CATTOLICI NELLA CULLA DELL’ISLAM

INTERVISTA A MONS. PAUL HINDER

dal Giornale del Popolo del 23 marzo 2005

Sembra un paradosso: proprio nella culla nell’Islam il cattolicesimo è più che mai fiorente. Uno scherzo? No, perché a raccontarlo è monsignor Paul Hinder, un cappuccino svizzero tedesco che il Papa lunedì ha nominato nuovo responsabile del vicariato apostolico d’Arabia. Il vicariato è la circoscrizione ecclesiastica più grande del mondo e comprende Emirati Arabi Uniti, Qatar, Bahrein, Oman, Yemen e Arabia Saudita. Secondo le stime vi sarebbero circa 1,3 milioni di cattolici: tutti immigrati per lavoro. Sono soprattutto filippini, indiani e libanesi. Solo nella parrocchia di Abu Dhabi (capitale degli Emirati Arabi Uniti e sede del Vicariato) le nazionalità rappresentate sono 90. In altre occasioni Hinder, che si trova ad Abu Dhabi dall’anno scorso come vescovo ausiliare, ha raccontato che alla messa del Giovedì Santo a Dubai c’erano 30 mila persone.

Mons. Hinder: 30 mila persone, è sicuro?
Così mi hanno detto persone del luogo in grado di fare stime di questo genere.

Ma in Europa solo il Papa è in grado di radunare così tanti fedeli in una volta sola…
Certo! (ride) Ma non è stato un caso isolato: quest’anno alla messa di mezzanotte del 24 dicembre ad Abu Dhabi tutta la piazza antistante la chiesa e la chiesa stessa erano stipate. C’erano sicuramente almeno 10 mila persone, senza contare che il giorno di Natale abbiamo dovuto celebrare 16 messe. È veramente incredibile. Ma è proprio da questi momenti forti che si riesce ad intuire quanti siano i fedeli che abitano in queste zone. Per noi è sempre una sorpresa perché non abbiamo un’idea precisa di quanti siano in realtà.

Come vivono la loro fede i cattolici che abitano nella penisola araba?
La stragrande maggioranza la vive molto attivamente e qualche volta in modo più intenso di quanto non lo faccia nel proprio Paese di origine. Noi, a differenza che in Europa, non abbiamo difficoltà a riempire le chiese e non solo la domenica e al venerdì, ma anche durante la settimana.

La messa del venerdì?

Sì, noi la messa domenicale la celebriamo soprattutto al venerdì perché da noi si segue la scansione della settimana musulmana. È stata la gente a chiederci di spostarla, perché ci tiene a venire e la domenica non potrebbe.

Tanto entusiasmo e tanta gente, ma vi trovate comunque in Paesi a maggioranza musulmana…
La nostra presenza di Chiesa cattolica è volutamente di basso profilo. Anche dal punto di vista architettonico: le chiese non hanno il campanile non c’è la croce sul tetto… Questo fa parte della discrezione che ci è imposta dai governi locali. Essere discreti tuttavia non vuol dire essere trasparenti. La nostra scuola, per esempio, porta il nome di un santo: San Giuseppe, poi c’è quella di un ordine di suore arabe che gestiscono una scuola per arabi. Le nostre scuole sono apprezzate dalla società locale e ci sono anche alcuni sceicchi che mandano i loro figli da noi.

Anche gli sceicchi mandano i propri figli nelle scuole cattoliche?
Diciamo scuole “gestite” da cattolici, non è esattamente lo stesso. Il programma rimane quello delle scuole arabe e per i musulmani sono previste tre lezioni settimanali di religione musulmana. Cambia evidentemente il contesto educativo, perché il fatto che siano suore a gestire la scuola fa oggettivamente la differenza.

I giornali parlano di queste celebrazioni oceaniche?
Nel passato raramente, adesso capita che la stampa ne parli. Per esempio quando sono stato ordinato vescovo ad Abu Dhabi è apparsa una notizia (senza fotografia) su un giornale locale. Oppure i giornali hanno parlato di noi anche quando, per la morte dello sceicco Zayed (il fondatore e primo presidente degli Emirati Arabi Uniti), abbiamo celebrato una messa in suo suffragio e alla quale abbiamo invitato i membri del corpo diplomatico. Poi quando con il mio predecessore andammo a porgere le condoglianze al figlio dello sceicco, l’attuale presidente, andando vestiti come vescovi. Normalmente non possiamo ed è stata un’eccezione.

Questi comunque sono segnali positivi…

Certo, ma è anche nel loro interesse mostrare all’Occidente che negli Emirati esiste una certa libertà religiosa. La libertà effettiva, tuttavia, è minore di quella che si vuol far credere.

