Autore: Luca Fiore
BUONA PASQUA (ASPETTANDO BRAMANTINO A MILANO)
“Gesù risorge dal sepolcro. La vita è più forte della morte. Il bene è più forte del male. L’amore è più forte dell’odio. La verità è più forte della menzogna. Il buio dei giorni passati è dissipato nel momento in cui Gesù risorge dal sepolcro e diventa, Egli stesso, pura luce di Dio. Questo, però, non si riferisce soltanto a Lui e non si riferisce solo al buio di quei giorni. Con la risurrezione di Gesù, la luce stessa è creata nuovamente. Egli ci attira tutti dietro di sé nella nuova vita della risurrezione e vince ogni forma di buio. Egli è il nuovo giorno di Dio, che vale per tutti noi”.
Benedetto XVI, omelia della Veglia pasquale, 7 aprile 2012
I SEGNI VIOLENTI DELLA VIA CRUCIS DI MATISSE
Padre Marie-Alain Couturier, domenicano amico e confidente di Henri Matisse, commentava così nel 1951, la Via Crucis realizzata per la parete di fondo della Cappella del Rosario di Vence:
“Vorrei provare a dire, nel modo più semplice, che cosa penso di quest’opera: la ritengo la più importante e la più bella nella cappella. (…)
Vedo qui una specie di grande pagina, coperta di tratti che assomigliano a una calligrafia alterata, a malapena leggibile, con lettere scritte di fretta, sotto l’effetto di un’emozione troppo grande; vi si scorgono già, senza però poterli ancora decifrare, i segnali più chiari e più sconvolgenti di ciò che stanno per dire. Quale altra calligrafia più di questa è adatta per parlarmi della Passione? Mi bastano questi segni violenti: mi dicono l’essenziale. Posso aver bisogno d’altro?
Quando li leggo, colgo che non c’è stato né tempo né volontà di definire i dettagli o scegliere le parole: la terribile notizia è lì intatta, senza rimaneggiamenti né abbellimenti. Che cosa posso spettarmi d’altro da qualcuno che ha vissuto in sé il dramma e ne ha provato nel cuore la durezza e lo sconvolgimento?
Noto che nello stile qui non ha più nulla in comune con ciò che conoscevamo come tale di Matisse. In nessun’altra opera ritrovo una violenza simile, una analoga, totale assenza del minimo scrupolo di bellezza: qui nulla è predisposto per il piacere della visione. Brutali, ecco, sono persino le cifre che numerano le stazioni. (…)
Osservo anche la consanguineità di questo stile brusco, affrettato, indifferente a tutto ciò che non vuole dire, con lo stile di Tavant e dei primi affreschi romanici. Matisse mi raccontava un giorno come, ancora giovane e dispiaciuto di non riuscire a dipingere come gli altri, avesse scoperto con eccitazione, davanti ai Goya del Museo di Lille, che “la pittura poteva essere un linguaggio”, addirittura che poteva “non essere altro che questo”. Non lasciamoci ingannare: nelle epoche davvero grandi, l’arte non è che linguaggio. Non un ornamento. Anche se si esprime in termini molto difficili. Perché non è affatto certo che il dovere degli artisti sia quello di fare in modo che tale linguaggio risulti accessibile a tutti; al contrario è loro dovere sacrificare tutto alla nettezza, alla verità dei segni, per quello che hanno da dirci”.
(da L’Art Sacré, luglio-agosto 1951, in Un’avventura per l’arte sacra, ed. Jaca Book)
TRE CARTOLINE DA RAVENNA (SAN VITALE)THREE POSTCARDS FROM RAVENNA (SAN VITALE)
MARLENE DUMAS ATTRAVERSA PIER PAOLO PASOLINIMARLENE DUMAS GOES THROUGH PIER PAOLO PASOLINI
Questi sono i quadri più belli della mostra di Marlene Dumas alla Fondazione Stelline di Milano. È una mostra sorprendente. Ricca e profonda. Ha una spina dorsale robusta. A sostenerla è un pensiero coerente. Che la Dumas sia una grande artista lo si vede anche dal fatto che riesce a convincere nonostante rinunci alla tecnica nella quale eccelle: l’acquarello. Che i dipinti ad olio non raggiungano l’intensità degli acquarelli appare chiaro anche a un occhio non esperto. Eppure la sincerità e la serietà di questi lavori, suppliscono a questa mancanza.
