Praticamente è successo che l’altro giorno a Sotheby’s a Londra un quadro del pittore rumeno Adrian Ghenie, classe 1977, è stato battuto per un sacco di soldi: 3,1 milioni di sterline. Parecchio in assoluto e parecchio se si tiene conto che la stima di partenza era di 400-600mila sterline. Non male per l’asta che The Art Newspaper definisce come quella che ha segnato la fine del boom delle aste d’arte contemporanea.
Sul povero Ghenie si è scagliato sua maestà Jerry Saltz che su Facebook ha scritto cose poco lusinghiere su di lui
Not one original idea about color, surface, gesture, subject matter, scale, viscosity, nuttin’ honey. Thickish paint to seem like serious painting. Unfinished bits to let us know it’s modern and self-aware. – Every painting is pretty huge. But it could be great too. Looks a lot like art.
I have been on about how shit this artist is since the beginning; just another artist who makes art that looks like other art that art collectors buy because it looks like what other art collectors buy!)
Which is cool too I guess.
Mi sembra perlomeno ingeneroso. Almeno da quanto abbiamo visto con i nostri occhi al Padiglione Rumeno dell’ultima Biennale di Venezia. Se una cosa si può dire su Ghenie è che sa dipingere davvero bene. Ha una “padronanza del mezzo” davvero notevole. Poi, è vero, si ha l’impressione di vedere lì Bacon, qui Richter, là Polke… È una pittura all’insegna del sincretismo. Ma chi oggi è in grado di sintetizzare la lezione tutti questi grandi messi insieme in modo così credibile?
Lasciamo perdere il prezzo d’asta, chissene frega. Si vede lontano un miglio che il successo di Ghenie è creato a tavolino. Però mi pare resti una sorpresa per la pittura degli ultimi anni. Non l’artista più originale degli ultimi tempi, ma una voce profonda e intonata, dal timbro corposo e virile. Che vale la pena ascoltare.
Due giorni londinesi per un’abbuffata di mostre. A scarpinare di più sarebbe stato possibile vedere altro ma, come diceva Totò: «Ogni limite ha una pazienza». Ecco qualche appunto:
Rembrandt: The Late Works – National Gallery
Una mostra coi fiocchi. Ricca, piena di colpi di scena. La prima sala con tre straordinari autoritratti varrebbe da sola il biglietto. Il tema, l’ultimo periodo del pittore olandese, non è fortissimo – l’ultimo Rembrandt non è l’ultimo Tiziano – ma i prestiti arrivati alla National sono davvero straordinari. La Lucrezia del 1666, con quella macchia di sangue che impregna la camicetta stesa a spatolate leggere, è un’opera di una modernità sorprendente. Quel che rimane della lezione di anatomia del dottor Joan Deyman, del 1656, omaggio al Cristo morto del Mantegna, è un momento difficile da dimenticare. E poi il Rembrandt incisore: che crea la luce dosando l’inchiostro con sapienza da alchimista. E poi i ritratti, ah, i ritratti…
Anselm Kiefer – Royal Academy
Un grande classico, esposto nel migliore dei modi, in uno degli spazi espositivi più belli del mondo. L’ampiezza dei grandi saloni danno respiro alle immense opere del grande pittore tedesco. Severo, accigliato, impregnato di struggimento romantico. Kiefer gioca una partita da maratoneta solitario. Colto, coltissimo, arci-colto. Farebbe arrossire per ignoranza chiunque. La definizione più calzante che ho sentito, me l’ha detta una volta Giovanni Frangi, è quella data da Massimo Cacciari: un Van Gogh post bomba atomica. Una bomba esplosa trent’anni fa. Eppure i corvi sopra il campo di grano dipinto in questo tiepido 2014.
