"PER FAVORE NON CHIAMATELI VEGETALI"

INTERVISTA A GIOVANNI BATTISTA GUIZZETTI

Dal Giornale del Popolo del 27 novembre 2007

Al Centro Don Orione di Bergamo lo chiamano il “piano terra”, semplicemente. Ci lavorano 14 infermieri, 14 ausiliari e un capo sala. Le qualifiche non sono importanti, conta quello che si fa. È il reparto per i pazienti in stato vegetativo diretto dal dottor Giovanni Battista Guizzetti. I suoi pazienti non si muovono, non parlano, non sembrano percepire il mondo esterno. Eppure respirano senza aiuto di macchine. Hanno gli occhi aperti. Sembra che qualcuno gli abbia spento la luce. Li nutrono con un sondino che entra nello stomaco, perché non sono più capaci di deglutire. Ricordate il celebre caso di Terry Schiavo? Ecco: stessa cosa. Ricordate Antonio Trotta, il giovane italiano da anni residente ad Ascona caduto in stato vegetativo di cui si è detto “conteso tra Italia e Svizzera”? Anche lui sarebbe potuto essere un paziente del “piano terra” del dottor Guizzetti. Una volta lo stato di questi pazienti veniva definito “stato vegetativo permanente”. Oggi la parola “permanente” è stata eliminata. Perché? Semplicemente perché al Don Orione di Bergamo dal 1996 ad oggi, su 80 pazienti se ne sono svegliati 12. Hanno riconosciuto i parenti, hanno ripreso a parlare, qualche volta hanno anche ricordato di quel che gli accadeva durante la malattia. Insomma hanno dimostrato che non erano proprio vegetali- vegetali come sembrava. Anzi, meglio non chiamarli così in presenza del dottor Giovanni Battista, perché potrebbe anche arrabbiarsi…

Dottor Guizzetti, cos’è lo stato vegetativo?
Lo stato vegetativo può essere causato da un evento acuto oppure può essere la fase finale di una malattia degenerativa come la demenza, ad esempio. Io comunque mi occupo del primo tipo di pazienti. Nel mio reparto sono ricoverate quelle persone che hanno avuto un evento acuto e quindi passano da una condizione di benessere completo a una condizione di devastante disabilità. Una situazione che solitamente segue a uno stato di coma, causato o da un trauma cranico, da un infarto , da un’insufficienza respiratoria oppure da un tumore o da un’emorragia cerebrale. Dal coma si esce dopo 4-6 settimane al massimo: o morendo, o con deficit più o meno grave o, appunto, si esce in stato vegetativo.

Che differenza c’è tra coma e stato vegetativo?

Il passaggio da coma allo stato vegetativo è segnato dall’apertura degli occhi. Si dice che il paziente riacquista la vigilanza: di giorno per lo più è sveglio e di notte dorme. Però non ha un contenuto di coscienza sicuramente dimostrabile. Non ha consapevolezza di sé e relazione con l’ambiente.

Di che cure ha bisogno un paziente di questo tipo?
La vita di questi pazienti non dipende da nessun supporto tecnologico perché le funzionalità cardiaca, respiratoria e digestiva funzionano benissimo. Il problema è che sono totalmente dipendenti nelle funzionalità della vita quotidiana: il mangiare, il lavarsi, il vestirsi. Hanno bisogno che ci sia qualcuno che lo faccia per loro.

Questo stato è reversibile?
Quanto più passa il tempo, tanto minori sono le possibilità di un recupero della coscienza. Però queste possibilità non si azzerano mai. Non si può sapere con totale certezza se una condizione di stato vegetativo rimarrà permanente per tutta la vita. Qualche mese fa c’è stato il caso di un ferroviere polacco che si trovava a casa sua in stato vegetativo e che si è svegliato dopo 19 anni. È un caso documentato dalle diverse riviste mediche. Il recupero è avvenuto senza il ricorso a nessun tipo di cura. Lui era a casa, sua moglie lo accudiva, i suoi figli lo curavano. E lui, dopo 19 anni, si è svegliato.

