Manifesto. A lezione di storia dell’arte da Cate Blanchet

Manifesto Cate BlanchetHo visto “Manifesto”, il film di Julian Rosenfeld con Cate Blanchet e mi è piaciuto moltissimo. Si tratta di una versione “in linea” dell’istallazione realizzata dall’artista tedesco nel 2015. Rosenfeld si immagina tredici situazioni nelle quali la grande attrice recita i testi di 54 manifesti artistici scritti tra il 1848 e il 2002. C’è davvero di tutto: da Karl Marx a Lucio Fontana, da Marinetti a Jim Jarmush, passando per Apollinaire, Kandinsky, Breton e Sol LeWitt. Le situazioni non hanno nessun nesso con i testi che vengono recitati. L’effetto è straniante.
La qualità delle immagini è indiscutibile e di grande fascino. Cate Blanchet è bravissima.
Di questo film mi colpisce da una parte il grandissimo lavoro di conoscenza che ha alle spalle (qui potete vedere chi sono gli autori e i testi che vengono utilizzati), dall’altra quando sia in grado di offrire conoscenza. Nel lungo secolo delle ideologie anche l’arte è stata investita dalla ubriacatura delle idee. Tantissimi artisti hanno creduto di poter dichiarare in anticipo le proprie intenzioni o dettare le proprie regole all’arte. È stato un atteggiamento che, a posteriori, appare tanto naif quanto violento, ma che non ha impedito a tanti di loro di fare grandi opere. È una riconferma di quanto l’arte visiti chi vuole quando vuole.
Quanta retorica. Quanta voglia di distruggere. Quanto desiderio di portare l’arte nel campo del “non senso”.
Eppure l’arte ha resistito. Anzi, ha utilizzato di questa furia per nutrirsi e viaggiare per le sue strade.

Dall’altra parte mi colpisce la qualità letteraria di alcuni di questi testi. Prendete le parole di “A Stident Prescription” (1921) di Manuel Maples Arce (personaggio a me sconosciuto, ammetto), pronunciate dalla Blanchet nei panni di una cantante punk:

«In my glorious isolation, I am illuminated by the marvelous incandescence of my electrically charged nerves»

C’è qualcosa di molto affascinante in questa operazione. Rigorosa, elegante, spiazzante. Mi sembra ci insegni quanto poco, in arte, le dichiarazioni di intenti siano da prendere sul serio, ma anche che le idee contino tanto quanto il talento (a volte il talento si esprime attraverso le idee).

Furbo Julian Rosenfeld a utilizzare Cate Blanchet come traghetto verso il grande pubblico. Brava la Blanchet a prestarsi per un’opera così intelligente.

Save The Date: 21 maggio 3015. Black Square di Taryn Simon

Taryn Simon, Black Square VIII
Taryn Simon, Black Square, 2006–
Void for artwork 31 1⁄2 x 31 1⁄2 inches (80 x 80 cm)
Permanent installation at Garage Museum of Contemporary Art, Moscow

Ho letto sull’ultimo numero di Aperture un’intervista a Taryn Simon che parla di questa sua opera conservata al Garage Museum of Contemporary Art di Mosca.

Riproduco qui la mia traduzione della didascalia che accompagna l’opera:

Nell’anno 3015, circa un migliaio di anni dopo la sua creazione, un quadrato nero realizzato con scorie nucleari vetrificate occuperà questo spazio. Fabbricato il giorno 21 maggio 2015, il Quadrato Nero è attualmente conservato in un contenitore di acciaio e cemento armato all’interno di una camera di tenuta, circondata da terreno ricco di argilla, presso l’impianto di smaltimento dei rifiuti nucleari Radon a Sergiev Posad, che si trova 72 km a nord est di Mosca. L’opera rimarrà nell’impianto di Radon fino a quando le sue proprietà radioattive non siano diminuite a livelli ritenuti sicuri per essere esposto per gli uomini in una mostra. All’interno del Quadrato Nero sono state fuse due capsule cilindriche d’acciaio all’interno delle quali c’è una lettera che Taryn Simon ha inviato al futuro.

