Dal Giornale del Popolo del 19 gennaio 2008
Le vicende italiane che in questi giorni vedono intrecciarsi magistratura e politica sono nuove e antiche al tempo stesso. Nel giorno in cui il ministro della giustizia italiano, Clemente Mastella, doveva riferire in Parlamento le attività del suo dicastero, la stampa dà notizia dell’incarcerazione di sua moglie e di un’inchiesta che coinvolge una trentina di membri del partito di cui è leader. Il ministro si presenta davanti ai deputati pronunciando il più duro discorso contro l’interferenza della magistratura nella politica che si fosse mai sentito nell’aula parlamentare italiana. Al termine delle parole di Mastella entrambe le ali di Montecitorio reagiscono allo stesso modo: applausi. Nel frattempo Mastella, anche lui inquisito, dà le dimissioni dal suo incarico e le conferma dopo che Prodi gli aveva chiesto di ripensarci. Il giorno seguente assistiamo da una parte alla condanna del Presidente della Regione Sicilia, Salvatore Cuffaro, al quale erano state mosse accuse, tra l’altro, di concorso esterno in associazione mafiosa (accusa quest’ultima, caduta), dall’altra al rinvio a giudizio del solito Silvio Berlusconi.
I colpi assestati alla classe politica dalla magistratura italiana appaio al momento bipartisan, anche se è evidente che quello inferto a Mastella ha un potere di destabilizzazione politica ben maggiore. L’uscita dal Governo del leader dell’Udeur appare infatti come una ferita quasi letale all’esecutivo di Romano Prodi al quale finora tutti si erano rifiutati, perché a nessuno conveniva, di staccare la spina. In questo contesto le grane giudiziarie di Cuffaro e Berlusconi (e la conferma del trasferimento da Catanzaro del magistrato che per primo provò – maldestramente – a incastrare Mastella) appaiono eleganti diversivi. L’intelligenza di questa serie di interventi è chiara e difficile da negare anche da chi ha un sano rispetto per le istituzioni democratiche. Quale sia il piano che sta dietro a queste trame è difficile dire, ma un’ipotesi può essere quella che si voglia far fallire il dialogo tra Walter Veltroni e Silvio Berlusconi che romperebbe la stagione di reciproca delegittimazione tra le parti politiche che da troppi anni devasta la politica italiana.
Questa volta l’accusa di “giustizia a orologeria” non viene gridata solo dai banchi del centrodestra, ma anche da quelli del centrosinistra, tanto che un ex magistrato e presidente emerito della Repubblica come Oscar Luigi Scalfaro ha paragonato questo “strano tempismo” della magistratura allo stile usato per gli avvisi di garanzia a Silvio Berlusconi nel 1994. Va detto anche che da Tangentopoli ad oggi l’onda di procedimenti penali contro politici di spicco (tra questi anche lo stesso Romano Prodi) sono sfociati per la stragrande maggioranza in non luogo a procedere e in assoluzioni. Le condanne piene, di fatto, si contano sulle dita di una mano.
Per la prima volta in modo unanime, la classe politica italiana ha preso le difese del malcapitato di turno denunciando l’interferenza, che ha il sapore dell’intimidazione, da parte dei giudici nella vita politica italiana. Appare decaduto quel costume ormai in voga dai tempi di Tangentopoli di mettere a profitto le difficoltà giudiziarie che colpiscono gli avversari politici. Se questa tendenza si consolidasse, forse, scoraggerebbe d’ora in poi magistrati politicizzati o in cerca di visibilità a utilizzare il loro potere, giustamente indipendente, per trattare singoli politici o interi partiti alla stregua di gangster o cosche mafiose (come è accaduto per l’Udeur). Se è sacrosanto che la politica non debba interferire con l’attività dei magistrati garantendone l’indipendenza, questa libertà non può essere utilizzata per destabilizzare a proprio piacimento la vita politica di un Paese.