JANNIS KOUNELLIS ALLA PECHINESE RISUSCITA PORCELLANE JANNIS KOUNELLIS IN CHINA REVIVES PORCELLAIN

Mi è piaciuto molto questo brano dell’intervista di Stefano Malatesta a Janis Kounellis pubblicata domenica su Repubblica. Parla della genesi della mostra dell’anno scorso a Pechino. L’idea delle porcellane. E dei vestiti da bambina. Mi sembrano due idee forti. E molto collegate tra loro.

«E, come spesso mi è successo, all’ inizio non avevo la più pallida idea di quello che avrei fatto. L’ idea buona o il colpo di genio, insomma quello che fa distinguere immediatamente la cazzata dall’ opera riuscita, due momenti diversi ma estremamente vicini tra loro, tardava a venire». Kounellis, un carattere di solito molto controllato, ha cominciato ad agitarsi. Il suo desiderio di piacere, la sua determinazione a raggiungere il successo sono sempre stati molto grandi e un eventuale flop della mostra lo avrebbe portato alla depressione. «Poi, un giorno, in un mercato all’ aperto di Pechino ho notato piramidi di porcellane frantumate. Ce n’erano di bellissime, molto antiche. Con quella meravigliosa trasparenza così difficile da raggiungere. Io non riuscivo a capire le ragioni di tutti quei pezzi e a che cosa servissero. Poi un artista mio amico mi ha raccontato che durante il periodo maoista, al tempo della famigerata Banda dei Quattro, le guardie rosse entravano nelle case delle persone considerate borghesi e se trovavano delle porcellane le gettavano in terra finendole di fare a pezzi con i calci dei fucili in quanto simboli detestati della Cina dei Mandarini». Il giorno dopo Kounellis è andato al mercato e ha comprato tutte le porcellane su cui riusciva a mettere le mani, pagandole una cifra irrisoria. Poi le ha divise per forma, dimensione e colore e le ha attaccate una dietro l’ altra, come farebbe un collezionista di francobolli o di farfalle con estrema precisione, su lastre di ferro grandi quanto un letto a due piazze e pesanti quattrocento chili ciascuna. Infine ha allineato le lastre fino a formare una muraglia, la cui pianta disegna una greca sormontata da pezzi di carbone. Quando l’ artista nella sua casa di Roma ha tirato fuori le fotografie che riprendevano dall’ alto l’ installazione ho trattenuto per un attimo il respiro. Raramente avevo visto una simile, sorprendente fusione di due materiali così eterogenei come il ferro e la porcellana. Dopo pochi giorni da questa installazione ne ha fatto un’ altra per lui rivoluzionaria: «Nel passato ho sempre cercato di evitare i colori. Li ritenevo futili e controproducenti rispetto alla mia concezione dell’ arte come teatro dei drammi». Ma nei giorni in cui si trovava a Pechino è andato in giro a comprare vestiti da bambina coloratissimi che ha disteso sulle lastre. Un gesto di riconciliazione con il mondo dei colori che ha lasciato stupefatto Marino, abituato ai toni cupi senza speranza delle sue opere. L’accoglienza della mostra è stata spettacolare: «Credo che quello che ha attirato i visitatori siano state proprio le schegge, il modo con cui un artista occidentale ha valorizzato l’ importanza del prodotto più famoso della Cina. Per secoli gli europei hanno cercato di imitare, senza riuscirci, l’ impasto tenuto segreto che permetteva quei meravigliosi manufatti e ora arrivava in Cina un artista straniero che non tentava di copiare, ma che con le sue opere rendeva omaggio alle porcellane, anche se maltrattate dagli stessi cinesi».

“Translating China-Solo Exhibition of Jannis Kounellis”, beijing, 2011 “Translating China-Solo Exhibition of Jannis Kounellis”, beijing, 2011
“Translating China-Solo Exhibition of Jannis Kounellis”, beijing, 2011 “Translating China-Solo Exhibition of Jannis Kounellis”, beijing, 2011

I really enjoyed this part of the interview with Janis Kounellis published by Stefano Malatesta on Sunday. It speaks of the genesis of the exhibition in Beijing made ​​last year. The idea of porcelain. And the baby-girl clothes. I seem to be two strong ideas. And much linked together.