Il processo di vetrificazione porta i rifiuti radioattivi da un stato liquido volatile a una massa solida stabile simile a un vetro nero lucido. È considerato uno dei metodi più sicuri e più efficaci per la conservazione a lungo termine e la neutralizzazione delle scorie radioattive. Quadrato Nero XVII è stato creato in collaborazione con l’azienda di Stato russa per l’Energia Atomica (Rosatom), in occasione del centenario della prima esposizione del Quadrato Nero di Kazimir Malevich. Quadrato Nero XVII di Taryn Simon è composto scorie nucleari di medio livello e lungo termine contenenti liquidi organici, liquidi inorganici, fanghi e polveri chimiche provenienti da una centrale nucleare di Kursk, e da elementi farmaceutici e chimici provenienti dalla regione della attorno a Mosca.

Di Taryn Simon avevo già scritto qui e penso che il grande successo che ha ottenuto negli ultimi anni se lo sia tutto guadagnato.

Questa opera, in particolare, mi pare abbia una forza tutta particolare perché, in un clima culturale in cui il respiro è sempre a breve termine e si richiede che il risultato di un’opera – che sia artistica o meno non importa – abbia un risultato tangibile immediato, ecco: lei ci dà appuntamento tra mille anni. Nessuno di noi vedrà l’opera finita e neanche lei sa se il progetto cadrà o meno nell’oblio. Però oggi ci dice due cose importanti:

1) Ci sono cose che realizziamo oggi le cui conseguenze potranno essere viste solo tra diversi secoli.

2) Le idee possono anche invecchiare, ma non si deteriorano col tempo. Questa da una parte è la loro forza, dall’altra la loro pericolosità.

Taryn Simon
Taryn Simon

Maria Primachenko, genio visionario nella campagna ucraina

Maria Primachenko

Una volta, da bambina, inseguivo un branco di oche. Quando raggiunsi una spiaggia di sabbia, sulla riva del fiume, prima di attraversare un campo punteggiato di fiori selvatici, iniziai a disegnare con un bastone sulla sabbia fiori reali e immaginari… Più tardi, decisi di dipingere i muri della mia casa usando pigmenti naturali. Dopo di ché  non ho più smesso di disegnare e dipingere

Maria Primachenko

Aleksey, un amico ucraino, mi ha fatto conoscere una pittrice straordinaria che non conoscevo. Si chiama Maria Primachenko e in questi giorni il Mystetskyj Arsenal, a Kiev, le dedica una grande retrospettiva con 300 opere.

Maria Primachenko, Elephant, 1937
Maria Primachenko, Elephant, 1937.

Maria è nata nel 1908 in una famiglia contadina del villaggio di Ivankiv Raion, a 30 chilometri da Chernobyl. Era malata di poliomelite e durante la Seconda guerra mondiale perse il marito e un figlio. Attraversò la carestia degli anni 30, il famigerato Holodomor, prodotto dalle politiche di Stalin nel quale morirono milioni di ucraini.

Maria Primachenko, Lion, 1947
Maria Primachenko, Lion, 1947.
Maria Primachenko, Father Frost Carries the New-Year Tree, 1960
Maria Primachenko, Father Frost Carries the New-Year Tree, 1960.
Maria Primachenko, Two Parrots Took a Walk Together in Spring, 1980
Maria Primachenko, Two Parrots Took a Walk Together in Spring, 1980.

Mentre accadeva tutto questo Maria dipinse quadri meravigliosi, dalle figure oniriche e dai colori intensi, un trionfo di fantasia e gioia di vivere. Pur rappresentando l’opposto logico del realismo socialista, e costruendo il proprio alfabeto visivo sulla tradizione popolare, il regime non le mise mai i bastoni tra le ruote.

Ebbe molto successo già in vita e le sue opere furono esposte in tutta l’Unione Sovietica e anche all’estero. Si dice che Pablo Picasso, dopo aver visitato una sua mostra a Parigi, disse: «Mi inchino di fronte al miracolo artistico di questa brillante artista ucraina».
Oggi queste immagini restituiscono un senso di incredibile contemporaneità. Sembrano disegnate ieri da un’illustratore di New York (o di Milano), mentre alcune sono state realizzate nella metà degli anni Trenta.

 Maria Primachenko, While This Beast Drinks Poison, a Snake Sucks His Blood, 1982
Maria Primachenko, While This Beast Drinks Poison, a Snake Sucks His Blood, 1982.

Arian Gheie fa il botto a Sotheby’s

Adrian Ghenie

Praticamente è successo che l’altro giorno a Sotheby’s a Londra un quadro del pittore rumeno Adrian Ghenie, classe 1977, è stato battuto per un sacco di soldi: 3,1 milioni di sterline. Parecchio in assoluto e parecchio se si tiene conto che la stima di partenza era di 400-600mila sterline. Non male per l’asta che The Art Newspaper definisce come quella che ha segnato la fine del boom delle aste d’arte contemporanea.

