ISRAELE, QUELLO STATO BAMBINO CRESCIUTO NELLE CONTRADDIZIONI

INTERVISTA A VITTORIO DAN SEGRE

Dal Giornale del Popolo del 15 maggio 2008

Solo, seduto su una torretta di guardia in mezzo a un aranceto a venti chilometri a Nord di Tel Aviv. Accanto a sé un cavallo, un fucile e una radio militare che gracchia le parole di David Ben Gurion che proclama la nascita di Israele. Vittorio Dan Segre ha 22 anni e non può ancora saperlo, ma la storia riserverà grandi cose a lui e a quello Stato bambino e già costretto a difendersi. Prima soldato semplice, poi diplomatico, poi professore universitario a Oxford, all’MIT di Boston e alla Stanford University e fino alla fondazione, a Lugano, dell’Istituto di Studi Mediterranei. Segre è un protagonista, un testimone e un analista acuto della parabola di un giovane Stato che ha compiuto sessan’anni.

Professor Segre, cosa ci faceva in quell’aranceto?

Nel maggio 1948 io attendevo di essere destinato ad un’unità paracadutista che speravo di poter creare in base alla mia esperienza di sei anni nell’esercito britannico. Avevo presentato una domanda, ma in Israele non esistevano né paracaduti né estensioni di terreno sufficientemente larghe per permettere dei lanci, così come mi aveva detto il nuovo comandante dell’aviazione. In attesa di essere chiamato a funzioni più interessanti avevo accettato di fare la guardia a cavallo. Così, solo, in mezzo al silenzio di quell’aranceto assistetti da lontano e senza gloria alla nascita del primo Stato ebraico dopo duemila anni.

Che clima si respirava nei giorni della vigilia di quell’evento?
Bisogna tener conto di chi respirava. Immagino che c’era gente molto preoccupata, ma chi come noi era giovane, io avevo 22 anni, e che attendeva con emozione e impazienza l’esito dello scontro che era già in corso. Almeno nelle nostre file c’era un senso, forse folle, di totale sicurezza. Il che era spiegabile non soltanto con la nostra giovane età, ma soprattutto per il fatto che tutti sapevamo che avevamo bruciato i ponti dietro di noi. Di conseguenza, come Cortes in Messico, non potevamo che vincere, altrimenti saremmo spariti.

Che attese avevate e quali tra esse si sono realizzate?

L’attesa era semplice: la creazione di uno Stato e la possibilità che sopravvivesse. In questo senso eravamo arrivati alla stazione finale del movimento di liberazione nazionale ebraica, del sionismo. Un po’ come nel caso del Risorgimento italiano, tutto quello che successe dopo, nel bene e nel male, era qualcosa in più, al massimo degli ideali per i quali eravamo andati a combattere.

Come giudica questi sessan’anni?
Sono stati un continuo miracolo. Logicamente non c’è nessuna ragione per la quale un piccolo gruppo, si trattava allora di al massimo 600mila persone, potesse da un lato respingere l’offensiva dei Paesi confinanti. È poi difficile spiegare come un Paese coloniale senza risorse, nel quale nel 1934 una commissione britannica aveva detto che non c’era più posto neanche per un gatto, potesse diventare non soltanto la più grande comunità ebraica del mondo, ma anche un Paese che da agricolo si è trasformato in un post-industriale all’avanguardia dell’industria high-tech. È poi straordinario che un Paese in situazione di guerra ininterrotta, fatta eccezione dei due trattati di pace con Egitto e Giordania, si stia sviluppando negli ultimi sei anni al ritmo dell’economia asiatica. Tutto questo se lei lo guarda dal punto di vista di allora sembra assolutamente inspiegabile.

Quale parte del sogno non si è realizzato?
In particolare non si è realizzata una società modello. La società che costituisce lo Stato di Israele è una società normale nell’anormalità della situazione politica, ma molto simile a quella di tutti gli altri Paesi democratici.

