VIAGGIO IN TERRA SANTA/3

Giornale del Popolo, 27 febbraio 2007

Gerusalemme. All’Hotel Shalom di Gerusalemme, devo dire, mi sono sentito un po’ a disagio per come ero vestito: una polo e un paio di jeans. L’albergo, infatti, era frequentato in quei giorni da ebrei ortodossi (completo nero e cappello nero a falda larga), seminaristi e preti ticinesi (rigorosamente in clergy) e una chiassosa comitiva di nigeriani che sfoggiavano i loro coloratissimi abiti tradizionali. Noi giovani della Diocesi di Lugano, con la nostra comune tenuta da pellegrini, eravamo in netta minoranza. A dire il vero quelli più fuori posto mi sembravano i nigeriani. Chiedo spiegazioni a Renato, un signore sulla sessantina che gestisce in Terra Santa i pellegrinaggi della Brevivet. Renato è un uomo brusco ma simpatico. Vive da vent’anni a Gerusalemme almeno dieci mesi l’anno, conosce l’arabo e l’ebraico e sa alla perfezione come girano le cose da queste parti. «Il governo nigeriano – mi spiega – per cercare di attenuare le tensioni interne tra musulmani e cristiani paga ogni anno decine di migliaia di pellegrinaggi alla Mecca per gli islamici e a Gerusalemme per i protestanti e i cattolici. Quest’anno sono previsti 12mila pellegrini dalla Nigeria». Questo è solo un esempio di come qui a Gerusalemme sia impossibile tracciare una netta separazione tra politica e religione. La nostra guida suda sette camice nel tentativo di spiegarci il complicato groviglio di questioni politiche e religiose di cui è fatta la vita quotidiana in questa città. In non più di un chilometro quadrato, infatti, si trovano i luoghi più santi delle tre religioni monoteiste e qui per il controllo di ogni pietra si è pronti – quando va bene – a menar le mani. Eppure tutte le tensioni e le incomprensioni non riescono a intaccare l’indicibile bellezza di questa città.
Il nostro pellegrinaggio ha cercato di seguire le tappe della Settimana Santa. Il giovedì è stato dedicato alla visita del luogo in cui, secondo la tradizione, si trovava il Cenacolo. Per strani motivi gli israeliani non permettono ai cristiani di celebrare la messa in questo luogo se non in rarissime circostanze. Così ci tocca celebrare la messa in una chiesina nelle vicinanze, detta il “Cenacolino”. Qui i seminaristi e i preti che ci accompagnano appaiono parecchio emozionati. È il luogo dove Gesù ha istituito l’Eucarestia e, dunque, anche il ministero del sacerdozio. Mons. Vescovo dice una cosa che non mi aspetto: «Se fossimo stati noi al posto di Gesù, con che coraggio avremmo cenato quella sera? Lui sapeva che lo avrebbero tradito, non solo Giuda, ma tutti quanti lo avrebbero fatto. Al posto suo ci saremmo alzati e ce ne saremmo andati. Noi pensiamo: “Siamo puri e dunque possiamo prendere il pane”. È il contrario: “Voi non siete puri ed io vi do il mio pane”». I suoi discepoli erano sempre spiazzati da quel che diceva e da quel che faceva. Era imprevedibile, così dolcemente e tremendamente imprevedibile. Ed era per questo che stavano con Lui. Ed è per questo che continuiamo a farlo anche noi. Nel Getsemani celebriamo, invece, “l’Ora Santa”. Scopro qui che l’Ora Santa è una pratica di devozione nella quale si ricorda l’agonia di Gesù nell’orto degli ulivi. Tornò e trovò Pietro, Giacomo e Giovanni che dormivano: «Non avete saputo vegliare neanche un’ora». E da qui l’idea di un’ora di preghiera di fronte al Santissimo Sacramento. In quell’occasione gli apostoli ci fecero davvero una pessima figura e mons. Grampa, nella sua meditazione, non manca di farlo notare. Ma ora lo devo confessare: sarà stato per la levataccia al mattino, sarà stato per la penombra della chiesa, ma anch’io a un certo punto ho chiuso gli occhi e mi sono addormentato. Non per cercare giustificazioni, ma in fondo, a pensarci bene, quei tre lì, poi, li hanno fatti santi…
Non c’è bisogno di essere già stati in Terra Santa per sapere che la Via Crucis a Gerusalemme passa attraverso i vicoli della città vecchia dove la vita continua come se nulla fosse. Gente che grida, gente che vende, che compra, gente che passa e si fa il segno della croce e gente che passa e sputa per terra maledicendoti. Era così allora mentre Gesù saliva il Calvario, è così anche adesso, e non solo negli stretti vicoli della vecchia Gerusalemme. I seminaristi si alternano a portare la croce fino alla grande chiesa del Santo Sepolcro. Il luogo della crocefissione e quello della sepoltura di Gesù, infatti, sono talmente vicini che oggi sono ospitati sotto il tetto della stessa chiesa. Varco la soglia e mi accorgo che per entrare al Sepolcro c’è la fila, mentre per toccare la roccia dove è stata piantata la croce non c’è bisogno di aspettare. All’uscita qualcuno dirà scherzando: «Qui la gente pretende la resurrezione senza passare dalla croce…». Io decido di non andare subito al Sepolcro e rimando la visita al giorno dopo.Il giorno dopo, sabato, mi metto in coda per entrare nel luogo dove Gesù è stato deposto esanime la sera del Venerdì Santo e risorto tre giorni dopo. Siamo io e Isabella. A regolare gli accessi alla piccola porta che dà accesso al luogo più santo della città più santa che ci sia, c’è un marcantonio dalla barba lunga e la faccia cattiva. È uno dei monaci ortodossi che custodiscono la Basilica. Siamo in fila da ormai più di un’ora e, per motivi che ci sfuggono, non fanno entrare nessuno. La gente si innervosisce e incomincia a litigare: «Sono arrivato prima io», «No, io sono qui da prima di te». Si comincia a spingere e il marcantonio sembra in difficoltà. Finisce per essere ancora più burbero e scontroso. Isabella, schiacciata tra un pellegrino russo e uno americano che litigano, perde la pazienza e se ne va maledicendo tutti: «Mica stiamo andando a vedere la Gioconda, per Dio». Io mantengo la calma e riesco ad entrare. La ritrovo in lacrime sul piazzale fuori dalla Basilica: «Che pellegrinaggio è se non riesco a pregare lì dentro? Ora non c’è più tempo per farlo. Domani è domenica e partiamo dall’albergo alle 8.30». «E chi l’ha detto che non c’è più tempo?», rispondo. Ci informiamo: c’è una messa alle 5.30 di mattina, ma le dicono: «Una ragazza non può andare in giro da sola a quell’ora in quel quartiere». Mi fa: «Mi accompagni? ». «Ti accompagno». E’ l’alba del giorno dopo, il primo dopo il sabato. Stiamo correndo in taxi verso il Sepolcro di Gesù. In giro non c’è anima viva e dalla Porta di Jaffa alla Basilica non incontriamo nessuno. Arriviamo dieci minuti prima della messa. Col cuore in gola, e stavolta senza fare fila, riusciamo ad entrare nel luogo santo. Mi vengono in mente le facce di Pietro e Giovanni che corrono al Sepolcro nel famoso quadro di Eugène Burnand. Anche loro giunti qui, quella mattina, sconvolti, impauriti. «Raccontaci Maria, cosa hai visto… ». Non c’è, non è più lì dentro. Toccando quella pietra mi si stringe il cuore e penso anch’io: «Non è qui. Non è qui. Non è qui. È risorto».

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