degas e lo considerasse uno dei suoi artisti di riferimento. Ne parlò diverse volte con David Sylvester e, in un’occasione, Bacon indica come il miglior Degas proprio quello dei pastelli a cui la mostra di Basilea è quasi interamente dedicata:
«The very great Degas are the pastels, and don’t forget that in his pastels he always striates the form with these lines which are drawn through the images and in a certain sense both intensify and diversify its reality. I always think that the interesting thing about Degas is the way he made line throught the body: you could say the he shuttered the body, in a way, shuttered the image and then he put an enormous amount of color through these lines. And having shuttered the form, he created intensity by this colour through the flesh».
Quando poi la National Gallery nel 1985 invitò Bacon a curare una mostra della serie “The artist’s eyes”, in cui un artista contemporaneo faceva una selezione delle opere della collezione, sulla locandina e sulla copertina del catalogo ci finì proprio un pastello di Degas. Il curatore Martin Schwander in catalogo lo dice chiaramente: uno degli artisti che condivise con Degas la visione del corpo umano come il campo di battaglia di forze invisibili fu Francis Bacon. Sul rapporto tra i due pittori, tra l’altro, ha scritto anche Martin Hammer in saggio frutto di una conferenza alla Tate Britain lo scorso 24 novembre 2011. Il testo lo trovate qui.
In mostra in almeno un punto i ruoli sembrano invertirsi: è Degas a guardare Bacon:
Un quadro davvero forte e profondamente novecentesco. Forse non è un caso che nasca da una fotografia scattata dallo stesso Degas:
Comunque, se avessi potuto portarmi a casa un quadro mi sarei portato a casa questo qui sotto. Quella torsione michelangiolesca e quei colori pop sono davvero irresistibili.
One way to talk about the exhibition on Edgar Degas at the Beyeler Foundation in Basel is starting from the end. I mean from the room that follows the last room of the exhibition. Here are exhibited three works by Francis Bacon (In memory of George Dyer, 1971; Portrait of George Dyer riding a bicycle, 1966 e Sand dune, 1983), one by Auguste Rodin (Iris, messagère des dieux (figure volante), 1890/91) and one by Lucio Fontana (a Concetto spazialesimilar to this one). The effect of “cold shower” that provides this room helps us, with his shock, to take off the reading that would be carried on the works of the last Degas (theme of the show). Instead looking Degas through Bacon’s eyes is a healthy exercise that strips the French painter from a possible “petty bourgeois” reading. It is no secret that Bacon loved Degas and considered him one of his artists to reference. It is no secret that Bacon loved Degas and considered him one of his artists to reference. He spoke several times with David Sylvester and, on one occasion, Bacon says:
«The very great Degas are the pastels, and don’t forget that in his pastels he always striates the form with these lines which are drawn through the images and in a certain sense both intensify and diversify its reality. I always think that the interesting thing about Degas is the way he made line throught the body: you could say the he shuttered the body, in a way, shuttered the image and then he put an enormous amount of color through these lines. And having shuttered the form, he created intensity by this colour through the flesh».
Then, when the National Gallery in 1985 Bacon invited to curate an exhibition of the series “The artist’s eyes”, in which a contemporary artist made a selection of works from the collection, on the poster and on the cover of the catalog was placed right a pastel by Degas. The curator Martin Schwander in catalog makes it clear: one of the artists who shared with Degas the vision of the human body as the battleground of invisible forces was right Francis Bacon. On the relationship between the two artists, among others, also Martin Hammer wrote essay fruit of a conference at Tate Britain on 24 November 2011. The text can be found here.
On show at one point the roles seem reversed: it is Degas to look Bacon:
A picture really strong and deeply twentieth century. Perhaps it is no coincidence that spring from a photograph taken from Degas himself:
However, if I could bring home a painting I would have taken home this below. That Michelangelesque twist and those pop colors are truly irresistible.
La cosa più interessante della mostra “Christian Stein – una storia dell’arte italiana” al Museo Cantonale d’Arte di Lugano è il filmato curato da Bruno Corà. In mostra ci sono certamente delle opere bellissime, ma per capire chi era Christian Stein, a parer mio, è necessario guardare le immagini della sua casa torinese di piazza Vittorio Veneto che il filmato mostra in alcuni piani sequenza mozzafiato. Queste immagini, infatti, mostrano non solo lo straordinario gusto della Stein, ma anche come la semplicità e la poeticità dell’arte povera (passatemi il termine in po’ sbrigativo in questo caso) venga esaltata se collocata in un contesto quotidiano. Nelle stanze del museo alcune opere sembrano perse nella loro enigmaticità, nella casa assumono un gusto più feriale, più familiare. Ecco qui qualche immagine tratta dal catalogo della mostra.
Ora qualche osservazione più puntuale sulla mostra:
1) bellissima la terracotta di Fontana nella prima sala
2) perché portare due opere di Kounellis che prevedono l’accensione di fiammelle/candele se poi per ragioni di sicurezza queste devono rimanere spente?
3) l’igloo con albero di Merz è uno dei pezzi migliori: con le sue lastre di vetro sberciate riesce a esprimere un equilibrio tutto suo
4) Kounellis è quello che esce peggio dalla selezione, Paolini (che non amo) invece è sovrarappresentato, ma stando alle immagini di casa-Stein si capisce benissimo che era il prediletto dalla gallerista