I DUE PICASSO DI GIOVANNI TESTORI

Pablo Picasso, Corrida: la morte del torero, Boisgeloup, 19 settembre 1933
Pablo Picasso, Corrida: la morte del torero, Boisgeloup, 19 settembre 1933


A Palazzo Reale per la mostra di Picasso le cose paiono andare molto bene. L’obiettivo dei 500mila pare sarà superato. Bene. È una bella mostra e chi non è ancora riuscito ad andarci vada (magari così).
Io invece ho ritrovato nell’archivio dell’Associazione Giovanni Testori due articoli che lo stesso Testori pubblicò sul Corriere, scritti in relazione alle opere in mostra a Milano. Il primo è del 1979 e si riferisce alla mostra al Grand Palais di Parigi realizzata con i quadri che gli eredi di Picasso cedettero allo Stato francese «in pagamento dei diritti di successione». Il secondo è del 1985 ed è scritto per l’inaugurazione del Museo Picasso all’Hôtel Salé realizzato con le stesse opere.

I due articoli sono molto belli. Entrambi riconoscono il genio di Picasso. Eppure vi troviamo due Picasso diversi. Eccoli

Corriere della Sera, 4 novembre 1979
Una cosa, infatti, può dirsi con certezza: ed è che Picasso ebbe a ricevere in dono due delle caratteristiche proprie a tutti i veri geni. La prima consiste nella staticità, per cui ogni movimento, per avventuroso e funambolico che appaia, ricade sempre nel nucleo di partenza (e questo risulta tanto più evidente quanto più il maestro s’affanna a voler illudere sé e gli altri del contrario); la seconda consiste nell’ovvietà, in quel non temere di prener tra mano il cosiddetto «luogo comune», anzi di riconoscerlo come il proprio unico terreno e il proprio unico dominio (fatto, questo, in cui personalmente penso risieda la più grande ed attiva lezione di Picasso; sempre, ma, in modi drammatici e particolari, ai nostri giorni in cui tutto va a evidenza ricominciato).

Su queste due constatazioni di base non è possibile nutrir dubbi. Si deve, anzi, procedere e riconoscere che quei doni Picasso di ebbe come nessun altro; almeno nel nostro secolo e per ciò che riguarda il regno dell’espressività. Senonché tali componenti, private come furono della terza, han dato luogo a una sorta di potenza smisurata, dilatantesi all’infinito ma che vacillò, poi, di continuo e di continuo si sgonfiò, come una vescica, franando su se stessa; una potenza urlata e insieme afona, ingombrante proditoria e, insieme, ridicola, inane, vuota.

Più che d’una potenza si trattò, forse, del suo specioso e grandeggiante involucro. Il fatto che, del genio, Picasso non ebbe in carico o in dono la fatalità; cioè a dire l’adesione naturale all’essere e alla vita. E qui non intendo riferirmi ai possibili rapporti con la terra; cose queste che Picasso esibì sino al folclore toreadorico. Intendo riferirmi al flusso interno, al flusso primo ed ultimo di ciò che è l’esistenza.

 

Corriere della Sera, 29 settembre 1985
Qui si tocca, forse, la ragione della forza platetariamente allarmante, perché planetariamente vitale, del mondo di Picasso; qui si prende fra le mani la prova della sua intatta attualità; un’attualità circa una conduzione dell’esistenza che, in questi anni, sembra voler consumare e distruggere, nell’uomo, la sua stessa esistenza. La necessità era, infatti, d’opporre al già iniziato dominio delle violenze scientifiche e tecnologiche, al processo non riferito più all’uomo, o indifferente all’uomo, quasi fosse il nuovo, astratto Moloch cui tutti prostrarsi, la verità nuda e cruda della creazione; e, in essa, dell’uomo.

Nuda e cruda, significava (e significa), per prima cosa, che tale verità doveva glorificare il corpo dell’uomo nella sua animalità senza paura di ricorrere, come Picasso ha più volte fatto, alla violenza e alla crudeltà che opponeva alla torva sapienza irrelata del Nuovo Potere l’enorme insipienza relata della nostra carne; forse, anzi, della bestia che, per fortuna, gemeva e geme ancora in noi. Prima che una mano di metallo, o di qualche fibra artificiale, le piombi sopra per strozzarla e finirla.

Vien da dire: ma sono due Picasso diversi o sono i Testori ad essere due?

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