Dal Giornale del Popolo del 29 gennaio 2008
In quel tragico maggio del 1989 – quello delle proteste studentesche in piazza Tienanmen – si trovò, quasi per caso, ad essere il portavoce del primo sindacato indipendente della storia della Cina. Allora Han Dongfang era giovane, aveva 25 anni. In mezzo a una piazza piena di studenti, lui si trovò a manifestare in nome dei lavoratori. Quando il 4 giugno l’esercito cominciò a sparare sulla folla i suoi compagni lo portarono via a forza perché volevano salvargli la vita. Fosse stato per lui sarebbe rimasto lì, ad affrontare le pallottole. «Sogni di eroismo erano nell’aria in quei giorni» ricorda. La vita gli fu salvata, ma non gli fu risparmiato il carcere e le torture. Riuscì a uscire di prigione solo a causa di una forte tubercolosi e, grazie a un’organizzazione per i diritti umani americana, riuscì a giungere negli Stati Uniti dove lo curarono asportandogli un polmone.
Oggi non può tornare in Cina, ma da Hong Kong ha fondato una rivista, il China Labour Bulletin, che parla dei diritti dei lavoratori cinesi, conduce un programma radiofonico seguito in tutta la Cina e fornisce consulenza giuridica a chi ha il coraggio di rivendicare i propri diritti. Già, perché la Cina sarà pure un regime comunista dove i diritti umani sono un miraggio, ma anche a Pechino vigono una costituzione e delle leggi. È proprio partendo dal rispetto delle leggi vigenti che Han Dongfang prova a far partire la lotta contro i soprusi sui lavoratori. Una questione culturale e di mentalità, dice lui. Una goccia nel mare, diciamo noi. Lo abbiamo incontrato i in occasione del convegno VeriDiritti del mese scorso ad Ascona.
Signor Han, lei viene definito il Lech Walesa cinese. Si riconosce in questa definizione?
No, non mi piace affatto. La Polonia della fine dell’inizio degli anni ’80 è molto diversa dalla Cina di oggi. Certamente Lech Walesa è uno dei miei eroi, ma quando ci si riferisce a lui lo si mette in relazione con la caduta del regime comunista. Il mio obiettivo primario non è quello di far cadere il regime cinese. Io cerco di far capire ai lavoratori cinesi che hanno gli strumenti per difendere i loro diritti.
Dopo le vicende di Tienanmen, come è continuata la sua attività di difesa dei diritti dei lavoratori?
Nel marzo del 1994 ho fondato a Hong Kong il China Labour Bulletin. Lo scopo era quello di pubblicare un documento settimanale che avrebbe parlato di ciò che succedeva in Cina, descrivendo la vita dei lavoratori, e avrebbe spiegato agli stessi laboratori l’idea dei sindacati indipendenti. Lo scopo era essenzialmente educativo. Siccome con il passare del tempo il materiale raccolto aumentava siamo dovuti passare a un’edizione mensile. Mandavamo un’edizione inglese alle organizzazioni sindacali straniere e quella cinese alle fabbriche in Cina. Spedivamo il bollettino agli uffici dei sindacati ufficiali interni alle aziende, nonostante sapessimo che sarebbe stato spesso, se non sempre, girato direttamente al locale posto di polizia. Ma questo in sé non era un problema visto che la polizia ha, più di tutti, il bisogno di imparare qualcosa. Dal 2000 siamo passati completamente su internet.
Lei ha anche un programma alla radio…
Sì, si chama Labour Express e va in onda su Radio Fee Asia dal marzo del 1997. Mi diedero uno spazio bisettimanale per commentare i problemi del mondo del lavoro in Cina. Ma dopo qualche mese ho detto ai responsabili della radio che non potevo continuare a parlare dei problemi dei lavoratori senza poter parlare direttamente con loro. Mi stavo accorgendo, infatti, di perdere un po’ il contatto con la realtà. Così ho suggerito di dare un numero di telefono in modo che i miei ascoltatori potessero chiamarmi gratuitamente. Così mettemmo a disposizione una segreteria telefonica sulla quale gli ascoltatori potevano raccontare le loro storie. L’idea fu subito un successo e non solo le mie trasmissioni divennero più interessanti, ma anche i miei articoli e le mie prese di posizioni divennero molto più ancorati alla realtà e ai fatti concreti. Poi abbiamo deciso di passare le telefonate in diretta e siamo arrivati a coprire in tempo reale dimostrazioni e scioperi: la gente mi chiamava dalle cabine telefoniche lungo le strade e io potevo intervistarli mente i fatti accadevano.
Da dove arrivano le chiamate?
Da un po’ tutta la Cina, anche da Tibet e dallo Xinjiang.