Qual è la singolarità dello Stato di Israele?
Lo Stato è nato come Stato sionista degli ebrei. Oggi invece è sempre più uno Stato ebraico. La differenza è enorme. C’è una differenza di legittimità del potere. Uno Stato degli ebrei è uno Stato in cui la legittimità del potere viene determinato dal parlamento e dal voto popolare, uno Stato ebraico deve tener conto che per almeno una parte crescente della popolazione la base della legittimità è la Bibbia, è il legame millenario del popolo ebraico con la terra di Israele. Il secondo punto molto evidente è il fatto che si tratta dell’unico Stato ebraico in mezzo a circa 153 Stati cristiani e una trentina di Stati musulmani, ma è l’unico Stato in cui i cittadini, volenti o nolenti, religiosi o atei, per il solo fatto di dichiararsi membri di uno Stato ebraico portano con sé il messaggio di un monoteismo aristocratico, mosaico e morale, che si trova in pieno contrasto con una società che diventa sempre più materialistica, amorale e pagana. Di conseguenza continua il vecchio dramma tra il monoteismo ebraico e il paganesimo. La terza ragione è che lo Stato di Israele rappresenta in un certo senso il risveglio di un fossile. Di una civiltà che si riteneva morta, come quella greca o romana. In realtà si è rivelato, come nella profezia di Ezechiele, un morto che si è risvegliato e che ha ripreso la sua posizione sulla scena internazionale. Questo non soltanto è qualcosa di stupefacente, ma è qualcosa che preoccupa gli Stati del Medioriente, che si vogliono nazionali e unitari ma che invece sono dei mosaici di altri tipi di fossili che vorrebbero riavere se non la sovranità almeno un’autonomia che i Governi non sono disposti a concedere.

Non tutti in Israele condividono la stessa concezione di Stato, quali sono le posizioni principali?

È molto chiaro che lo Stato ebraico, come del resto lo Stato israeliano, soffre di un grosso problema di definizione e di identità. Per questo non c’è ancora una Costituzione, ad esempio. La discussione fra teocrazia e democrazia è ancora aperta. Ciò che lo distingue dai Paesi in cui questi problemi sono ancora più evidenti è che la discussione avviene in piena democrazia, senza violenze. È strano che problemi di questa profondità non abbiano provocato lotte civili.

David Ben Gurion, Golda Meyer, Moshe Dayan, Yitzhak Rabin, Ariel Sharon. Qual è il protagonista che più rappresenta la storia di Israele?

Credo che ci sia stato un solo grande uomo di Stato. Un solo politico divenuto uomo di Stato. Questo uomo è Ben Gurion. È stato lui a fondare lo Stato e lo ha guidato per un decennio nei suoi momenti più difficili. Il padre della patria è lui. Nella stessa maniera in cui padri del movimento sionista sono stati Theodor Herzl nel XIX secolo e Chaim Weizmann nel XX insieme a leader del sionismo revisionista Vladimir Jabotinsky. Penso sia questa la triade sionista, mentre per quello che concerne lo Stato, la personalità che troneggia su tutte le altre senza possibilità di confronto, nel bene e nel male, è quella di Ben Gurion.

Nel 1948 nasce un nuovo Stato, eppure secondo le Nazioni Unite erano due gli Stati che dovevano venire alla luce. Quali sono state le responsabilità di Israele e rispettivamente degli Stati arabi nella “non-nascita” dello Stato palestinese?
Questa è una delle poche questioni chiare. I due Stati non erano riconosciuti solo dall’ONU, ma erano stati riconosciuti anche da Israele. Mentre sono stati rifiutati con le armi dagli arabi. Questo fu il peccato originale dei palestinesi e di chi allora li sosteneva. I palestinesi oggi pagano duramente quella decisione.

Qual è stato il momento più luminoso di questi sessant’anni e quale quello più buio?

Il momento più luminoso ed entusiasmante, ma è stato anche il momento più critico, è stata la Guerra dei sei giorni che è apparsa a molti come un miracolo. Purtroppo nessuno dei dirigenti israeliani ebbe la levatura storica di comprendere gli immensi pericoli che nascevano dal controllo di uno Stato su territori altrui e su un popolo altri. Non si può dire che non sapessero: furono non i pochi pensatori israeliani che videro, quasi profeticamente, il futuro. Ben Gurion non era più a capo del governo ma disse all’indomani della vittoria che bisognava restituire tutti i territori occupati, ad eccezione di Gerusalemme Est per cui era convinto ci fossero dei margini di trattativa. Ed è triste che ci siano voluti quarant’anni perché l’attuale Governo di centrodestra sia tornato sulle posizioni del 1948-49 con il riconoscimento della necessità della creazione di due Stati. La mente umana dei politici lavora molto più lentamente dei corsi della storia.

Alla fine dell’anno scorso alla conferenza di Annapolis si è affermata la volontà di arrivare entro quest’anno a un accordo di pace tra Israele e palestinesi. Pensa vi siano le condizioni perché questo avvenga?

Neanche per idea. La conferenza di Annalpolis è stato il tredicesimo o il quattordicesimo tentativo, fallito, di pace con i palestinesi. Non ci sono assolutamente le condizioni per un accordo e oggi ce ne sono meno che in passato: La parte più armata, decisa, organizzata dei palestinesi non solo non vuole lo Stato di Israele, perché lo vuole distruggere ( a dirlo è la stessa costituzione di Hamas), ma non vuole nemmeno lo Stato palestinese. È questa la cosa assurda. Perché Hamas e Hezbollah vogliono uno Stato islamico, non uno Stato palestinese.

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