«And, as often happened to me, at the beginning I had no idea of what I would do. The good idea or a brainwave, in short, what does distinguish immediately a cock-up by successful work, two different moments but extremely close to each other, was late in coming». Kounellis, a character usually very controlled, began to fidget. His desire to please, his determination to succeed have always been very large and an eventual flop of the show would have led to depression. «Then, one day, in a market in Beijing I noticed pyramids of broken porcelain. There were beautiful, very old. With that wonderful transparency so hard to achieve. I could not understand why all those pieces and what they were. Then an artist friend of mine told me that during the Maoist period, at the time of the notorious Gang of Four, the Red Guards entered the homes of people considered middle class and if they found the casting of porcelain clay they shred with the butts of rifles as hated symbols of the Mandarins of China». The next day Kounellis went to the market and bought all the porcelain on which he could lay my hands, paying them a pittance. Then he divided the shape, size and color and has attached one behind the other, as would a collector of stamps or butterflies with extreme precision, of iron plates as big as a double bed and heavy four hundred pounds each. Finally the plates lined up to form a wall, which draws a Greek plant topped with pieces of coal. When the artist in his home in Rome has pulled out from the photographs that reflected the top installation, I held my breath for a moment. I had rarely seen such a surprising merger of two heterogeneous materials such as iron and porcelain. After a few days of this installation made it a revolutionary one for him: «In the past I always tried to avoid the colors. I felt futile and counterproductive to my conception of art as a theater of drama». But in the days when he was in Beijing has gone out to buy colorful girl clothes who spread out on plates. A gesture of reconciliation with the world of colors that left Marino stunned, accustomed to the dark tones with no hope of his works.

“Translating China-Solo Exhibition of Jannis Kounellis”, beijing, 2011 “Translating China-Solo Exhibition of Jannis Kounellis”, beijing, 2011
“Translating China-Solo Exhibition of Jannis Kounellis”, beijing, 2011 “Translating China-Solo Exhibition of Jannis Kounellis”, beijing, 2011

TESTORI A RAVENNA, I QUADRI CHE MI SAREI PORTATO A CASA

Oggi con Giuseppe, Davide, Petra e Alessandro sono stato alla mostra “Miseria e splendore della carne. Testori e la grande pittura europea” curata da Claudio Spadoni per il Mar di Ravenna. Mi hanno detto che se voglio continuare a tenere questo blog devo parlar bene di questa mostra. Allora lo faccio (senza sforzo). La mostra è molto bella. Bello il primo piano (c’è un Fra Galgario il cui sguardo farebbe commuovere anche un toro), il secondo piano è il più debole (come fare a portare i grandi GéricaultCourbet, Giacometti?), il terzo è quello dei fuochi artificiali (soprattutto per la stanza di Morlotti, anche se la splendida sequenza degli adda alla mostra “Testori a Lecco”  resta forse insuperabile). L’ultima stanza è un vero e proprio coup de théâtre.

Di seguito vi segnalo i tre quadri che mi sarei portato a casa. Non c’è il Caravaggio, lo so. Ma per quello non avrei i soldi per l’assicurazione. Non c’è Giacometti, lo so. Non c’è Bacon, lo so. E neanche Tanzio, neanche Cairo, Fra Galgario, Ceruti… Ho scelto questi. Punto. Se ripasso per Ravenna ne scelgo altri tre.

Villy Varlin, Apocalisse (Ritratto di Giovanni Testori), 1972, olio su tela 265x501 cm.
Villy Varlin, Apocalisse (Ritratto di Giovanni Testori), 1972, olio su tela 265x501 cm.

