Ieri è morto Paolo Rosa, uno dei fondatori di Studio Azzurro. Ho avuto la fortuna di conoscerlo a fine luglio, quando portò a Casa Testori una giovane artista, Elisabetta Falanga, proponendo di usare una stanza della villa di Novate per una sua istallazione. Ero andato a incontrarlo per portargli una copia di Tracce su cui avevo scritto un articolo sulla Biennale di Venezia. Nel pezzo parlavo anche del Padiglione della Santa Sede e in particolare mi soffermavo sulla sua opera realizzata con, tra l’altro, i detenuti del carcere di Bollate. Trovo che la sua opera sia la più significativa tra le cose proposte da Ravasi & Co.
Quel giorno a Novate ha avuto la pazienza di rispondere alle mie domande sul perché e il per come della sua partecipazione all’azzardo vaticano nel campo aperto dell’arte contemporanea. Raccontava che era stato invitato al Festival della spiritualità di Torino. Giuseppe lo prendeva in giro chiamandolo monsignor Rosa e lui rispondeva con il suo sorriso gentile.
Mi colpirono due cose. La prima è la semplicità con cui raccontava la sua adesione all’invito vaticano, diceva: «La cosa che mi ha convinto è stata che hanno voluto fare un padiglione di arte contemporanea e non di arte sacra». Si diceva, lui laico, lusingato dall’invito da parte del più grande committente della storia dell’arte. Ma questo gliel’avevo sentito dire già in alcune interviste, mentre la seconda cosa era ancor più sorprendente e confermava un’intuizione che avevo scritto nel mio pezzo sulla Biennale. Lui raccontava di un rapporto cordiale nato con la curatrice del padiglione Micol Forti. L’avrebbe incontrata il giorno successivo per progetti futuri. Tra loro era nata una stima reciproca e poi un’amicizia. Penso che questo sia il vero esito positivo dell’operazione di Ravasi: hai voglia a sanare la ferita tra Chiesa e arte contemporanea con i proclami delle università pontificie… Occorre imparare a conoscersi e, se Dio vuole, diventare amici.
Paolo Rosa è morto ieri a Corfù a 64 anni. L’ho conosciuto mentre cercava di aiutare una giovane artista. Mi è parso una persona curiosa, seria e di una sensibilità profonda. Diceva che per lui l’arte oggi non può non porsi il problema della partecipazione del pubblico. Per lui l’opera era un evento, un evento sociale, capace di mettere in rapporto le persone. Penso sia un’intuizione giusta.
Di lui ricorderò gli occhi azzurri e la mia mano che tocca quella del carcerato di Bollate nella penombra del Padiglione vaticano.