Sul povero Ghenie si è scagliato sua maestà Jerry Saltz che su Facebook ha scritto cose poco lusinghiere su di lui

Not one original idea about color, surface, gesture, subject matter, scale, viscosity, nuttin’ honey. Thickish paint to seem like serious painting. Unfinished bits to let us know it’s modern and self-aware. – Every painting is pretty huge. But it could be great too. Looks a lot like art.
I have been on about how shit this artist is since the beginning; just another artist who makes art that looks like other art that art collectors buy because it looks like what other art collectors buy!)
Which is cool too I guess.

Mi sembra perlomeno ingeneroso. Almeno da quanto abbiamo visto con i nostri occhi al Padiglione Rumeno dell’ultima Biennale di Venezia. Se una cosa si può dire su Ghenie è che sa dipingere davvero bene. Ha una “padronanza del mezzo” davvero notevole. Poi, è vero, si ha l’impressione di vedere lì Bacon, qui Richter, là Polke… È una pittura all’insegna del sincretismo. Ma chi oggi è in grado di sintetizzare la lezione tutti questi grandi messi insieme in modo così credibile?

Lasciamo perdere il prezzo d’asta, chissene frega. Si vede lontano un miglio che il successo di Ghenie è creato a tavolino. Però mi pare resti una sorpresa per la pittura degli ultimi anni. Non l’artista più originale degli ultimi tempi, ma una voce profonda e intonata, dal timbro corposo e virile. Che vale la pena ascoltare.

Stiamo a vedere da che parte andrà in futuro.

Qui qualche immagine scattata a Venezia:

Adrian Ghenie
Adrian Ghenie

Adrian Ghenie
Adrian Ghenie

Adrian Ghenie
Adrian Ghenie

Qui un video sulla mostra alla Pace del 2014:

 

BUON NATALE DA NO NAMEBUON NATALE DA NONAME

Rembrandt, Adorazione dei pastori: con lampada, 1654 circa.
Rembrandt, Adorazione dei pastori: con lampada, 1654 circa.

Ich steh an deiner Krippen hier,

o Jesulein, mein Leben,

Ich stehe, bring und schenke dir,

was du mir hast gegeben.

Nimm hin, es ist mein Geist und Sinn,

Herz, Seel und Muth, nimm Alles hin,

und laß dirs wohlgefallen.

 

In piedi, accacnto alla Tua greppia, io sono

o Tu, mia vita, piccolo Gesù.

Io vengo: qui Ti porto e ti offro in dono

tutto quello che mi hai donato Tu.

Prendi: ecco il mio spirito, i miei sensi,

cuore, anima, ardore, tutto prendi!

Possa l’offerta avere il Tuo consenso.

(trad: Quirino Principe)

 

J.S. Bach, Weihnachtsoratorium, BMV 248, Chorale: “Ich steh an deiner Krippen hier”:

CHE SORPRESA I CAMPI DA CALCIO DI HANS VAN DER MEER

Hans van der Meer, Warley, England, 2004
Warley, England, 2004

Uno dei libri più belli che mi è capitato di vedere ultimamente è questo European Fields, sottotitolo: The Landscape of Lower Leaue. È stato realizzato nel 2006 dal fotografo olandese Hans van der Meer, ma è stato rieditato quest’estate.

La faccio breve perché il racconto della genesi del progetto la potete leggere con calma sul sito di Van der Meer.

Io qui vorrei dire che guardando queste foto mi colpisce di nuovo quello che considero uno dei grandi misteri della fotografia che è la capacità poetica dello stile documentario.

Voglio dire che è sempre sorprendente come uno stile così freddo (grande formato, ricerca della nitidezza, chiarezza, lavoro per “serie”…) possa produrre quella che non mi sembra esagerato chiamare commozione .

Non è solo perché qui si tratta del calcio delle leghe minori, anche se obiettivamente questo viaggio sui campi di calcio europei, dove qualche volta le strisce delle maglie sono orizzontali e non verticali, racconta molto di un mondo fatto di sogni bagnati di sudore.

In queste immagini domina il paesaggio, che è ciò che manca al calcio professionistico, dove lo sguardo è bloccato dal muro degli spalti. Ci sono poche differenze, in fondo, tra una partita giocata in uno stadio di Parigi o Madrid, Bergamo o Glasgow.

