THE TANK MAN


Questo è un segmento di un lungo documentario di “Frontline” sui fatti di Tienanmen. Il video integrale lo trovate sul sito della PBS.

Chi era l’uomo che fermò i carriarmati? Come si chiamava? Riuscì a fuggire? Fu arrestato? Fu condannato a morte?
Dopo vent’anni a nessuna di queste domande è ancora possibile dare una risposta.

Nel video integrale un giornalista mostra la foto del Tank Man a quattro studenti dell’università di Pechino. Nessuno di loro riesce a dire a cosa si riferisca quell’immagine. In Cina, infatti, ancora oggi quell’immagine non si trova neanche cercando su Google.

E SE LA CINA AVESSE UN SINDACATO LIBERO?

HAN DONGFANGINTERVISTA A HAN DONGFANG

Dal Giornale del Popolo del 29 gennaio 2008

In quel tragico maggio del 1989 – quello delle proteste studentesche in piazza Tienanmen – si trovò, quasi per caso, ad essere il portavoce del primo sindacato indipendente della storia della Cina. Allora Han Dongfang era giovane, aveva 25 anni. In mezzo a una piazza piena di studenti, lui si trovò a manifestare in nome dei lavoratori. Quando il 4 giugno l’esercito cominciò a sparare sulla folla i suoi compagni lo portarono via a forza perché volevano salvargli la vita. Fosse stato per lui sarebbe rimasto lì, ad affrontare le pallottole. «Sogni di eroismo erano nell’aria in quei giorni» ricorda. La vita gli fu salvata, ma non gli fu risparmiato il carcere e le torture. Riuscì a uscire di prigione solo a causa di una forte tubercolosi e, grazie a un’organizzazione per i diritti umani americana, riuscì a giungere negli Stati Uniti dove lo curarono asportandogli un polmone.
Oggi non può tornare in Cina, ma da Hong Kong ha fondato una rivista, il China Labour Bulletin, che parla dei diritti dei lavoratori cinesi, conduce un programma radiofonico seguito in tutta la Cina e fornisce consulenza giuridica a chi ha il coraggio di rivendicare i propri diritti. Già, perché la Cina sarà pure un regime comunista dove i diritti umani sono un miraggio, ma anche a Pechino vigono una costituzione e delle leggi. È proprio partendo dal rispetto delle leggi vigenti che Han Dongfang prova a far partire la lotta contro i soprusi sui lavoratori. Una questione culturale e di mentalità, dice lui. Una goccia nel mare, diciamo noi. Lo abbiamo incontrato i in occasione del convegno VeriDiritti del mese scorso ad Ascona.

Signor Han, lei viene definito il Lech Walesa cinese. Si riconosce in questa definizione?

No, non mi piace affatto. La Polonia della fine dell’inizio degli anni ’80 è molto diversa dalla Cina di oggi. Certamente Lech Walesa è uno dei miei eroi, ma quando ci si riferisce a lui lo si mette in relazione con la caduta del regime comunista. Il mio obiettivo primario non è quello di far cadere il regime cinese. Io cerco di far capire ai lavoratori cinesi che hanno gli strumenti per difendere i loro diritti.

Dopo le vicende di Tienanmen, come è continuata la sua attività di difesa dei diritti dei lavoratori?
Nel marzo del 1994 ho fondato a Hong Kong il China Labour Bulletin. Lo scopo era quello di pubblicare un documento settimanale che avrebbe parlato di ciò che succedeva in Cina, descrivendo la vita dei lavoratori, e avrebbe spiegato agli stessi laboratori l’idea dei sindacati indipendenti. Lo scopo era essenzialmente educativo. Siccome con il passare del tempo il materiale raccolto aumentava siamo dovuti passare a un’edizione mensile. Mandavamo un’edizione inglese alle organizzazioni sindacali straniere e quella cinese alle fabbriche in Cina. Spedivamo il bollettino agli uffici dei sindacati ufficiali interni alle aziende, nonostante sapessimo che sarebbe stato spesso, se non sempre, girato direttamente al locale posto di polizia. Ma questo in sé non era un problema visto che la polizia ha, più di tutti, il bisogno di imparare qualcosa. Dal 2000 siamo passati completamente su internet.