A lei è mai capitato un caso così clamoroso?
Tra i soggetti ricoverati nel mio reparto c’è stato un risveglio di un ragazzo dopo 17 mesi. È stato qualcosa di molto drammatico, perché è stato come se si fosse accesa una lampadina. Un “on-off” incredibile. Si è proprio svegliato di punto in bianco, si è messo a ridere e ha cominciato a parlare con sua moglie che in quel momento gli si trovava accanto. Una scena impressionante…

Qual è la probabilità di risveglio?

Non ci sono dei dati chiari. È una cosa su cui i medici hanno studiato poco. Ora con le tecniche di risonanza magnetica si stanno ottenendo dati interessanti. Però non ci sono dei dati sui risvegli, ma ci sono quelli sulla sopravvivenza. Tenga conto che i primi casi di stato vegetativo risalgono a una cinquantina d’anni fa e cioè da quando esistono le unità coronariche, le terapie intensive e i respiratori.

Che cosa percepiscono queste persone? Nel celebre caso di Terry Schiavo se ne parlò molto…
Il problema è che la coscienza, intesa come contenuto esperienziale ed emozionale che è in ognuno di noi, non è esplorabile. Io non posso dire nulla sullo stato di coscienza della persona che ho di fronte. Io posso dire che questa persona non esprime una relazione con me, verbalmente e gestualmente. Però c’è tutto l’aspetto emotivo che io non posso esplorare. Per Terry Schiavo, ad esempio, si diceva che non percepiva. Peccato che gli stessi medici che hanno deciso di farla morire, durante la sua agonia, le hanno somministrato della morfina. Si vede che anche loro hanno riconosciuto che in quei momenti provava dolore…

E chi si sveglia ricorda qualcosa?
Il ferroviere che si è svegliato in Polonia in un’intervista ha dichiarato che durante la malattia era angosciato per il fatto che non riusciva a comunicare. Riusciva a vedere sua moglie e i suoi cari che lo curavano, ma non riusciva ad esprimere nulla. Il ragazzo che si è svegliato da noi, invece, ricorda con angoscia il momento del bagno: aveva paura del momento in cui veniva messo nella vasca. C’era un certo tipo di relazione. Certo, non si tratta di consapevolezza piena. Ma un qualcosa di primordiale.

Ultimamente sia in Italia sia in Svizzera si è parlato del caso di Antonio Trotta per il quale una commissione etica ticinese aveva sconsigliato, nel caso di peggioramento, di non intervenire con cure intensive perché la qualità della vita del paziente non sarebbe più stata accettabile…
Io se dovessi pensare di sottoporre uno dei miei pazienti a una dialisi avrei dei problemi, sinceramente. Non avrei problemi a curargli una polmonite, o cercare di migliorare la nutrizione o l’idratazione cutanea eccetera, ma intervenire con delle tecnologie mediche, penso che non lo farei.

Molti dicono che una vita da “vegetale” non vale la pena di essere vissuta…

Il termine “vegetale” dà un giudizio dispregiativo che io non posso condividere in alcun modo. Nel nostro reparto negli ultimi undici anni sono passate 80 persone e non ho mai avuto nessuna richiesta di sospensione di cura o di eutanasia da parte dei parenti. Lo stato vegetativo non lo considero più una malattia, lo considero una drammatica situazione esistenziale con la quale si può ancora cercare di costruire una relazione. Io ho visto mariti, mogli, figli, padri e madri che hanno saputo ricostruire una relazione con queste persone. L’espressione “vita da vegetale”, non rende per niente giustizia a ciò a cui assisto tutti i giorni.

Il professor Umberto Veronesi ha definito queste persone dei “morti viventi”…
È un disprezzo per l’umano che io non posso tollerare.

Ma la “qualità della vita”?

Siamo solitamente abituati a giudicare la vita in termini utilitaristici: in base alle nostre capacità di produzione, di spesa e alla fine di godimento. Dimenticando completamente altre dimensioni che costituiscono la vita umana che sono la dimensione relazione, la dimensione spirituale e, perché no, la dimensione religiosa. Anche queste sono caratteristiche dell’umano. Bisogna far molta attenzione a sdoganare il concetto di “qualità della vita” perché poi potranno farne le spese i malati di Alhzeimer, i ritardati mentali, i disabili. Io questo non posso accettarlo.