Nelle immagini di Van der Meer, invece, ogni partita è diversa e il piacere di giocare assume sfumature diverse a seconda che siano le alpi, il mare o le fabbriche a fare da sfondo. Si riconoscono gli accenti, la parlata locale. Il paesaggio e quel che accade sul campo diventano una cosa sola.

Felicità e malinconia si alternano. A volte convivono.

È un gran lavoro. Bellissimo.

Hans van der Meer, Consett, England, 2004
Consett, England, 2004
Hans van der Meer, Celerina, Switzerland, 2005
Celerina, Switzerland, 2005
Hans van der Meer, Marseille, France, 2004
Marseille, France, 2004
Hans van der Meer, Inerleithen, Scotland, 2001
Inerleithen, Scotland, 2001
Hans van der Meer, Budapest, Hungary, 2000
Budapest, Hungary, 2000

Hans van der Meer, Beire, Portugal, 2004
Beire, Portugal, 2004

COME PENSA LA PITTURA? JONATHAN LITTELL SU FRANCIS BACON

Jonathan Littell, Trittico - Tre Studi su Francis Bacon - Einaudi

Ho letto il libro di saggi su Francis Bacon di Jonathan Littell. È intelligente e istruttivo. Istruttivo perché si imparano molte cose non solo su Bacon, ma anche su Velásquez, Goya e la storia della figurazione nell’Occidente cristiano (interessantissima la digressione che porta dai ritratti delle mummie del Fayyum a Rogier van der Weyden passando per la vicenda del Mandylion – la vera immagine di Cristo). È intelligente perché non chiude Bacon in una gabbia di interpretazioni, ma dice che per capire quel che dice Bacon occorre innanzitutto imparare ad ascoltare la sua lingua, che è la pittura. Non è un’idea formidabile o inaudita, ma viene spiegata con molta onestà e chiarezza. È un invito all’umiltà e alla curiosità.

Qui riporto uno dei passi più significativi.

La maggior parte degli spettatori, guardando un dipinto di Francis Bacon, dà per scontato, senza nemmeno pensarci, che la figura umana o animale di fronte a loro sia il soggetto di quel quadro. Ma non è affatto così: la figura è l’oggetto dipinto nel quadro; il soggetto, come in tutta la pittura, e non solo in quella astratta, è la pittura in sé. È la pittura a parlarci di ciò di cui essa stessa tratta. «La pittura – come Bacon spiegò a Franck Maubert a un cero punto degli anni ottanta – è un linguaggio a sé, una lingua a parte». Come tale, ha una propria fonologia (le relazioni e i valori tonali) e una morfologia (la disposizione delle forme sulla tela), una grammatica e una sintassi, la cui specifica organizzazione e articolazione, all’interno dell’opera di ciascun pittore, è l’unica cosa che può insegnarvi a leggere quell’opera. Ovviamente un attento studio degli oggetti è di importanza cruciale, e l’ampio corpus di scritti scaturito dallo studio delle fonti dell’opera di Bacon si è rivelato uno strumento potente, come ogni approccio iconografico, anche se ben presto mostra i suoi limiti (…).

Anche se sarebbe meglio evitare di prendere troppo alla lettera le dichiarazioni di Bacon in proposito, come dire la sua versione ufficiale, e prestare piuttosto attenzione a ciò che lui stesso definiva la propria «immaginazione tecnica». Soprattutto, sarebbe meglio non chiedersi mai: «Che cosa voleva dire Bacon qui?», perché non lo sapeva nemmeno lui, ma piuttosto: «Che cosa ci sta dicendo, qui e ora, questo dipinto?». Prendetevi il tempo per guardare davvero i dipinti, da soli in una sala o circondati dalla folla incollata alle audio guide, o anche seduti di fronte alle riproduzioni, su un catalogo o sullo schermo di un computer; osserva teli a lungo, spostandovi dall’uno all’altro, con pazienza: a poco a poco inizierete a vedere come pensa la pittura.

Jonathan Littell, Trittico – Tre studi da Francis Bacon, Einaudi p. 45

CAPIRE MEGLIO GIOVANNI FRANGI. QUALCHE PENSIERO

 

Giovanni Frangi parla del suo sito internet da quando lo conosco, quindi almeno dal 1999, l’anno della mostra alle Stelline “Il richiamo della foresta”. Alla fine c’è riuscito e da settimana scorsa è online www.giovannifrangi.it. Verrebbe da chiedersi: ci voleva tanto?

