Dal Giornale del Popolo del 24 dicembre 2010
di Davide Dall’Ombra
In questa vigilia di Natale il nostro augurio è affidato ad uno dei quadri più celebri del Canton Ticino, il dipinto intorno al quale è stata costruita la mostra sul Rinascimento nelle terre ticinesi in corso alla Pinacoteca Züst di Rancate. Questa tavola di Bartolomeo Suardi detto il Bramantino venne realizzata per il Santuario di Orselina intorno al 1510 ed è frutto di una commissione d’eccezione, grazie alla quale fa il suo ingresso in Ticino uno dei più importanti pittori del Rinascimento. Bramantino è un artista di grande cultura ed eccentricità che sorprende ad ogni prova per l’invenzione delle proprie composizioni, ricchissime di riferimenti aulici e spiazzanti per le soluzioni formali. Il genio di Bramantino sa qui celare la sua cultura e scalarla in piani che non disturbino la percezione del semplice fedele, al quale restituisce la consueta immagine di una Fuga in Egitto: un Angelo che indica la via, Giuseppe che accompagna Maria e Gesù Bambino, posti sull’asinello. In una commisurata distribuzione di doni, all’osservatore attento il pittore regala però suggestioni più colte, da sempre causa di grattacapi iconografici che i curatori della mostra a Rancate hanno sciolto. Di chi sono, infatti, quelle gambe che spuntano tra le zampe dell’asino? Perché l’Angelo che indica la via a Giuseppe non ha le ali? La risposta è nella fonte usata per dipingere questa Fuga: il Vangelo apocrifo dello Pseudo Matteo, dove a condurre la Famiglia non è un singolo angelo, ma tre ragazzi e una ragazza. Un sottotesto colto, usato in modo esplicito già da Giotto agli Scrovegni.
Ma il sottile muoversi sul crinale delle due rappresentazioni della Fuga non è la più sostanziale dimostrazione di un’intelligenza piegata alla fruizione popolare. Ciò che rimarrà indimenticabile per il visitatore natalizio della mostra – aperta fino al 9 gennaio – e al pellegrino che al termine dei restauri si recherà al Santuario locarnese, sarà ben altro. Le imponenti figure in primo piano non nascondono infatti lo splendido paesaggio raffigurato nella parte alta del dipinto. È la Svizzera vista da un italiano: quei cieli che si fan nubi, quelle rocce che si fan castelli, quei ghiacci che si fan montagne, a lor volta trapuntante da fortezze, merli e palazzi. Non si tratta di registrazioni puntuali, perché, come ogni italiano, della Svizzera Bramantino porta a casa la sua versione; ma è indubitabile che del Ticino rivediamo qui tutti gli umidi boschi, sentiamo soffiare, distintamente, i venti freddi delle Alpi che fanno stringere Giuseppe e Maria nei loro ampi e pesantissimi mantelli. Tutto partecipa di questa ruvida carezza di brina che avvolge le figure umane, immerse in una nebbiolina che ne fa sfumare i contorni, sciolti all’aria della bruma. Spesso le figure di Bramantino appaiono lievitate, soprattutto nei volti, quasi fossero stati scaldati come pane al forno, tanto che gli occhi si fanno piccoli e delicati. Ma qui, potremmo esserne certi, la dilatazione è avvenuta non per il calore di una storia, ma per l’umidità di una temperie geografica. Qui il motore è il freddo umido che ci ridesta al mattino, è lo spirito che soffia nella natura che ci abbraccia ancora oggi, se ci svegliamo anche solo nel sottoceneri. Un vento che ci entra nelle ossa, ma nel quale non possiamo non riconoscere qualcosa di rassicurante, di nostro. È un freddo strano, misteriosamente gravido, perché è il freddo della vita. Il freddo di cui quel Bambino non ha paura, di fronte al quale non si copre, impegnato com’è ad offrirci il petto nudo ben prima del costato ferito. Un freddo che Lui viene a scaldare in modo indicibile e desiderabile, tanto che Maria, più vicina al Bambino, può scostare il mantello, mentre Giuseppe, simile ad un filosofo antico, è ancora tutto intento a dare spiegazioni che non varranno mai lo sguardo dolce, malinconico e pacificato della sua Sposa.