Penso che il modo migliore per accostarsi a questa mostra sia guardare la video-intervista alla Dumas realizzata da Undo.net che potete guardare qui. In particolare quando l’artista dice:
«Ho preso come riferimento anche il film di Pasolini (Il Vangelo secondo Matteo, ndr). Ho pensato al personaggio che interpreta Gesù e come il regista ha costruito l’intero film… Dalla scelta di sua madre per il ruolo di Maria sotto la croce, fino all’utilizzo della voce di Odetta che canta: “Sometimes I feel like a motherless child” (“A volte mi sento un bambino senza madre”). E questa è un’altra connessione con l’orfanotrofio, con l’assenza della madre e con la Pietà…».
Un ultima cosa: nelle prossime domeniche ci saranno delle visite guidate gratuite per adulti e per adulti con bambini. Qui trovate le date, gli orari e le altre informazioni utili
These are the most beautiful paintings of Marlene Dumas’ exhibition at the Fondazione Stelline in Milan. It is an amazing show. Rich and deep. It has a strong backbone. A coherent thought sustains it. Dumas is a great artist, and we can see it by the fact that she can convinces us even leaving the technique in which she excels: the watercolor. Oil paintings do not reach the intensity of the her watercolors: it is clear even to an untrained eye. But the sincerity and seriousness of these works fill this lack.
I think the best way to approach this exhibition is to watch the video interview to the artist made by Undo.net.
In the next Sundays there will be free guided tours for adults and for adults with children. Here are the dates, times and other useful information
MARINA ABRAMOVIĆ: ART MUST BE BEAUTIFULMARINA ABRAMOVIĆ: ART MUST BE BEAUTIFUL
Sono stato al PAC di Milano per vedere “The Abramović Method” la mostra-performance di Marina Abramović. In generale sull’opera passata dell’artista serba sono d’accordo con Francesca Bonazzoli, che qui ha descritto bene la sua poetica; ma rispetto alla performance dentro e fuori dal PAC condivido la stroncatura che ne ha fatto di Robedachiodi.
Eppure la visita al PAC mi ha fatto mettere a fuoco un aspetto del lungo percorso della Abramović che mi pare importante sottolineare. Entrando nelle stanze dove si svolgeva la performance non si può non notare il forte impatto visivo di quel che sta accadendo. La cura compositiva degli scarni arredi (sedie, lettini ect…) e della disposizione dei performer è notevole. Nulla è lasciato al caso. L’impressione si accentua se si guarda come viene riproposta la mitica performance del 2010 al Moma “The Artist is Present”. Ma quando si percorre il corridoio in cui vengono proiettati i video delle performance passate (in ordine cronologico inverso) ecco l’idea.
La body art, o l’arte performativa, nasce negli anni ’60 in polemica con l’arte tradizionale e in particolare con la pittura. Le azioni della Abramović, inizialmente, sono volte a provocare nello spettatore un senso di disagio utilizzando, soprattutto, il nudo e l’autolesionismo. Molto significativa, mi sembra, la performance del 1975 intitolata “Art must be beautiful – Artist must be beautiful” (non in mostra), durante la quale l’artista si spazzola i capelli in modo quasi ossessivo-compulsivo mentre pronuncia proprio questa frase: l’arte deve essere bella, l’artista deve essere bella.
Col passare degli anni le opere di Marina, nonostante in molti casi continuino a provocare un senso di disagio, assumono forme visive sempre più raffinate e ricercate. L’artista durante la performance produce delle immagini, che poi verranno registrate con video e fotografie. Tali immagini, che richiamano in qualche modo modelli compositivi classici, risultando belle anche da vedere. La serie “Seven Easy Pieces” del Guggenheim di New York (2005) mi sembra un ottimo esempio di questo, ma anche “The Artist is Present” del Moma (2010) lo è. Le mie preferite sono “The Kitchen” (2009) e “The Lamb” (2010).
Mi sembra un importante indizio di serietà. E anche il motivo del crescente successo degli ultimi anni.
Si potrebbe dire che, indipendentemente dal punto di partenza, un artista che lavori con serietà – ad esempio mettendo sempre alla prova il proprio talento – non può non incappare in qualche modo in lei, la bellezza. Quasi che alla bellezza si possa arrivare anche in contromano.
I was at PAC in Milan to see “The Abramović Method”, the Marina Abramović‘s exhibition-performances. In general, about the Serbian artist’s past work, I agree with Francesca Bonazzoli, who here has aptly described her poetry. But about the performance inside and outside the PAC, I share the bad review written here by Robedachiodi.