Ma cosa consiglia ai lavoratori che le chiedono aiuto?
Noi abbiamo sviluppato una forma di lotta che si basa sull’incoraggiamento dei lavoratori a seguire le vie legali. Prendiamo l’esempio dei salari arretrati non pagati dalle aziende di Stato: la legge cinese è molto chiara sulla responsabilità del Governo di pagare i salari dei lavoratori. Il Ministero del Lavoro non solo è obbligato a pagare i salari arretrati, ma deve pagare un risarcimento per gli arretrati non corrisposti. Nessun giudice in Cina può negare questi regolamenti, ma quasi nessuno si permette mai di ricorrere a loro. Il nostro servizio è quello di spiegare le procedure legali ai lavoratori e di trovare avvocati che vogliano prendersi carico dei loro casi. Qualche anno fa alcune decine di lavoratori di un’enorme fabbrica tessile di Suizhou, nella provincia di Hubei, sono stati arrestati dopo una dimostrazione e sono stati mandati in un centro di rieducazione senza alcun processo. Noi abbiamo mandato un avvocato da Pechino che è andato all’Ufficio di pubblica sicurezza locale dicendo che quella era una decisione amministrativa illegale. Solo allora hanno rilasciato i lavoratori. Dopo quel caso abbiamo sviluppato un “programma di intervento sui casi legali” che risulta molto efficace. Ma soprattutto sempre più avvocati ci chiedono di lavorare con noi e non hanno più paura di uscire allo scoperto.
Lei ha parlato di imprese di stato. Ma cosa succede per il settore privato?
Il settore privato è di due tipi: quello locale e quello straniero. È molto più facile lavorare con le imprese straniere che con quelle cinesi. Le aziende locali sono per la stragrande maggioranza ex monopoli di Stato privatizzati e comprati da ex funzionari del partito ancora molto protetti dall’attuale establishment. Con le compagnie straniere, incluse quelle di Taiwan, Hong Kong e Corea, accade che, certo, i manager paghino i funzionali locali per fare quello che vogliono. Ma noi possiamo far pressioni su questi funzionari indicando innanzi tutto la legge sul lavoro, ma anche facendo presente che stanno proteggendo investitori stranieri a discapito dei lavoratori cinesi. A volte questo argomento sortisce qualche effetto. Con le aziende straniere è più facile anche perché la maggior parte dei lavoratori vengono dalle campagne e non sono mai stati protetti da nessuno. Mentre nelle aziende locali i lavoratori sono gli stessi dei tempi del monopolio di Stato e, nonostante i loro salari siano stati drasticamente diminuiti, in loro è ancora viva la credenza che, in fondo, lo Stato si prenda cura di loro.
Si può dire che i sindacati ufficiali difendono più il management delle aziende piuttosto che i lavoratori?
Certo, è assolutamente vero e si può dire ovunque in Cina. In molti casi i funzionari dei sindacati ufficiali fanno loro stessi parte del management delle aziende.
Ma le aziende occidentali non potrebbero offrire condizioni migliori di lavoro e fare pressioni sul Governo per il rispetto dei diritti umani?
Io non la vedo da questo punto di vista. Gli investitori stranieri non sono organizzazioni di beneficenza e vengono in Cina per fare il maggior utile possibile. A me interessa far capire ai lavoratori cinesi che ci sono già le basi legali per organizzarsi per poter difendere i propri diritti. Quel che sto cercando di fare è di creare un vero e proprio movimento sindacale. È chiaro che il singolo lavoratore non può fare granché. Il problema è che la maggior parte dei lavoratori è terrorizzata e preferisce subire i soprusi che rischiare qualcosa.
Quindi l’Occidente non può far nulla?
Certo, i Governi possono fare pressioni su Pechino e i media possono raccontare quello che succede. Tutto questo è molto utile, ma non mi aspetto che i businessman occidentali si trasformino in dame della carità.
Il presidente cinese Hu Jintao continua a ribadire che l’obiettivo del Governo è quello di creare una “società armoniosa”. Cosa pensa di questo tipo di retorica?
Una “società armoniosa” è un luogo dove le persone si trattano in modo civile. Questo è quello che intendo io, per lo meno. Una “società armoniosa” non può essere un luogo dove tutti se ne stanno zitti o un luogo dove il potere politico fa in modo che nessuno si possa lamentare. Una “società armoniosa” non è necessariamente una società “tranquilla”, è una società vitale, in cui le persone possono discutere, contrattare. Una “società armoniosa” è una società, tra l’altro, in cui lavoratori e datori di lavoro possono mettersi davvero d’accordo. E non è quello che capita oggi in Cina.