Come stanno le cose in verità?
La libertà del culto è limitata alle strutture che ci vengono concesse. I 70 mila cristiani degli Emirati Arabi possono esercitare la loro fede solo all’interno della chiesa di Abu Dhabi. Non abbiamo diritto, ad esempio, di affittare liberamente una casa o un hall di un albergo per celebrare una messa in un altro punto del Paese. Questo è un problema serio per noi che abbiamo così tanti fedeli. Avremmo bisogno di più spazio per costruire un’altra chiesa, ma fino a che non riceviamo dallo sceicco un terreno per farlo abbiamo le mani legate. Al di là di questo noi siamo riconoscenti di avere anche solo la possibilità di esistere. Poi la libertà religiosa in senso classico non esiste perché non c’è una libertà dell’individuo di scegliere la propria religione. Questa libertà è unilaterale: un cristiano può diventare musulmano, ma mai un musulmano potrebbe farsi cristiano.

E nel caso lo diventasse?
Rischierebbe la vita e dovrebbe guardarsi soprattutto dai propri parenti. Ma rischia ritorsioni e sanzioni anche chi decide di battezzarlo.

Sotto la sua responsabilità c’è anche l’Arabia Saudita, come vivono i cristiani che abitano nella culla dell’Islam?
Posso dire che la maggior parte dei cristiani che abitano nel vicariato che il Papa mi ha affidato abitano in Arabia Saudita. Molti di loro vivono intensamente la loro fede, ma lo fanno in gruppi privati: si tratta di una chiesa delle catacombe, come quella dei primi cristiani. Ma non posso dire nulla di più per ragioni di sicurezza.

Come sono i rapporti con le autorità religiose e politiche?
Generalmente buoni, anche ottimi. Non ci sono problemi ad incontrare membri dei governi. Ma anche se i rapporti sono buoni formalmente spesso è difficile ottenere quello che si chiede. Ho incontrato ultimamente il ministro per gli affari religiosi dell’Oman al quale ho chiesto un visto che mi permetta con più facilità di entrare nel Paese per incontrare i miei fedeli. C’è poi il problema dei fedeli che vivono lontano dalle nostre parrocchie e che di fatto non possono vivere la loro fede. Ho quindi chiesto che il Sultano ci conceda di poter dire la messa anche in altri luoghi che non siano le nostre cinque chiese nel Paese. Una delle ragioni di questa difficoltà è che il governo deve gestire i rapporti con i fondamentalisti islamici che si oppongono a queste aperture.
L’altra è che negli ultimi tempi alcune sètte cristiane hanno cominciato a fare proselitismo tra i musulmani. Questo al Governo non sta bene e anche noi ne subiamo le conseguenze.

Ha senso chiedere ai Paesi a maggioranza musulmana la reciprocità di trattamento dal punto di vista religioso?
Sì, sarebbe bello che i cristiani fossero trattati nei Paesi arabi come i musulmani lo sono in Occidente. Ma il grosso ostacolo è che nei Paesi arabi lo Stato non è concepito come in Occidente dove ognuno può professare la fede che sceglie in libertà. Ma questo non vuol dire che le cose non possano cambiare. Occorrerebbe però che i politici occidentali fossero un po’ più coraggiosi e insistessero affinché questi Paesi si aprano al principio della libertà religiosa o, almeno, della libertà di culto. Ho l’impressione che i nostri politici quando ci sono di mezzo gli affari, troppo spesso chiudano un occhio sulla difesa dei nostri valori che non sono di per sé valori cristiani, ma sono qualcosa acquistato durante la storia dell’occidente. Ciò che io aspetto è che i nostri politici non dimentichino, quando incontrano i vari sovrani dei Paesi arabi, di far loro presente questa cosa. Non con tono paternalistico, ma facendo presente, per esempio, che in un Paese come l’Arabia Saudita in cui quasi il 70 per cento della popolazione è immigrata per lavoro è assurdo non vi siano per gli stranieri libertà e diritti difendibili di fronte a un tribunale. Vi sono governanti arabi illuminati che percepiscono il problema e sarebbero pronti a portarlo avanti, ma hanno bisogno di un appoggio anche dall’esterno.

Cosa potrebbero fare i nostri politici in concreto?

Bastano semplici gesti. Se il presidente della Confederazione svizzera, o uno qualsiasi dei presidenti di una democrazia occidentale, in visita ufficiale negli Emirati Arabi andasse fare visita ad una chiesa cristiana, compirebbe un gesto che invierebbe un segnale molto forte.

Cosa la affascina di più del compito che le è affidato?
Mi affascina l’aspetto di chiesa pellegrina, multinazionale, multiculturale e multirituale. Questa ricchezza riflette in qualche modo la cattolicità della Chiesa. Mi affascina vedere il fervore della fede di questa gente. È commovente vedere persone costrette a vivere la propria fede in stato di clandestinità piangere di gioia perché vedono arrivare il vescovo per dire loro la messa.

Che cosa si sente di dire ai cattolici ticinesi?

Di essere, come diceva san Franceso ai cristiani che si trovavano presso “i saraceni”, dei testimoni credibili di Cristo nella società di oggi. E poi di essere coraggiosi: non abbiano vergogna di essere cattolici perché non penso che la Chiesa di oggi sia meno bella di quella del passato. E infine che godano della libertà di esprimere la propria fede, perché non è una libertà scontata.

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