Lei ha anche un programma alla radio…

Sì, si chama Labour Express e va in onda su Radio Fee Asia dal marzo del 1997. Mi diedero uno spazio bisettimanale per commentare i problemi del mondo del lavoro in Cina. Ma dopo qualche mese ho detto ai responsabili della radio che non potevo continuare a parlare dei problemi dei lavoratori senza poter parlare direttamente con loro. Mi stavo accorgendo, infatti, di perdere un po’ il contatto con la realtà. Così ho suggerito di dare un numero di telefono in modo che i miei ascoltatori potessero chiamarmi gratuitamente. Così mettemmo a disposizione una segreteria telefonica sulla quale gli ascoltatori potevano raccontare le loro storie. L’idea fu subito un successo e non solo le mie trasmissioni divennero più interessanti, ma anche i miei articoli e le mie prese di posizioni divennero molto più ancorati alla realtà e ai fatti concreti. Poi abbiamo deciso di passare le telefonate in diretta e siamo arrivati a coprire in tempo reale dimostrazioni e scioperi: la gente mi chiamava dalle cabine telefoniche lungo le strade e io potevo intervistarli mente i fatti accadevano.

Da dove arrivano le chiamate?
Da un po’ tutta la Cina, anche da Tibet e dallo Xinjiang.

Ma cosa consiglia ai lavoratori che le chiedono aiuto?
Noi abbiamo sviluppato una forma di lotta che si basa sull’incoraggiamento dei lavoratori a seguire le vie legali. Prendiamo l’esempio dei salari arretrati non pagati dalle aziende di Stato: la legge cinese è molto chiara sulla responsabilità del Governo di pagare i salari dei lavoratori. Il Ministero del Lavoro non solo è obbligato a pagare i salari arretrati, ma deve pagare un risarcimento per gli arretrati non corrisposti. Nessun giudice in Cina può negare questi regolamenti, ma quasi nessuno si permette mai di ricorrere a loro. Il nostro servizio è quello di spiegare le procedure legali ai lavoratori e di trovare avvocati che vogliano prendersi carico dei loro casi. Qualche anno fa alcune decine di lavoratori di un’enorme fabbrica tessile di Suizhou, nella provincia di Hubei, sono stati arrestati dopo una dimostrazione e sono stati mandati in un centro di rieducazione senza alcun processo. Noi abbiamo mandato un avvocato da Pechino che è andato all’Ufficio di pubblica sicurezza locale dicendo che quella era una decisione amministrativa illegale. Solo allora hanno rilasciato i lavoratori. Dopo quel caso abbiamo sviluppato un “programma di intervento sui casi legali” che risulta molto efficace. Ma soprattutto sempre più avvocati ci chiedono di lavorare con noi e non hanno più paura di uscire allo scoperto.

Lei ha parlato di imprese di stato. Ma cosa succede per il settore privato?
Il settore privato è di due tipi: quello locale e quello straniero. È molto più facile lavorare con le imprese straniere che con quelle cinesi. Le aziende locali sono per la stragrande maggioranza ex monopoli di Stato privatizzati e comprati da ex funzionari del partito ancora molto protetti dall’attuale establishment. Con le compagnie straniere, incluse quelle di Taiwan, Hong Kong e Corea, accade che, certo, i manager paghino i funzionali locali per fare quello che vogliono. Ma noi possiamo far pressioni su questi funzionari indicando innanzi tutto la legge sul lavoro, ma anche facendo presente che stanno proteggendo investitori stranieri a discapito dei lavoratori cinesi. A volte questo argomento sortisce qualche effetto. Con le aziende straniere è più facile anche perché la maggior parte dei lavoratori vengono dalle campagne e non sono mai stati protetti da nessuno. Mentre nelle aziende locali i lavoratori sono gli stessi dei tempi del monopolio di Stato e, nonostante i loro salari siano stati drasticamente diminuiti, in loro è ancora viva la credenza che, in fondo, lo Stato si prenda cura di loro.