La verità è che in questi enormi, dissenati e rovesciati teloni, il coito e l’assassinio son sempre lì, a un passo; a un passo il tranello che non dà scampo […]. Anche perché, capitanate dalla beccatrice, vi favoleggiano le diavolesse (bondasche e no); e vi danzano, abbracciati in una baraonda mai vista, una baraonda da giudizio universale sganasciato e finente poi nella più fallimentare e totale liquidazione che si conosca, loro (noi): quelli che si credono vivi; cioè a dire, le pisce dell’esistere; i fantasmi del gran ballo che è la vita; e del suo inevitabile abbattersi e risorgere nella perpetuazione del dolore e del niente.

Giovanni Testori, L’ironia, la cenere, il niente, in Giovanni Testori. Villy Varlin, catalogo della mostra: Milano, Rotonda della Besana, marzo-aprile 1976, Electa, Milano 1976, p. 20

Ennio Morlotti, Studi per bagnanti, 1988, olio su tela, 190 x 170 cm.
Ennio Morlotti, Studi per bagnanti, 1988, olio su tela, 190 x 170 cm.

Dir natura, insomma; ma’ non dirlo, contro la giungla della città, di strade, fabbriche e cose dov’è pure un ingorgo da penetrare e scoprire; riproporre un senso della terra talmente profondo e massiccio, da sopportar che da esso si partissero i voli fra gli astri e le avventure dell’uomo e dei suoi ordigni dentro il cosmo; rioffrir, insomma, ai viventi il senso di una terra che, malgrado tutto, continua a sostenere e alimentare la loro esistenza. Ecco qual fu e qual è al presente, il significato dell’opera di Morlotti.

Giovanni Testori, Ennio Morlotti. Nato a Lecco il 20.IX.1910, risiede a Milano, in VII Quadriennale Nazionale d’Arte di Roma, catalogo della mostra: Roma, Palazzo delle Esposizioni, dicembre 1959 – aprile 1960, De Luca, Roma, pp.78-79

Al contrario di Bacon, Fetting, il corpo dell’uomo, non può che adorarlo. Ma la sua adorazione non nasce da alcun modello già esistente di bellezza. Nasce dal violento attacco che bellezza e luce non cessano un solo istante di compiere in lui. Bellezza e luce fustigano Fetting; lo flagellano; lo martirizzano. Ma proprio perché accetta questo furibondo assalto, Fetting può sopportare in sé fustigazioni, flagellazioni e martirii e lasciare che il corpo cercato, inseguito, raggiunto e amato, il corpo che egli, prima e dopo averlo dipinto, ha stretto a sé o da cui s’è fatto stringere come per ricomporre, finalmente, e sia pure per un breve istante, una sola carne e l’unità dell’essere.

Giovanni Testori, Una luce suicida, in “Flash Art”, XIX, 132, aprile-maggio, pp.26-29

PADIGLIONE DI RAVASI ALLA BIENNALE? ANCORA NEI PENSIERI DI DIOTHE RAVASI PAVILLION AT THE BIENNALE? THREE SCENARIOS

Gianfranco Ravasi, padiglione vaticano biennale di veneziaIl cardinal Gianfranco Ravasi ha annunciato la sua intenzione di portare un Padiglione della Città del Vaticano alla Biennale di Venezia ormai qualche anno fa. Previsto per l’edizione del 2011, fu posticipato a data da destinarsi. Forse nel 2013. Quando gli chiesi informazioni nell’autunno del 2010 mi rispose che non c’erano i tempi tecnici per arrivare pronti al 2011. Ma da come parlava sembrava che l’idea ci fosse, ma fosse difficile da realizzare. La vera verità è che, a febbraio 2012, non sembra esserci neppure l’idea. Per ora sembra che il cardinale abbia riunito nel dicembre scorso un ipotetico comitato scientifico che potrebbe occuparsi del progetto. Ne farebbero parte Sandro Barbagallo, critico d’arte dell’Osservatore Romano, Micol Forti, direttore della Collezione d’arte contemporanea dei Musei vaticani, Francesco Buranelli, già direttore dei Musei vaticani e oggi segretario della Pontificia Commissione per i Beni culturali e padre Davide Dall’Asta, direttore della Raccolta Lercaro di Bologna. Il comitato, trapela da voci nei corridoi vaticani, in teoria dovrebbe occuparsi di realizzare le direttive suggerite da Ravasi. Ma sembra che in questo momento direttive non ce ne siano. Il gruppo di lavoro si sarebbe dovuto incontrare di nuovo a gennaio. Ma ai quattro le convocazioni non sono arrivate. Allo stato delle cose, dunque, oltre alle dichiarazioni via stampa di Ravasi non sembra esserci nulla di concreto. E il Padiglione vaticano alla Biennale resta un miraggio.