And yet, visit the PAC has made me focus on one aspect of the long path of Abramović I think it is important to underline. Entering the room where the performance took place, one can not but note the strong visual impact of what is happening. The treatment composition of the meager furniture (chairs, beds etc…) and the arrangement of the performers is remarkable. Nothing is left to chance. The impression is accentuated if you look like is returned the legendary 2010 performance at the MOMA “The Artist is Present”. At the end of the corridor with the videos of past performances (in reverse chronological order)… I got the idea.
The body art, or performance art, was born in the 60s in opposition to traditional art and especially painting. Abramović’s peformances, initially, are intended to provoke in the viewer a sense of discomfort using, particularly, nude and self-injury. Very significant, I think, the performance of 1975 entitled “Art must be beautiful – Artist must be beautiful” (not shown), during which the artist brushes her hair in an almost obsessive-compulsive way, pronouncing just this sentence: art must be beautiful, the artist must be beautiful.
Over the years the works of Marina, although in many cases continue to provoke a feeling of discomfort, become visually more refined and sophisticated. The artist produces images during the performance, which will then be recorded with video and photographs. These images, which recall somewhat classical compositional models, become attractive. The series “Seven Easy Pieces” at the Guggenheim in New York (2005) seems a good example of this, but also “The Artist is Present” MoMA (2010) it is. My favorites are “The Kitchen” (2009) and “The Lamb” (2010).
It seems to me an important hint of seriousness. And the reason for the growing success in last years.
You could say that, regardless of starting point, an artist who works with seriousness – for example, always putting their talents to the test – can not help but run into her: the beauty. As if we can get the beauty also in the opposite direction.
GIOVANNI VITALI DIPINGE LA GEOPOLITICA DELL’EUROPA GIOVANNI VITALI PAINTS EUROPEAN GEOPOLITICS
Sono stato nello studio di Giovanni Vitali in via Padova. Ha fatto questa nuova serie di quadri dedicati alla crisi dell’euro. Rispetto al lavoro presentato due anni fa a Giorni Felici qui c’è uno sforzo di semplificare la sua esuberanza pop. Le idee più precise (e quindi più semplici) si portano dietro uno stile più asciutto e ordinato e quindi più efficace.
È un lavoro molto concettuale e narrativo svolto con una felicità compositiva che lo rende comprensibile anche senza troppe spiegazioni.
Nel quadro centrale con la madonna-euro, la vena pop si sposa con riferimenti colti. Così l’Immacolata concezione, con la corona di dodici stelle e il volto della moneta unita, anziché schiacciare la testa del serpente si trova avvinghiata da Sir Biss, lo stralunato rettile del disneyano Robin Hood. Alle sue spalle una parete di rose colorate.
Divertente, e non scontato, anche l’accostamento Sarkozy-Lupin III e Merkel- Maga Magò.
I quadri saranno esposti alla Ars Now Seragiotto di Padova dal 29 marzo.
Grazie a Giovanni Frangi per le foto.
I visited Giovanni Vitali’s studio in Via Padova. He made this new series of paintings dedicated to the euro crisis. Compared to work presented two years ago in Giorni Felici a Casa Testori, here there is an effort to simplify his exuberant “popism”. The ideas more precise (and therefore simpler) and they bring with them a more dry and tidy style, and therefore more effective.
The work is very conceptual and narrative played with a happy composition that makes it understandable without too much explanation.
In the center canvas with the Euro-Madonna, the pop vein is combined with cultural references. So the Immaculate Conception, with a crown of twelve stars and the face of currency units, instead of crushing the serpent’s head is wrapped around by Sir Hiss, the wild-eyed reptile of Disney’s Robin Hood. Behind her a wall of colored roses.
Funny, and not obvious, even the combination Sarkozy-Lupin the 3rd and Merkel-Mad Madam Mim.
The paintings will be exhibited at Ars Now Seragiotto in Padua from March 29.
Thanks to Giovanni Frangi for the pictures.
THE WILLIAM CONGDON FILES – IL TESORO DI BETTY PARSON
Ho il terrore che sia materiale inedito. È quello contenuto negli Archives Of American Art. È quanto conservava Betty Parson nei suoi cassetti. Riguarda Willliam Congdon. Qui sotto pubblico il contratto che Congdon firmò il 27 giugno 1949 con la grande gallerista newyorkese. Sotto invece ci sono i prezzi dei quadri della prima mostra, sempre nel 1949. Se confrontiamo quest’ultimo documento con l’Atlante dell’opera (Jaca Book, 2005), si nota che molti titoli non corrispondono o addirittura vengono segnalate opere non riportate nell’Atlante. In particolare la pubblicazione non segnala le gouaches del documento della Parson.
Nei files ci sono molte altre cose interessantissime. Affair a suivre.