Si può dire che i sindacati ufficiali difendono più il management delle aziende piuttosto che i lavoratori?

Certo, è assolutamente vero e si può dire ovunque in Cina. In molti casi i funzionari dei sindacati ufficiali fanno loro stessi parte del management delle aziende.

Ma le aziende occidentali non potrebbero offrire condizioni migliori di lavoro e fare pressioni sul Governo per il rispetto dei diritti umani?
Io non la vedo da questo punto di vista. Gli investitori stranieri non sono organizzazioni di beneficenza e vengono in Cina per fare il maggior utile possibile. A me interessa far capire ai lavoratori cinesi che ci sono già le basi legali per organizzarsi per poter difendere i propri diritti. Quel che sto cercando di fare è di creare un vero e proprio movimento sindacale. È chiaro che il singolo lavoratore non può fare granché. Il problema è che la maggior parte dei lavoratori è terrorizzata e preferisce subire i soprusi che rischiare qualcosa.

Quindi l’Occidente non può far nulla?

Certo, i Governi possono fare pressioni su Pechino e i media possono raccontare quello che succede. Tutto questo è molto utile, ma non mi aspetto che i businessman occidentali si trasformino in dame della carità.

Il presidente cinese Hu Jintao continua a ribadire che l’obiettivo del Governo è quello di creare una “società armoniosa”. Cosa pensa di questo tipo di retorica?
Una “società armoniosa” è un luogo dove le persone si trattano in modo civile. Questo è quello che intendo io, per lo meno. Una “società armoniosa” non può essere un luogo dove tutti se ne stanno zitti o un luogo dove il potere politico fa in modo che nessuno si possa lamentare. Una “società armoniosa” non è necessariamente una società “tranquilla”, è una società vitale, in cui le persone possono discutere, contrattare. Una “società armoniosa” è una società, tra l’altro, in cui lavoratori e datori di lavoro possono mettersi davvero d’accordo. E non è quello che capita oggi in Cina.

DONINELLI IN PIAZZA TIENANMEN

Ho letto il reportage dalla Cina di Luca Doninelli pubblicato in due puntate nei giorni scorsi sul Giornale. Dice alcune cose molto sagge e interessanti:

1) Noi che lavoriamo con la Cina – nel commercio, nella finanza, nell’impresa – non ci accorgiamo nemmeno di essere soli, uno per uno, di fronte a un mondo compatto, che si muove compattamente. E non ce ne accorgiamo perché noi, invece, non portiamo in Cina il nostro mondo, portiamo (al massimo) solo noi stessi, la nostra avidità: per questo i cinesi ci vogliono rapire pezzi di quel mondo che noi, ai loro occhi, stiamo sottraendo loro.
La Cina, invece, è sempre un mondo, ed è come mondo che si muove. L’apparente individualismo di molti rampanti non deve trarre in inganno. La Cina è un mondo e cerca mondi – tant’è che, all’università per le discipline economiche, si studia Dante.

2) La Cina coniuga coerentemente la propria storia e la propria antropologia con il modello globalista, che non è né occidentale né orientale. Rispetto all’Occidente, ha una storia altrettanto antica ma appare molto più pronta ad abbracciare il mondo globalizzato, come se la globalizzazione fosse stata inventata appositamente per i cinesi. Il loro vantaggio sta nella minima considerazione accordata alla persona umana, nella superiorità della funzione sull’individuo. L’impressionante muro di palazzi che costeggia le grandi vie di Pechino comunica una freddezza che Manhattan non ha. Finestra dopo finestra, piano dopo piano, noi vediamo con l’immaginazione corridoi e stanze, scrivanie, sedie, computer, moquette, marmi, fontane, show-room, sorrisi, mani ben curate, vediamo le funzioni e le cariche, direttore generale, direttore di dipartimento, segretario generale, dirigente di reparto, capufficio, impiegato, telefonista: ma non vediamo il volto delle persone. Senza la persona umana e i suoi diritti, la pianificazione può trionfare, il piano potrà essere realizzato.

