Anch’io la sera dello scorso 28 gennaio mi trovavo a Bologna, ma anziché assistere alla conferenza di Marina Abramović mi trovavo attovagliato con un paio di amici in una trattoria sotto i portici del centro. Per la serie: al momento giusto, nel posto sbagliato. Senza nulla togliere al Sangiovese (ma perché servito freddo?), temo di essermi perso davvero qualcosa. Ad ovviare a questa lacuna ci ha pensato Undo.Net che ha messo online due filmati: uno della conferenza di quella sera (veniva presentato il film “Seven Easy Pieces”) e l’altro dell’incontro all’università della mattina successiva. Trovo siano due documenti interessanti per chi, come me, voleva farsi un’idea del personaggio Abramovic (considerata ormai un autentico guru, guardate quanta gente c’era quella sera ad ascoltarla…). Qui segnalo alcune cose dette nei due incontri che mi hanno colpito.
DOMANDA: Ha mai pensato di concludere la sua carriera con una performance che preveda il suicidio?
ABRAMOVIC: Sembro malata o aspirante suicida? No, non lo sono (lei ride, applausi). Io amo la vita più di ogni altra cosa.
DOMANDA: qual è stata la performance più difficile?
ABRAMOVIC: L’ultima, senza dubbio. Quella al Moma di New York (“The Artist Is Present”, ndr). È durata tre mesi. Ogni giorno sette ore, e al venerdì dieci: 736 ore e 30 minuti. La più lunga performance mai realizzata. E la più difficile. Se fai performance da un’ora, da tre ore o da sette, puoi sempre far finta, puoi sempre recitare. Ma tre mesi… è la vita reale… È la nuda verità, non puoi far finta, non puoi recitare. È la performance che più mi ha trasformata, e quella che ha trasformato il pubblico che l’ha compiuta insieme a me. È accaduto davvero qualcosa. La mia anima e la mia mente sono cambiate.
ABRAMOVIC: ho sempre pensato che aver avuto una infanzia difficile permette agli artisti di realizzare lavori migliori, rispetto a quando c’è la felicità e tutto va bene. Penso che se c’è la felicità non ci sia un progresso, se si è autosufficienti non ci può essere progresso. Penso che l’essere umano cambi attraverso momenti molto drammatici: malattie terminali, incidenti, violenze, pressioni, morte. In quei momenti accade davvero qualcosa, c’è una sorta di transizione. L’arte nasce da questo, fondamentalmente. Ed è per questo che io lavoro sulle mie paure. Più profondamente si va dentro se stessi e più si può essere universali. Perché tutti abbiamo gli stessi problemi: tutti siamo spaventati dal tempo che passa, dalla morte e dalla sofferenza. È semplice. E mettendo in scena queste cose di fronte a un pubblico, creando delle situazioni e attraversandole, con l’aiuto dell’energia del pubblico… perché non farei queste cose nella mia vita reale… a me fare queste cose non piace… le faccio nel contesto delle performance, perché nella performance si prende l’energia dal pubblico. Questo surplus di energia ti permette di fare queste cose che non puoi fare nella tua vita reale. Così io divento uno specchio: se io posso fare a me queste cose, anche il pubblico ha questa energia da usare nella propria vita reale”.