L’OMBRA DEL RIGORE. SGARBI FA CONFUSIONE SULL’ARTE SACRA
Ho letto il libro di Vittorio Sgarbi “L’ombra del divino nell’arte contemporanea“ (2011, Cantagalli). È un libro per certi versi interessante. Non privo di spunti. Ha alcune pagine molto belle. Tuttavia lo sconsiglio vivamente a chi volesse chiarirsi le idee sull’arte sacra contemporanea. Il saggio di Sgarbi nasce presentazione dell’esperienza di ricostruzione della cattedrale di Noto. Il critico cerca di contestualizzare il problema (che è un grosso problema aperto) del rapporto tra Chiesa e arte contemporanea o, se volete, tra arte contemporanea e sacro (due problemi diversi, ma nel libro non si va troppo per il sottile).
Sgarbi segnala come esito più alto di arte sacra contemporanea la Rothko Chapel a Huston. Scrive Sgarbi: “Il trittico, collocato nello spazione geometrico di Renzo Piano, è il coronamento di un’idea consentanea di pura essenza tra pittore e architetto. Alla radice va detto che l’esperienza mistica implicita risiede nell’intuizione geometrica dello spazio, il cui risultato probabilmente persuaderebbe anche papa Ratzinger, in quanto quel blocco di cemento non umilia la dimensione sacra, ma nella sua spaziatura essenziale esalta l’idea di Dio”.
E poco dopo aggiunge un’affermazione molto forte: “Del resto, l’arte sacra in senso antropomorfico è finita. Non si può pensare che abbia una resistenza nella rappresentazione di immagini riconoscibili”.
Due osservazioni:
1) Sul fatto che la Rothko Chapel sia un capolavoro c’è poco da discutere. Ma l’affermazione di Sgarbi sarebbe stata più credibile se non l’avesse attribuita a Renzo Piano. Piano nel 1971 aveva 34 anni e non aveva firmato ancora nessun progetto.
2) Se è vero che “l’arte sacra in senso antropomorfico è finita”, perché decidere di ricostruire la cattedrale di Noto tale e quale e decorarla con arte figurativa anacronistica (anacronistica è l’aggettivo usato da Sgarbi)?
Sgarbi introduce li concetto di “ombra del divino” per definire l’arte sacra contemporanea. “Nel contemporaneo – scrive Sgarbi – per chi quelle forme voglia riprodurre (le forte dell’arte rinascimentale, ndr), o ripercorrere, o mimare, l’esito è produrre un’ombra. L’ombra non vuol dire qualcosa che non ha la sua piena forma, bensì qualcosa in cui si percepisce ciò che è stato, sentendo che il prodotto creativo oggi realizzato non è una copia, ma è l’ombra di quella forma“. Un concetto interessante ma un po’ confuso, a dire il vero. Che fa a pugni con la sua esaltazione dell’arte astratta di Rothko.
Per chi volesse avvicinarsi a questo tema (e vuole provare la vertigine che esso produce in chi lo affronta in modo serio) consiglio il ben più rigoroso testo di Marie-Alain Couturier “Un’avventura per l’arte sacra“ curato da Maria Antonietta Crippa per Jaca Book. Qui c’è un brano pubblicato recentemente da Avvenire, che potrebbe essere preso come manifesto.
LUCIO DALLA NEGLI OCCHI DI LUIGI GHIRRILUCIO DALLA IN LUIGI GHIRRI’S EYES
Il modo di interpretare Dalla scelto da Ghirri, è agli antipodi da come si rappresenta di solito una Pop-Star (e da come Dalla ha scelto in seguito di rappresentarsi). Non c’è nulla di tronfio, di caricato, di eccessivo nelle foto di Ghirri. Niente sottolinea il “successo”, il “potere”, la “grandezza artistica”. Tutto è ironia lieve, tra sorriso e malinconia, sintesi felice, momento colto al volo, come nelle migliori canzoni di Dalla. Un modo di far trasparire oltre il personaggio, la musica. Il senso.
Gianfranco Manfredi in Luigi Ghirri – I luoghi della musica, Motta fotografia 1994
The way to interpret Lucio Dalla chose Ghirri, is the opposite from how it is usually aPop-Star (and later as John chose to represent himself). There is nothing pompous, heavy, in excess in Ghirri’s pictures. Nothing underlines the “success”,the “power”, the “artistic greatness”. Everything is slightly ironic, between smiles and sadness, happy synthesis, when caught on the fly, as in Dalla’s best songs. One way to shine over the character, the music. The meaning.
Gianfranco Manfredi in Luigi Ghirri – I luoghi della musica, Motta fotografia 1994