 

E fin qui la cronaca. Ecco invece tre possibili scenari che mi pare potrebbero realizzarsi:

 

1) Versione clerical del padiglione Sgarbi

È già stata collaudata l’estate scorsa in occasione della mostra per il sessantesimo anniversario dell’ordinazione sacerdotale di Benedetto XVI. Una lista di un centinaio di artisti che alternava grandi nomi, illustri sconosciuti e personaggi al di sotto di qualsiasi sospetto. Ogni artista dona un’opera di sua scelta. Nessuna preoccupazione di organicità.

VANTAGGI: Facile da realizzare. Poco costosa. Accontenta gran parte del sottobosco artistico romano legato a cardinali e monsignori di curia. Poche polemiche in ambito cattolico.

SVANTAGGI: Basso profilo mediatico. Critiche degli esperti del settore.

 

2) Versione art chic del portico dei gentili

È l’idea paventata nell diverse interviste dallo stesso Ravasi che ne sarebbe il vero curatore. Nomi di respiro mondiale come Bill Viola, Anish Kapoor, Yanis Kounellis. Un bel tema ampio e biblico (il libro della Genesi). Libertà assoluta per gli artisti. Poche opere, ma di impatto.

VANTAGGI: Copertura mediatica globale. Plauso degli esperti del settore, dei collezionisti che contano e un servizio di sei pagine su Vogue. Poter dire che la Chiesa è tornata ad essere un interlocutore per l’arte che davvero conta.

SVANTAGGI: Difficile da realizzare (convincere gli artisti a partecipare). Costoso. Assicurata l’ondata di critiche del mondo cattolico. Necessità di un giubbotto antiproiettile per poter girare nei palazzi vaticani.

 

3)  Versione cur(i)atoriale

 

Scegliere un curatore vero ma cattolico. Affidargli l’incarico di selezionare un gruppo ristretto di artisti di primo piano (da uno a cinque, non necessariamente di grido) in grado di mettersi in gioco in un progetto in cui il curatore possa dire davvero la sua. Quindi libertà dell’artista e libertà del curatore/committente. Come modello potrebbe essere presa l’esperienza dell’Evangeliario ambrosiano.

 

VANTAGGI: Possibilità di dire che la Chiesa è tornata a fare committenza a alti livelli. Discreto impatto mediatico.

SVANTAGGI: Difficoltà nel reperire un curatore vero ma cattolico senza innescare faide. Critiche sia da parte cattolica che da parte degli esperti di settore. Discreto impatto mediatico.Gianfranco Ravasi, padiglione vaticano biennale di venezia