Giovanni Battista Moroni – Royal Academy
Un bergamasco a Londra. Col suo accento, la sua arguzia, la sua raffinata provincialità. La mostra curata da Simone Facchinetti (lo storico dell’arte più simpatico che io conosca) e Arturo Galansino, neo direttore di Palazzo Strozzi, è un piccolo gioiello che fa capire agli inglesi (e a noi turisti del ponte di Sant’Ambrogio) che quel Sarto alla National Gallery non è affatto una meteora dell’arte lombarda. Il rosa del cavaliere in rosa, l’arancione del perizoma della Crocifissione di Albino, la dolcezza del ritratto di bambina dell’Accademia Carrara. Gli sguardi della nobiltà bergamasca. L’occhio del del direttore ottocentesco della National ci aveva visto giusto.
Alibis: Sigmar Polke 1963–2010 – Tate Modern
Avevamo scritto che il 2014 sarebbe stato l’anno di Sigmar Polke. Sono cose che si scrivono un po’ così, senza prendersi troppo sul serio. Ma se una mostra come quella di Kiefer ha poco di sorprendente (sì, Kiefer è Kiefer…), quella alla Tate è in grado aprire scenari inattesi. Una mostra che riesce a mettere in discussione la gerarchia della triade dei tedeschi Richter, Kiefer, Polke (e Immendorf? Immendorf ce lo stiamo dimenticando?), dove Polke era sempre stato, forse per distrazione o pigrizia, stabile al terzo posto. Un inciso: Jonathan Jones, qualche anno fa, aveva scritto che la Germania è la nazione che ha dato di più all’arte contemporanea. Questa mostra è un nuovo tassello che conferma la tesi del critico del Guardian. Ma tornando alle classifiche: non so se Polke insidi davvero Richter, ma Kiefer certamente. Il Dall’Ombra, che ha avuto la cortesia di accompagnarmi nella scampagnata londinese, sostiene che una mostra come quella di Kiefer potrebbe far male a un giovane pittore, quella di Polke no. In che senso? Il primo può essere un muro contro cui scontrarsi. Non tanto per il grandissimo talento (quello non fa male a nessuno), ma perché non segna punti di rilancio, vie di fuga, percorsi inesplorati. Polke (non meno talentuoso, anzi, anz’anzi) invece è una rampa di lancio. Temi, materiali, tecniche. C’è una tensione alla scoperta e alla ricerca da cui non si può che imparare.
Di per sé Polke non avrebbe bisogno di riscoperte, ma con l’operazione in corso lo si vuole consegnare alla storia dell’arte come un grande del secondo Novecento come è già è stato fatto con Richter.
Entrambe le occasioni, quella del Moma e da Christie’s, saranno utili per prendere le misure del grande del pittore tedesco, registarne la lettura critica e farlo conoscere al grande pubblico.
Certo, né a New York né a Londra ci saranno capolavori indimenticabili come il monumentale ciclo Axial Age realizzato per la Biennale di Venezia del 2007 ora di proprietà di Pinault e rivisto a Punta della Dogana (Robe da chiodi dice essere una delle meraviglie dello scorso decennio), ma al Moma sembra essere ricostruita in modo abbastanza esauriente (250 opere tra quadri, foto e film) tutta la parabola del pittore.
Pittore, appunto. Come Richter ma in modo molto diverso: più sperimentatore, forse, più istintivo anche se non meno cerebrale (è possibile essere entrambe le cose nello stesso momento?).
A volerlo distruggere basterebbe dire che faceva i pallini come Roy Lichtenstein. Ma è evidente che non è così. Ha dentro molto più mistero (e non faceva solo “i pallini”). Ha una mano fenomenale, un gusto, un senso del colore che gli fa meritare questo momento di gloria.