Prima puntata: L’intraducibile Cina, il mondo senza persone
Seconda puntata: Il ritmo globalizzato della «movida» cinese

TIENANMEN: LA CENSURA FA CILECCA

da Estremo Occidente
“Su un giornale locale della Cina del sud-ovest è apparso un annuncio pubblicitario a pagamento per rendere omaggio alle “madri di Tienanmen”, l’associazione di mamme degli studenti e dei lavoratori uccisi nella repressione del 1989. Da 18 anni le “madri di Tienanmen” si battono per avere giustizia, ma il regime ignora le loro rivendicazioni, il massacro di Tienanmen resta un tabù e perfino il numero esatto delle vittime della repressione è coperto dal segreto di Stato. L’inserzione a pagamento è uscita nell’anniversario del 4 giugno 1989, il giorno in cui i carriarmati dell’Esercito Popolare di Liberazione schiacciarono nel sangue la protesta democratica di Pechino. La pubblicità, nell’angolo in basso a destra a pagina 14 del quotidiano Notizie della Sera di Chengdu (10 milioni di abitanti, capitale dello Sichuan), reca la scritta “Omaggio alle forti madri delle vittime del 4 giugno”. L’annuncio è sfuggito alla censura. La polizia ha immediatamente aperto un’inchiesta per scoprire come la pubblicità è potuta uscire sul giornale e chi l’ha commissionata”.