Giovanni non è un pigro e non è neanche uno a cui mancano le idee. Semplicemente pensa molto prima di fare le cose e decide di farle quando pensa sia il momento giusto di farle. Insomma, non improvvisa mai. Il fatto che il sito appaia oggi deve avere un significato particolare per lui e ho il sospetto che abbia a che fare con la volontà di fare un punto su quanto fatto fino a oggi.

Non varrebbe la pena parlarne infatti se non fosse che quel che ne è uscito è uno strumento prezioso per capire il percorso di uno dei maggiori pittori italiani degli ultimi vent’anni. È l’unico a disposizione per ricostruirne l’opera dall’inizio alla fine, se si tiene conto che il catalogo della mostra “Straziante, meravigliosa bellezza del creato” a Villa Manin copre il periodo 2005-2011.

Quel che appare anche agli occhi del più distratto degli osservatori è che la pittura di Frangi è molto cambiata. La critica che gli viene mossa più spesso è di aver tradito lo stile muscolare, giocato tutto sul colore materico, che lo ha contraddistinto almeno fino al 1999. Io sono tra quelli che pensano che non si tratti di un tradimento, ma di un passo avanti. Gli anni che da “Il richiamo della foresta” portano a “Nobu at Elba” sono quelli di un effettiva accelerazione verso un’altra direzione. Più elegante, ma non meno muscolare.

È stato in quel periodo che ho sentito parlare Frangi di Filippo de Pisis e, guardando a quanto è successo, la riflessione su questo maestro non era soltanto un eccentrico interesse a cui si sottopone chi vuole andare per forza contro il mainstream. L’avvicinamento a De Pisis, mai citato esplicitamente e forse neanche implicitamente, avviene tramite l’introduzione delle carte. A un certo punto, all’attività a olio, Frangi affianca un lavoro sistematico attorno a un genere considerato minore. Può darsi che la scelta sia dovuta a esigenze commerciali (si vendono più facilmente), ma a me pare che sul piano stilistico dalle carte non si torni più indietro. La stesura del colore molto diluito viene applicata anche alle tele e il disegno si fa sempre più essenziale. L’ossessione figurativa si affievolisce  senza mai scomparire definitivamente. La scommessa è tutta sulla pittura, il campo su cui un pittore vince o perde. Il punto più alto, forse, è “Giardini pubblici” esposto al Mart nel 2010.

Il sito documenta anche un altro aspetto decisivo dell’opera di Frangi. Da “La fuga di Renzo” in poi, le mostre sono sempre concepite come dei progetti compiuti, con una propria coerenza, come se fossero racconti con una trama. L’allestimento diventa parte essenziale della comprensione del lavoro che, quasi sempre, deve esser letto come un’istallazione vera e propria. Il capolavoro, in questo senso, per ambizione e risultato, è certo “Nobu at Elba” del 2004, che speriamo di poter rivedere presto riallestito.

Per lungo tempo la figura umana non è comparsa nell’opera di Giovanni. Ricordo la figura di donna appesa nel salotto di di un amico o il ritratto sulla copertina dell’edizione  Garzanti di “In Exitu” di Giovanni Testori. Le persone riappaiono nei quadri in modo inaspettato ed eterodosso in occasione di “Straziante, meravigliosa bellezza del creato”. Sono fotografie scattate in riva al mare, in Marocco mi sembra, i cui ingrandimenti sono dipinti quasi a monocromo. Pescatori, famiglie al bagno. Un omaggio a Schifano, forse. Anzi, sicuramente. Certo è una soluzione che non risolve il problema sconfinato della pittura della figura umana. Dilemma che resta aperto dopo la morte di Bacon e Freud (Richter non ne fa una malattia e nemmeno Hockney ultimamente) e chissà se qualcuno avrà mai la forza di riaffrontarlo con risultati all’altezza. Di certo le ombre di Frangi fanno fatica a scomparire dalla memoria di chi le ha viste. Per non parlare degli Albatros: «stormi d’uccelli neri, com’esuli pensieri, nel vespero migrar».

Ho consigliato a Giovanni di segnalare nel sito i due testi più importanti che trattano della sua opera: quello di Giovanni Agosti “Giovanni Frangi alle prese con la natura” edito da Feltrinelli e il saggio di Massimo Recalcati per la mostra al Diocesano “La règle du jeu. Atto secondo. Dieci giardini” del 2011.