I grandi assenti sono Damien Hirst e Jeff Koons. Erano anni che le loro opere la facevano la padrone degli stand delle gallerie più importanti. Quest’anno a Frieze Art Fair invece, no. Loro non ci sono e al loro posto in bella vista ci sono gli artisti del momento : Gerhard Richter, Ai Weiwei e Anish Kapoor. Il fatto è che questi ultimi nell’ultimo anno hanno presentato nuove opere di una certa importanza (il salto no-painting del tedesco, il Leviathan di Kapoor e la mostra alla Lisson per il cinese nominato numero 1 dell’Art Word da Art Review). I primi due no. Il 2011 per loro è stato l’anno del silenzio creativo (più per Koons che per Hirst, in verità) e così il mercato registra questa loro assenza. Le domande sono due : cosa staranno facendo di bello ? O meglio: di nuovo? Hirst riesce a far parlare di sé con gli Spot paintings (all’asta sia da Christie’s che da Sotherby’s e in mostra da White Cube), Koons invece sembra assente su tutta la linea. Tornerà o è andato in pensione come Cattelan ?
Pittura Nell’anno del suo trionfo con la grande retrospettiva nei musei di Londra, Berlino e Parigi che lo incorona come il più grande pittore vivente, Gerhard Richter abbandona i pennelli. Almeno così sembra (parzialmente almeno) dalla mostra in corso da Marian Goodman a Parigi nella quale il pittore tedesco presenta delle grandi stampe digitali attraversate la mille strisce di colore parallele. Per il resto la pittura non se la passa molto bene : nessuno ha il coraggio, la baldanza, la spregiudicatezza di fare quadri di grande respiro. Non è una novità certo. Ma quest’anno ho notato che a Londra la quantità di opere di pittura fosse più consistente rispetto agli ultimi due anni. Ci sono quindi questi due dati contrastanti : più pittura, ma più pittura stanca. Non è un caso che i due quadri più belli esposti in fiera fossero di due pittori morti : Jörg Immendorf e Sigmar Polke. Una nota : cosa succede con Cy Twombly ? Dalla fiera e dalle aste sono sparite le sue opere. Non così è per Lucian Freud. C’è un motivo ?
Scultura e altro
Ma tornando a Frieze 2011: le due opere più forti (nel senso di provocatorie) sono del duo Elmgreen & Dragset. La prima mostra un bambino abbandonato in una culla davanti a una porta della camera 69 di un albergo fuori dalla quale è affisso l’avviso “please do not disturb”. La seconda riproduce un obitorio a grandezza naturale. Da uno degli scomparti d’acciaio spuntano un cadavere di donna coperto da un lenzuolo. Si vedono solo i piedi nudi e, accanto a essi, gli effetti pesonali della donna : una collana, un paio di scarbe e un Blackberry. Meno acuti di Cattelan, ma non meno ironici e spietati. Si rivede Nathalie Djurberg con una nuova animazione fatta per l’occasione. Non male. Ancora energica e immaginifica.
Fotografia
Oltre ai pittori anche i fotografi sono quasi sempre tedeschi. Cioè, sono tedeschi quelli che piacciono a me. Wolfgang Tillmans mi sembra tenere botta con alcuni pezzi belli anche se non innovativi (a lui perdono praticamente tutto), Andreas Gursky dà l’impressione che col passare del tempo sia sempre più compiaciuto. Di Thomas Ruff i galleristi hanno tirato fuori un paio di opere pixelate sull’11 settembre che non avevo mai visto (gli anniversari sono sempre gli anniversari). Taryn Simon c’è anche al Frieze (ha tenuto una conferenza giovedì), ma di lei vi parlerò in un altro post. Alla Biennale avevo notato la fotografa indiana Dayanita Singh e qui si conferma con un’opera molto interessante. Poi spopola Ryan McGinley con i suoi giovani nudi che fanno acrobazie in boschi illumninati da una irreale luce. C’è Darren Almond che mi è piaciuto molto. E infine l’intramontabile Luigi Ghirri. La presenza alla Biennale ci ha ricordato quanto sia grande. Mi pare sia l’unico grande nome italiano presente a questo Frieze.