BALLERINE, GRATTACIELI E SALARI DA FAME

Viaggio a Shenzhen: la culla del capitalismo cinese
“Ella que-se-ra, she’s livin’ la vida loca / Y te do-le-ra / Si de verdad te toca”. Le note frenetiche di Ricky Martin accompagnano la danza indiavolata di tre ballerini che sgambettano sul bancone del bar. Sono in tre. Lui, capelli a caschetto, veste una tutina rossa anni 70 che avvolge un fisico atletico. Balla tra una bionda e una bruna in minigonne svolazzanti. Sorridono dall’alto agli avventori a testa in su, seduti tra i tavolini illuminati da luce soffusa. “She’s livin’ la vita loca…”. È la notte di Halloween e il ristorante “Romas” di Shenzhen ha organizzato una festa a tema, con tanto di ballerini, streghe e porta candele a forma di zucca. Siamo nel quartiere di Shaokoi, il più occidentale della culla del boom economico cinese. Il proprietario del “Romas” è Ferdi Gerhard, uno zurighese sulla cinquantina che ha fatto affari ad Hong Kong e ora ha aperto questo locale “italiano” che riscuote un certo successo tra gli occidentali accorsi in questa città come in una sorta di corsa all’oro.
Nel 1980 Shenzhen è un piccolo villaggio di pescatori separato da una lingua di mare dai grattacieli e dallo sfarzo di Hong Kong. In quell’anno Deng Xiao Ping decide di istituire, agli albori del passaggio dall’economia stanilista al capitalismo selvaggio, una Zona Economica Speciale (ZES) come laboratorio per un esperimento da estendere a tutto il Paese. La scelta cade proprio su Shenzhen grazie alla sua vicinanza con il cuore del capitalismo orientale: Hong Kong. Da quel momento il villaggio viene ricoperto di capitali statali e in un men che non si dica diventa una delle città più ricche del Paese. Un esempio paradigmatico della velocità del boom è quello del quotidiano della Zona Economica Speciale. Nel 1982, l’anno della sua fondazione, il pugno di giornalisti della redazione lavora in piccolo prefabbricato di pochi metri quadrati. Oggi, 25 anni dopo, quello che è diventato lo “Shenzhen press group” pubblica undici quotidiani e cinque settimanali per un totale di due milioni di copie e dà lavoro a 6200 persone di cui 2000 sono giornalisti. E la redazione? Beh, nel prefabbricato non ci stanno più tutti e la sede principale del gruppo è un modernissimo grattacielo di una cinquantina di piani. Ecco, Shenzhen è questa: una città dove la ricchezza si misura con il numero di piani del tuo grattacielo. Il più famoso di tutti, anche se non è né il più bello né il più alto, viene chiamato “World Trade Tower” tirato su nel 1985 in appena 14 mesi, una media di tre giorni per ogni piano. Ecco, Shenzhen è questa: una città dove la velocità si misura in “giorni per piano di grattacielo”.
Ad avermi portato al “Romas” di Shaokoi è Daniel Frattini. Daniel ha 32 anni, è nato in Corea del Sud, è stato adottato da genitori della svizzera interna (il padre di Zurigo e la madre di Ginevra) e ha sposato una ragazza di Shenzhen. Ora vivono e lavorano qui con una bambina di un anno e mezzo. Si chiama Margot e non avrà altri fratelli a causa della legge del figlio unico. “Questa legge – dice Daniel – sta procurando uno squilibrio tra maschi e femmine in favore dei maschi. L’unico vantaggio è che Margot non avrà difficoltà a trovare marito…”. Sorride. Daniel ha cambiato alcuni lavori da quando è a Shenzhen, ma ora lavora con le agenzie di viaggio svizzere e organizza tour in Cina. “La maggior parte degli imprenditori europei pensa che i migliori affari si facciano a Shanghai, ma pochi sanno che qui a Shenzhen le condizioni fiscali sono molto migliori”. Ci indica un edificio non lontano dal “Romas” dove hanno sede tutte le maggiori aziende petrolifere occidentali che da qui gestiscono gli affari del greggio estratto dalle piattaforme al largo di Hong Kong. “Certo non basta venir qui per fare affari – dice Daniel – occorre essere anche capaci, che storie”. Mi accompagna nella piazzetta centrale di Shaokoi dove da qualche anno un francese ha aperto la “Brasserie Napoleon”. “Si trova in una zona centralissima eppure il locale è sempre vuoto. Si mangia male e il conto è salato. Siamo in Cina, d’accordo, ma queste cose contano anche qui”.
A parte la “Brasserie Napoleon”, il successo dei progetti occidentali in Cina non è mai stato automatico, anzi. Fino a qualche anno fa un imprenditore occidentale che volesse aprire un’attività a Shanghai o Shenzhen doveva trovarsi obbligatoriamente un partner sul posto con cui stringere una joint venture. La parte cinese aveva sempre il 50 più uno delle azioni dell’azienda anche se il know how lo metteva quasi sempre l’occidentale. Ma il gioco non durava molto: una volta acquisito il know how il partner cinese lasciava a piedi la contro parte occidentale che tornava a casa con le pive nel sacco. C’è chi dice, tra gli analisti, che sia accaduto nel 95% dei casi.
Qui chi è sicuro di fare affari d’oro sono le grandi aziende private ma a controllo statale. La sigla ZTE in Svizzera non ci dice niente: si tratta di una delle più arrembanti industrie di tecnologia per le telecomunicazioni dal mondo. Nel 2004 ha avuto un giro di affari di 4,1 miliardi di dollari e un utile di 2,7 miliardi con tassi di crescita da capogiro. Produce telefonini dell’ultima generazione con design da far invidia alla Nokia. I suoi server sono stati utilizzati durante le olimpiadi di Atene e, neanche a dirlo, ha vinto l’appalto anche per quelle che si terranno a Pechino nel 2008. Dà lavoro 21mila persone. Ho fatto un giro nei suoi stabilimenti: perfetti. Pulizia, silenzio, ordine. Otto ore di lavoro cinque giorni a settimana. Nulla da ridire. Peccato che sia l’unica fabbrica che i miei ospiti cinesi, “vagamente” vicini al Partito, mi hanno permesso di visitare. La marcia in più dell’economia cinese, non è un mistero, è la manodopera a basto costo che vive e lavora in condizioni subumane. Stando a una ricerca dall’associazione britannica Impactt, che si occupa di migliorare l’impatto sociale delle grandi catene di distribuzione, la giornata di lavoro media di un operaio cinese dura 14 ore e il suo salario è di 75 euro al mese. Nonostante alcune aziende importatrici, soprattutto americane o britanniche, tentino di combattere gli abusi attraverso un sistema di “certificazione etica” grazie a un libretto di lavoro per gli operai sul quale vengono registrati orari di lavoro e salario, le fabbriche cinesi trovano il modo per falsificare sistematicamente i dati. Nell’arco di tre anni i consulenti di Impactt hanno visitato 100 fabbriche cinesi che forniscono 11 grandi catene di distribuzione che operano in Gran Bretagna, e in nessuna di queste esistevano condizioni lavorative soddisfacenti. Per non parlare della sicurezza sul lavoro: in Cina le morti sul lavoro sono 12 volte più frequenti che in Inghilterra. Nella sola Shenzhen 13 operai ogni giorno perdono sul lavoro un dito o un braccio. Ecco, Shenzhen è questa: una città dove ogni anno ci sono 4700 nuovi mutilati.
Ma la tensione sociale in città sta per far saltare il coperchio e le proteste sono quasi all’ordine del giorno. Lo scorso 6 ottobre 2005 tremila operai di una fabbrica di componenti elettronici, una joint venture tra Hong Kong e Cina, hanno bloccato l’entrata della fabbrica e il traffico nelle strade circostanti per protestare contro il salario di 28 dollari al mese. Il 2 novembre altri 3 mila dipendenti di una fabbrica italiana di divani hanno bloccato l’autostrada per protestare contro le violenze tra tre operai e il datore di lavoro a seguito di una discussione sul salario. Il 6 novembre circa mille veterani dell’Esercito di liberazione popolare hanno marciato per protestare dopo che due ex commilitoni sono stati arrestati durante proteste sempre per i salari. Ma non è solo questione di soldi. Il 19 gennaio 2006, infatti, migliaia di persone hanno manifestato contro la chiusura forzata di alcune decine di bar, discoteche, night club e sale per il karaoke. Le autorità locali, nel contesto di una campagna contro il vizio, hanno accusato la malavita di usare questi locali come copertura per la prostituzione. “Ella que-se-ra, she’s livin’ la vida loca”.