Sta dicendo che il concetto di “qualità della vita accettabile” potrebbe aprire le porte all’eutanasia attiva?
Oggi la medicina guarisce poco e cronicizza molto. Persone con moltissime malattie che fino a poco tempo fa portavano velocemente alla morte, oggi sopravvivono per moltissimi anni. Questo indubbiamente porterà a un’esplosione della spesa sanitaria. Creare dei criteri di accesso alle cure basandosi sul parametro di qualità della vita potrebbe essere anche un mezzo per ottenere il contenimento della spesa sanitaria…

Per i familiari si tratta di un calvario. Resistono tutti?

Non si può parlare di famiglie, ma si devono considerare le singole persone. Ognuno reagisce in modo diverso. Ma io ho visto che in questi anni la figura che non molla mai è la mamma. Ci sono mogli che lasciano i mariti, mariti che lasciano le mogli. Ma quando c’è una mamma di mezzo, stia sicuro che questa non molla mai. Nel nostro centro abbiamo persone di Milano e ci sono delle mamme, ormai anziane, che vengono da Milano a Bergamo tre o quattro volte alla settimana per stare tutto il giorno con i loro figli. Li portano in giro, li accarezzano, gli parlano. E hanno veramente ricostruito una relazione con i loro figli. Certo se uno giudica queste cose come ininfluenti o insignificanti per l’umano, va bene, lo faccia pure. Ma secondo me sono segni forti della nostra dignità e della nostra statura di uomini, di essere umani.

I suoi pazienti non sono in grado neanche di riconoscerla. Come medico, non dev’essere un’esperienza molto gratificante…

Quando sono uscito dall’università come tutti pensavo che la guarigione fosse il criterio per stabilire la bontà dell’agire di un medico. Poi con il passare degli anni mi sono accorto che questo criterio non regge. Perché nella relazione medico-paziente la guarigione non può essere l’unico obiettivo che definisce il bene di una vita. Stando di fronte a queste situazioni di non guaribilità, ma di possibilità di “prendersi in cura”, ho rivisto il mio modo di lavorare.

Ma esistono delle soddisfazioni nel suo lavoro?
Noi non ci rendiamo conto del significato dei gesti più semplici che compiamo durante la giornata: alzarci da una sedia o bere un bicchiere d’acqua. Per noi sono ormai automatici. Ma stando con queste persone uno capisce che anche mandar giù un bicchiere d’acqua o mangiare un cucchiaino di gelato, hanno un valore relazionale e esistenziale formidabile. Vedere una persona in questa condizione che deglutisce o sorride mentre succhia un pezzo d’arancio, se permette, costituisce per me una grande soddisfazione

Ma se si dovesse trovare nella situazione dei malati che cura, cosa chiederebbe ai medici e alla sua famiglia?
Qualcuno che mi accompagni. Chiedo solo questo.

Qualcuno, invece, chiede di esser lasciato morire…

Oggi si fa tanto rumore per i singoli casi come Giovanni Nuvoli o Piergiorgio Welby, ma non si dice una parola sui migliaia di casi di malati in situazioni analoghe che chiedono di essere curati. Perché se si risponde adeguatamente alla domanda di cura, io penso che la domanda di eutanasia si riduce a zero. È troppo facile fare un sondaggio tra la gente che fa shopping chiedendo cosa ne pensa dell’eutanasia. È chiaro che poi salta fuori che il 70 per cento degli italiani è a favore dell’eutanasia. Il sondaggio va fatto tra i malati che sono assistiti: cosa dicono loro sull’eutanasia? In un recente convegno l’eutanasia è stata definita “la tentazione dei sani”. Una definizione strepitosa, perché veramente l’eutanasia è la tentazione solo di chi, da sano, fa i suoi ragionamenti. I malati chiedono di essere curati. Punto.

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