Ho tra le mani il bellissimo catalogo dell’istallazione di Giovanni Frangi all’ex oratorio di San Lupo a Bergamo. Non sono ancora andato a vedere l’opera dal vivo, ma c’è un momento di quel catalogo, verso la fine, che è come un tuffo al cuore. Quando dagli argenti magmatici della “terra” del pavimento di San Lupo si passa al bianco e nero di una fotografia della schiuma del mare. Ho provato lo stesso tuffo che provo ogni volta che rivedo i titoli di coda del film “Lo scafandro e la farfalla” di Julian Schnabel. Quegli iceberg che si ricompongono al rallentatore (un omaggio a Bill Viola?) come chiusa dell’epica e lirica vicenda di Jean Dominique Bauby restano, nella mia memoria, come l’immagine più convincente di una vita riuscita. Dove il tempo, cioè, non gioca contro, ma gioca a favore. Il contrario di quel che accade solitamente. Un ricomporsi dei pezzi che perdiamo, delle ferite, del dolore, dell’incapacità di amare. Penso che questo continuo moto di ricomposizione sia riconoscibile anche nel cielo leggero e nella terra magmatica dell’opera di Frangi. È come se venissero riproposti i fotogrammi di quel flusso al contrario che è la ricomposizione degli iceberg di Schnabel/Bauby. Sembra che Frangi sia riuscito a fermare sulla tela quel flusso lasciandone intatta la direzione, il senso di movimento verso l’origine/destino.
Detto fra noi: non vedo l’ora di alzare lo sguardo verso il cielo di San Lupo e tuffare gli occhi in quel mare di ghiaccio.