DOVE I CINESI NON HANNO GLI OCCHI A MANDORLA

Viaggio nello Xinjiang patria della minoranza musulmana degli uyghuri perseguitata dal governo di Pechino

A Pechino il sole è sorto già da un paio d’ore quando l’alba illumina i grattacieli di Ürümqi, capitale della regione più ad occidente della Cina: lo Xinjiang. Nonostante tra la capitale e questa periferia dell’impero vi siano due fusi orari di differenza, arrivati all’aeroporto di Ürümqi non occorre spostare le lancette dell’orologio perché su tutto il territorio cinese l’unica ora è quella segnata dagli orologi dei dirigenti del partito di Pechino. Gli uffici aprono alle dieci del mattino e comunque esiste un orario ufficioso che fa corrispondere l’ora alla posizione del sole nel cielo. Quando ci si dà appuntamento occorre dunque intendersi bene a quale dei due orari si fa riferimento. Ma il ritardo dello Xinjiang su Pechino non è soltanto una questione di orari. La più grande provincia cinese (la cui superficie è circa 37 volte quella della Svizzera e la popolazione supera i 16 milioni) è toccata solo in modo marginale dal grande fermento economico che si vive sulle coste orientali non solo nella capitale, ma soprattutto in città come Shanghai o Shenzhen. Qui, a parte i grandi cantieri della capitale Ürümqi, il ritmo è molto più lento e la regione – occupata tra l’altro dal secondo deserto più grande del mondo – è ancora un Paese di contadini.

