Sono stato a Roma e ho visto “Time is out of joint” a La Galleria Nazionale e “Nuovi tempi, nuovi miti”, la Quadriennale al Palazzo delle esposizioni.
Sono mostre molto diverse e, per diversi aspetti, non sono paragonabili. Ma, a pensarci, dicono di che cosa significhi oggi fare il curatore.
Alla Quadriennale ho cercato di seguire, per ciascuna delle dieci sezioni firmate da altrettanti curatori, il filo del discorso: prima di entrare ho letto il titolo e il breve testo introduttivo e poi ho provato a ritrovare quanto annunciato nel dialogo tra le opere. Non sempre ci sono riuscito, per non dire quasi mai. Un po’ perché la lingua usata dai curatori era a dir poco ostica e impediva di capire qual era l’idea da ritrovare, un po’ perché non c’erano abbastanza elementi per leggere le opere più enigmatiche, un po’ perché era labile il legame tra idea curatoriale e opera.
Insomma: lo sforzo di entrare nel mondo mentale del curatore era tale che si arrivava stanchi per l’incontro con le opere. Esagero? Forse, sì. Ma forse anche no.
Quella de La Galleria Nazionale, che è tutt’altro tipo di sfida, mostra un altro lavoro curatoriale che però che è in grado di comunicare di più con il visitatore e che, alla fine, valorizza molto di più le opere. Il lavoro di Cristiana Collu e Saretto Cincinelli non dichiara temi o logiche di accostamento: è il visitatore che deve cercare di cogliere, se ci sono, i legami tra le opere. Soprattutto nelle prime due sezioni (nelle ultime due, il meccanismo è più rarefatto sembra), questo lavoro fa emergere parole semplici, che appartengono alla lingua comune. Si parla del mito e dei suoi modi di concepirlo (Canova-Twomby), si parla del ritmo delle campiture di colore (Pascali-Mondrian), il rapporto tra una foglia di fico e una foglia d’oro (Canova-Penone). Il finito blu del mare e l’infinito blu dell’infinito (Pascali-Klein). La solitudine e lo sguardo verso le stelle. E poi il paesaggio, il corpo, la sensualità. E poi la guerra, la retorica della guerra, il dolore della guerra, l’insensatezza della guerra. Poi c’è la pietà popolare, il groppo in gola dei migranti, la nostalgia davanti alle rovine della civiltà del passato. Dentro a questi nuclei tematici e poetici si è costretti a guardare e riguardare le opere e il rapporto tra loro.
Qui sto semplificando, per carità: quello messo in scena dalla Collu non è un giocattolino banale-banale, ma si pone questioni semplici e profonde usando parole semplici e profonde.
Ripeto: le due mostre sono imparagonabili, ma mostrano due approcci diversi di chi si pone il problema del dover presentare il lavoro degli artisti che, quando fanno bene il loro lavoro, non sono mai lontani dal sentire comune (nel senso più nobile del termine).
Un grande colpo con #GinoDeDominicis #PinoPascali @lagallerianazionale #art #contemporaryart
Una foto pubblicata da Luca Fiore (@lfiore) in data:
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