DONINELLI: LA CATTEDRALE DI LUGANO? È LA PENSILINA DI BOTTA

LUGANO

Oggi sul Giornale del Popolo pubblico due email ricevute nei mesi scorsi da Luca Doninelli che parlano del suo ultimo libro “Cattedrali”. Questa di seguito è la seconda nella quale parla di Lugano e della Pensilina dei bus di Mario Botta.

Siracusa, 6 -11- 2010

Caro Flower,
ok, ci sto. Accetto anche quel “ma allora”, quando dici: ma allora, la cattedrale di Lugano qual è?
Cominciamo col dire che non tutte le città hanno una cattedrale. O, comunque, io non l’ho trovata. Roma, per esempio. San Pietro? Il Colosseo? Il Palazzo dell’Arte all’Eur? Oppure Torino. La Mole? Figuriamoci: la Mole crea il deserto intorno a sé, altro che cattedrale. Oppure è una cattedrale di silenzio (pfui alle cattedrali del silenzio). Piuttosto, il Museo dell’Automobile. E Venezia? Una città-museo, una città senza abitanti che cattedrale può avere? Non certo S. Marco, che racconta storie del passato senza dire nulla sul presente. Piuttosto, S. Giovanni e Paolo, anzi, meglio: l’isola-cimitero di S. Michele (è un’idea, se ci sarà un Cattedrali 2: la vendetta S. Michele ci sarà).
Vedi come vengono le idee? Parlandone, così come ti sto parlando io.
Veniamo a Lugano. Prima di tutto bisogna capire come si presenta Lugano per chi viene dall’Italia, da Milano o da qualsiasi altra città. L’Italia è la terra delle città par excellence, perciò chi è l’italiano all’estero (e ti assicuro che per noi italiani Lugano è “estero” non meno di Los Angeles)? L’italiano all’estero è un uomo che porta dentro di sé un’idea per così dire molto “compatta” di città: un centro storico (spesso antico e monumentale), una fascia intermedia residenziale, una periferia popolare, dove le abitazioni sono contigue alle aree industriali, là dove ci sono queste aree.
Bada bene: non è importante che le cose stiano davvero così, perché a dire il vero le cose NON stanno così, nemmeno in Italia. Prova a girare a piedi, quartiere per quartiere, una città come Milano e ti accorgerai quanto è difficile conoscerla davvero.
Tuttavia quello che conta, più della città reale, è la città mentale: e la città mentale dell’italiano è quella che ti ho detto. E’ quello che crediamo essere il celebre paesaggio urbano italiano: un paesaggio che dipende molto più di quanto si pensi dal nostro modo di fotografarlo e dall’abitudinarietà del nostro modo di guardarlo. Basta guardarlo in un altro modo, basta descriverlo secondo altri criteri, e anche il paesaggio cambia.
Dunque, come appare Lugano agli occhi del visitatore italiano? La prima impressione è quella di una città diffusa, quasi mimetizzata nel paesaggio lacustre (o forse è il paesaggio ad essersi mimetizzato nella città), di una città meno compatta di quelle italiane, anche quando adagiate in paesaggi similari – come per esempio Verbania (dove i tre centri che la compongono restano perfettamente distinti), o Desenzano del Garda.
Qui a Lugano l’idea di “città” si sposa meno, agli occhi dell’italiano, con l’idea di “centro” o, anche, con quella di “comunità”. Nella storia italiana la città ha assunto spesso il carattere di una consorteria, o qualcosa del genere, o forse è così che noi italiani – in questo abbastanza simili ai nostri fratelli di sangue, i francesi – amiamo pensarla.
Lugano, viceversa, appare subito diffusa, polverizzata lungo tutta la corona di colli che si apre sul lago, come se una mano avesse cosparso dall’alto, ma non uniformemente, dello zucchero a velo. Frequentandola ormai da decenni, posso dire con sicurezza che, per quanto riguarda Lugano, l’idea di comunità cittadina non regge.
Lugano è una città-crocevia di percorsi visibili ma anche invisibili, di traffici leciti ma anche illeciti, di storie limpide ma anche di storie torbide. Lugano suggerisce, insomma, l’idea del nodo, del groppo, del groviglio. Lugano è un posto dove vanno a finire storie che non sono cominciate qui, mentre è più difficile immaginare questa città come un luogo dove le cose hanno inizio (anche se conosco inizi luganesi, e molto importanti: ma, anche qui, è della città mentale che stiamo parlando).
In questa città è difficile individuare dei luoghi pubblicamente riconosciuti come tali. Il luganese appare, più che come un cittadino, come un guardiano di un territorio di passaggio, un gabelliere, un agente del dazio, un sorvegliante con l’obbligo (già l’accento luganese ce lo suggerisce, burocratico com’è, direi per vocazione fonetica) di far rispettare la legge, perché si sa che dove passa tanta gente i tipi strani germogliano come ramoscelli a primavera.
Per questo alla tua domanda rispondo: la cattedrale di Lugano c’è, ed è – e non sono certo il solo a pensarlo – la Pensilina di Mario Botta. Questo cappello quadrato, vistoso, che mostra fin dal colore il proprio destino di deperibilità, quasi già sapesse che il Tempo lo digerirà, a poco a poco, attira l’attenzione, circondato com’è da un’architettura che cerca, viceversa, di nascondere la sua provvisorietà.
La Pensilina ha in questo la sua forza, perché questa cedevolezza all’azione del tempo – già preannunciata – contrasta con le geometrie bottiane, sempre un po’ funerarie, tombali, solitamente adatte a custodire cose ferme (anche l’intervento alla Scala di Milano ha coinciso con la trasformazione del vecchio tempio piermarinianao nel definitivo museo di sé stesso). Qui la geometria-griffe del celebre architetto si scontra col brulicare della non-comunità della Pensilina, contribuendo (mi pare) ad alimentare e moltiplicare questa non-comunità, questo incrocio di percorsi.
Qui, infatti, la popolazione non comprende soltanto chi usa la pensilina per ragioni di viaggio, ma anche un popolo stanziale ma eterogeneo, giovanile ma non solo, perditempo ma non solo: la Pensilina è la cattedrale del “ma non solo”, e in questo senso rappresenta Lugano.
Inoltre il suo colore, latteo ma con una punta – si direbbe – di menta (ma su questo non giurerei, perché sono daltonico) produce sete, attrattiva, mette allo scoperto il nostro andare alla ricerca di non si sa cosa rivelando al contempo la dinamica del nostro bisogno. Qualunque sia infatti il motivo del nostro andare e venire, quello che cerchiamo è qualcosa di fresco, come un latte-e-menta, qualcosa che produca ombra, qualcosa che ci permetta di dire la più stupida ma anche la più importante delle frasi: io sono qui, oppure io sono di qui.
Cattedrale post-moderna, insomma per una città che post-moderna è sempre stata, anche quando ancora la postmodernità non esisteva e nessuno aveva mai nemmeno immaginato questa parola.

Un abbraccio,
Luca Doninelli