Ma ciò che più colpisce camminando per le strade di Kashgar, una mitica oasi sull’antica Via della Seta, è – banalmente – che gli abitanti non hanno gli occhi a mandorla. Il 60 per cento della popolazione dello Xinjian, infatti, non è di etnia han, quella maggioritaria nel resto del Paese, ma è formata da uyghuri, musulmani di lingua turca. Qui, praticamente al centro del continente asiatico, gli uyghuri vivono da centinaia di anni assieme a tagiki, kirghisi e uzbeki. Kashgar è molto più vicina a Bushkek, Kabul e Islamabad piuttosto che a Pechino, e si vede. Basta passeggiare per le vie del centro o della città vecchia per accorgesi che, a parte le scritte sui cartelli in mandarino (sempre accompagnate dalla versione turca), c’è poco in comune con la Cina che appartiene all’immaginario collettivo. I volti espressivi degli artigiani di strada, dei fruttivendoli o dei macellai che vendono le loro carni lungo i marciapiedi come avviene nei Paesi arabi danno l’impressione di essere in un altro pianeta rispetto gli sguardi inespressivi di chi affolla i grandi magazzini di stile occidentale di Pechino o Shenzhen. I cappelli con la banda di pelliccia nera incorniciano volti scavati dagli anni passati nelle piccole case riscaldate da stufe a carbone. Eppure siamo nella stessa Cina che fu degli imperatori, di Mao e Deng Xiao Ping, Jiang Zemin e oggi Hu Jintao. Qui si è veramente alla periferia dell’impero e l’imperatore per fare sentirsi sentire deve alzare la voce. Lo dimostra il fatto che nella piazza principale di Kashgar sorga una delle più imponenti statue del presidente Mao mai erette, come dire, “avete capito chi comanda qui?”.

Già, perché nonostante nel 1955 Mao abbia concesso allo Xinjiang lo status di Regione autonoma il potere di Pechino non ha mai allentato la presa. Il motivo è semplice: il sottosuolo dello Xingjiang è ricco di carbone, gas e petrolio che fanno la gioia di Petrochina e Sinopec, le due maggiori aziende petrolifere di Stato cinesi. Dagli anni Cinquanta a oggi il governo ha favorito una massiccia immigrazione di popolazione di han, ufficialmente per contribuire allo sviluppo della regione, di fatto per garantirsi il controllo politico ed economico. Basti dire che nella regione negli ultimi dieci anni gli han sono aumentati del 37 per cento, mentre gli uyghiri – pur non essendo sottomessi in quanto minoranza alla legge del figlio unico – del 17 per cento.
Questo atteggiamento, che non a torto si potrebbe definire “imperialista”, unito a una sempre maggiore discriminazione dell’etnia uyghura ha creato un malcontento crescente che ha sollevato nel migliore dei casi istanze di maggior autonomia.