I grandi assenti sono Damien Hirst e Jeff Koons. Erano anni che le loro opere la facevano la padrone degli stand delle gallerie più importanti. Quest’anno a Frieze Art Fair invece, no. Loro non ci sono e al loro posto in bella vista ci sono gli artisti del momento : Gerhard Richter, Ai Weiwei e Anish Kapoor. Il fatto è che questi ultimi nell’ultimo anno hanno presentato nuove opere di una certa importanza (il salto no-painting del tedesco, il Leviathan di Kapoor e la mostra alla Lisson per il cinese nominato numero 1 dell’Art Word da Art Review). I primi due no. Il 2011 per loro è stato l’anno del silenzio creativo (più per Koons che per Hirst, in verità) e così il mercato registra questa loro assenza. Le domande sono due : cosa staranno facendo di bello ? O meglio: di nuovo? Hirst riesce a far parlare di sé con gli Spot paintings (all’asta sia da Christie’s che da Sotherby’s e in mostra da White Cube), Koons invece sembra assente su tutta la linea. Tornerà o è andato in pensione come Cattelan ?
Pittura Nell’anno del suo trionfo con la grande retrospettiva nei musei di Londra, Berlino e Parigi che lo incorona come il più grande pittore vivente, Gerhard Richter abbandona i pennelli. Almeno così sembra (parzialmente almeno) dalla mostra in corso da Marian Goodman a Parigi nella quale il pittore tedesco presenta delle grandi stampe digitali attraversate la mille strisce di colore parallele. Per il resto la pittura non se la passa molto bene : nessuno ha il coraggio, la baldanza, la spregiudicatezza di fare quadri di grande respiro. Non è una novità certo. Ma quest’anno ho notato che a Londra la quantità di opere di pittura fosse più consistente rispetto agli ultimi due anni. Ci sono quindi questi due dati contrastanti : più pittura, ma più pittura stanca. Non è un caso che i due quadri più belli esposti in fiera fossero di due pittori morti : Jörg Immendorf e Sigmar Polke. Una nota : cosa succede con Cy Twombly ? Dalla fiera e dalle aste sono sparite le sue opere. Non così è per Lucian Freud. C’è un motivo ?
Scultura e altro
Ma tornando a Frieze 2011: le due opere più forti (nel senso di provocatorie) sono del duo Elmgreen & Dragset. La prima mostra un bambino abbandonato in una culla davanti a una porta della camera 69 di un albergo fuori dalla quale è affisso l’avviso “please do not disturb”. La seconda riproduce un obitorio a grandezza naturale. Da uno degli scomparti d’acciaio spuntano un cadavere di donna coperto da un lenzuolo. Si vedono solo i piedi nudi e, accanto a essi, gli effetti pesonali della donna : una collana, un paio di scarbe e un Blackberry. Meno acuti di Cattelan, ma non meno ironici e spietati. Si rivede Nathalie Djurberg con una nuova animazione fatta per l’occasione. Non male. Ancora energica e immaginifica.
Fotografia
Oltre ai pittori anche i fotografi sono quasi sempre tedeschi. Cioè, sono tedeschi quelli che piacciono a me. Wolfgang Tillmans mi sembra tenere botta con alcuni pezzi belli anche se non innovativi (a lui perdono praticamente tutto), Andreas Gursky dà l’impressione che col passare del tempo sia sempre più compiaciuto. Di Thomas Ruff i galleristi hanno tirato fuori un paio di opere pixelate sull’11 settembre che non avevo mai visto (gli anniversari sono sempre gli anniversari). Taryn Simon c’è anche al Frieze (ha tenuto una conferenza giovedì), ma di lei vi parlerò in un altro post. Alla Biennale avevo notato la fotografa indiana Dayanita Singh e qui si conferma con un’opera molto interessante. Poi spopola Ryan McGinley con i suoi giovani nudi che fanno acrobazie in boschi illumninati da una irreale luce. C’è Darren Almond che mi è piaciuto molto. E infine l’intramontabile Luigi Ghirri. La presenza alla Biennale ci ha ricordato quanto sia grande. Mi pare sia l’unico grande nome italiano presente a questo Frieze.