Se potessi tornare indietro nel tempo e scegliere una mostra che non sono riuscito a vedere, forse, sceglierei quella del 2009 a Trento “Giovanni in gennaio”.

Di seguito ho provato a riassumere in nove immagini la storia raccontata da www.giovannifrangi.it.

MOMA E CHRISTIE’S, È L’ANNO DI SIGMAR POLKE

Alice in Wonderland, sigmar polke, Moma 2014
Alice in Wonderland, 1972.

Il 2014 sarà ricordato come l’anno della riscoperta globale di Sigmar Polke. I dati sono chiari: 1) Sabato apre al Moma una grande retrospettiva che ad ottobre alla Tate Modern e  nel 2015 al Museo Ludwig di Colonia. 2) Il 24 inaugura a Londra, alla Christie’s Mayfair una mostra dedicata a lui e al compagno di viaggio degli anni Sessanta: Gerhard Richter. Se grandi istitituzioni (e grandi sponsor, leggi: Wolkswagen) e mercato (Christie’s) si muovono in sincronia, l’operazione è già un successo in partenza.

Di per sé Polke non avrebbe bisogno di riscoperte, ma con l’operazione in corso lo si vuole consegnare alla storia dell’arte come un grande del secondo Novecento come è già è stato fatto con Richter.

Entrambe le occasioni, quella del Moma e da Christie’s, saranno utili per prendere le misure del grande del pittore tedesco, registarne la lettura critica e farlo conoscere al grande pubblico.

Certo, né a New York né a Londra ci saranno capolavori indimenticabili come il monumentale ciclo Axial Age realizzato per la Biennale di Venezia del 2007 ora di proprietà di Pinault e rivisto a Punta della Dogana (Robe da chiodi dice essere una delle meraviglie dello scorso decennio), ma al Moma sembra essere ricostruita in modo abbastanza esauriente (250 opere tra quadri, foto e film) tutta la parabola del pittore.

Pittore, appunto. Come Richter ma in modo molto diverso: più sperimentatore, forse, più istintivo anche se non meno cerebrale (è possibile essere entrambe le cose nello stesso momento?).

A volerlo distruggere basterebbe dire che faceva i pallini come Roy Lichtenstein. Ma è evidente che non è così. Ha dentro molto più mistero (e non faceva solo “i pallini”). Ha una mano fenomenale, un gusto, un senso del colore  che gli fa meritare questo momento di gloria.

Sigmar Polke, Untitled (Quetta, Pakistan) 1974/78
Sigmar Polke, Untitled (Quetta, Pakistan) 1974/78

 

IRVING PENN E IL BACIO DI MILES DAVISIRVING PENN E IL BACIO DI MILES

miles davis tutu interior frontal photo irving penn 1986
Irving Penn, Miles Davis, 1986

Ho ritrovato questo pezzo di Jay Fielden su Irving Penn pubblicato su Vogue. Ecco il finale indimenticabile:

Mentre parliamo lui si illumina alla vista della mano di Miles Devis, incisa da una ragnatela di rughe.

A Penn era stato commissionato un ritratto del grande jazzista per la copertina del suo album del 1986, Tutu.

Davis si presentò con il suo parrucchiere e il suo famigerato modo di fare.

«Provai a rivolgergli la parola appena entrò, ma lui mi ignorò completamente», ricorda.

Quando Davis ebbe terminato di agghindarsi, si piazzò di fronte alla macchina fotografica.

Penn continua:

«Scommetto che vuoi che mi tolgo la maglia» mi disse. «Si», gli risposi. «E scommetto che vuoi che mi tolgo anche tutte le catene d’oro». «Si», gli risposi di nuovo. Poi, per circa un’ora, lavorammo.

Alla fine gli dissi «Grazie mille».

Lui si alzò, mi si avvicinò e mi baciò sulla bocca.

Non sapevo cosa dire.

Ci stringemmo la mano, e se ne andò.

Poi tardi conobbi la sua musica e mi colpì profondamente: era pura arte visiva. È una cosa terribile che io non abbia potuto condividere con lui questa cosa, all’epoca».

Penn appoggia un dito sulle labbra, come fa spesso quando è assorto in qualche pensiero. «Questo è lo strazio della mia professione», aggiunge. «Mi resta solo quel bacio da ricordare».

Qui il grande Miles:

(Grazie a Petra per l’aiuto per la traduzione)