Tutto nasce dal rapporto travagliato tra governo e religione musulmana. Al turista che si rechi a Kashgar tutte le guide segnalano la visita alla moschea Id Kah, fondata nel 1442 e considerata la più grande e importante della Cina. Il tempio, noto per il suo ingresso monumentale, può ospitare diverse migliaia di fedeli all’esterno e al suo interno l’imam si inginocchia su un prezioso tappeto dopo del presidente iraniano in persona. Secondo un dossier pubblicato l’anno scorso da Human Right Watch dalla metà degli anni Novanta il controllo dello stato sull’islam è passato dalla sola volontà di scegliere gli imam e i responsabili delle comunità a vere e proprie vessazioni sui laici. Secondo i dati raccolti da HRW spesso le moschee sono sotto completa sorveglianza da parte dello Stato con lo scopo di scoraggiare la loro frequentazione da parte dei bambini e dei giovani. Per alcuni studenti e membri dell’amministrazione pubblica è stato impossibile partecipare pubblicamente ad attività religiose diverse dall’osservare il precetto dell’astinenza dalla carne di maiale. Altri cittadini di etnia uyghura hanno perso il lavoro o sono stati arrestati soltanto perché considerati troppo religiosi. Uno degli strumenti utilizzati dal governo per attuare la repressione religiosa nello Xinjiang è quella di approfittare dell’annuale campagna contro la criminalità. Mentre nel resto del Paese l’iniziativa colpisce la criminalità in genere in questa regione è utilizzata per reprimere l’attività religiosa degli uyghuri basandosi sull’assunto che essa serva da copertura per iniziative a carattere separatistico. Per HRW ogni anno nella regione sarebbero migliaia gli arresti per “attività religiose illegali” e nel 2004 il partito comunista ha reso noto che nella prima metà di quell’anno erano stati 22 gli individui o i gruppi coinvolti in “attività terroristiche e separatistiche”. Lo Xinjiang, tra l’altro, gode del primato delle sentenze di morte per crimini contro la sicurezza dello stato dal 1997: per ora sono 200.
Dopo l’11 settembre 2001 Pechino ha approfittato della “guerra al terrorismo” per presentare al mondo i gruppi indipendentisti uyghuri come gruppi terroristici ed è riuscita a far inserire il Movimento islamico del Turkestan orientale (ETIM) sulla lista delle organizzazioni terroristiche delle Nazioni Unite. Alcuni uyghuri sono stati arrestati al fianco dei talebani in Afghanistan, ma in patria dal 1998 non si registrino significative attività militari da parte di questo gruppo. Fatto sta che oggi in Cina “indipendentista uyghuro” è sinonimo di “terrorista”. Incontrando i giornalisti di Tele Kashgar, la tv bilingue (cinese-uyghuro) controllata dallo Stato, alla domanda “Informate delle attività dei gruppi indipendentisti?” la risposta pronta è: “Certo, abbiamo fatto alcuni reportage sui terroristi”. Per le strade di Kashgar e Ürümqi si vedono alcune donne coperte da una sorta di shador azzurro di lana grossa. Dicono che negli ultimi anni questi shador siano aumentati e sarebbe il segno di infiltrazioni di correnti fondamentaliste importate dai vicini Pakistan e Afghanistan. Tuttavia la preoccupazione degli uyghuri non sembra essere la religione in sé, quanto piuttosto la percezione di una minaccia alla propria identità di popolo e un sentimento crescente di essere colonizzati dai cinesi di Pechino. Essi vedono nelle restrizioni poste dal governo alla loro religione un tentativo indebolire la loro identità, la loro cultura la loro tradizione di uyghuri .
L’amministrazione dello Xinjiang ha inaugurato lo scorso ottobre a Ürümqi la nuova sede del “museo delle nazionalità” dove, in una struttura monumentale, il visitatore è introdotto in un percorso per conoscere le numerose etnie che convivono nella regione. In uno dei primi pannelli della mostra si legge: “Tra il I secolo a.C e il III secolo d.C tutte le nazionalità dello Xinjinag hanno vissuto basandosi sul proprio lavoro diligente, costruendo dimore bellissime, promuovendo lo sviluppo dell’agricoltura e l’allevamento, sviluppando l’artigianato, il commercio e la comunicazione contribuendo così al progresso della società”. Insomma: è dalla notte dei tempi che qui si vive in modo pacifico, perché smettere proprio adesso?
Il sole cala presto sull’orizzonte dello Xinjiang, quando a illuminare le strade di Pechino sono già i lampioni. Ma fusi orari a parte, la notte della speranza del popolo uyghuro dura 24 ore su 24.