Cardinal Gianfranco Ravasi announced its intention to bring the Vatican Pavilion at the Venice Biennale a few years ago. Scheduled for the edition of 2011, it was postponed until a later date. Maybe in 2013. When I asked him (it was the fall of 2010) he said that there were no technical time to get ready in 2011. But as he spoke, it seemed that there was the idea, but it was difficult to achieve. The real truth is that, in February 2012, there seems to be not even the idea. For now it seems that last December the cardinal had gathered a hypothetical scientific committee that could deal with the project. It would be part Sandro Barbagallo, art critic of the Osservatore Romano, Micol Forti, director of contemporary art collection of the Vatican Museums, Francesco Buranelli, former director of the Vatican Museums, and now secretary of the Pontifical Commission for Cultural Heritage and father David Dall’Asta, Director of Collection Lercaro of Bologna. The committee, leaked by voices in the corridors of the Vatican, in theory should take care to make the guidelines recommended by Ravasi. But it seems that at this moment there are no directives. The working group would have to meet again in January. But the four summonses have not arrived. As things stand, therefore, in addition to Ravasi’s statements in the press, there would be nothing concrete. And the Vatican Pavilion at the Biennale remains a mirage.

 

In the cardinal’s mind, we hope, are taking shape three possible scenarios to achieve what will be known as the Ravasi Pavilion:

 

1) Clerical version of the Sgarbi pavilion

It has already been tested last summer on the occasion of the exhibition for the birthday of Benedict XVI. A list of a hundred artists who alternated big names, illustrious unknown, people under any suspicion. Each artist donates a work of his choice. No worries of organicity.

PROS:

Easy to achieve. Inexpensive. Satisfied much of the roman art undergrowth related to cardinals of the Curia and monsignors. Some controversy in Catholic circles.

CONS: Basso profilo mediatico. Critiche degli esperti di arte.

 

2) Art-chic version of the arcade of the Gentiles

It’s the idea announced in several interviews by the same Ravasi who would be the true curator. Names of worldwide importance such as Bill Viola, Anish Kapoor, Yanis Kounellis. A nice wide biblical theme (the book of Genesis). Total freedom for artists. Few works, but impact.

PROS:

Global media coverage. Praise of art experts, big collectors and six pages of Vogue. To say that the Church is once again a partner for great art.

CONS: Difficult to achieve (to convince the artists to participate). Expensive. Ensuredthe wave of criticism of the Catholic world. Need for a bulletproof vest to run in the Vatican.

 

3) Cur(i)atorial version

 

Choose a true curator but Catholic. Entrust the task of selecting a small group of leading artists (one to five, not necessarily ultra-cool) can get involved in a project in which the curator can really have a say. So artistic freedom and freedom of the curator. As a model could be taken the Evengeliario ambrosiano.

 

PROS: Opportunity to say that the Church is back to do commission in high levels. Poor media coverage.

CONS: Difficulty in finding a true curator but Catholic without triggering feuds. Criticism both from Catholics by art experts. Poor media coverage.

COSÌ IL CONTE PANZA PERSE LA TESTA PER ANTONI TÀPIESTHAT’S WHY COUNT PANZA FELL IN LOVE WITH ANTONI TÀPIES

Antoni Tàpies, Matèria en forma de peu, 1965, Mixed media on canvas,  130 x 162 cm.
Matèria en forma de peu, 1965, Mixed media on canvas, 130 x 162 cm.

È morto a Barcellona Antoni Tàpies. Aveva 89 anni. Di lui il conte Giuseppe Panza scrisse, nella sua autobiografia, queste righe meravigliose.

«Mai nella storia dell’umanità vi erano stati tanti morti in mezzo secolo (tra il 1914 e il 1945, ndr). La ragione, avendo perso la sudditanza a una legge superiore, poteva giustificare ogni delitto. Se gli intellettuali russi non erano consenzienti a una rigida obbedienza ideologica era giusto eliminarli, se la classe borghese non poteva essere collettivistica doveva essere distrutta, se gli ebrei non potevano essere dei sinceri nazionalisti dovevano essere bruciati in un forno. Quando non esiste più l’attesa di un altro mondo, e vi è solo questo mondo, il fine giustifica i mezzi ; se la felicità è solo in terra, deve essere realizzata a ogni costo.
Tàpies esprimeva la crisi, lo smarrimento di questo modo di pensare. Era più che mai intensa la necessità di uscire da questa spirale distruttiva per trovare altre certezze, altre speranze.
I suoi quadri avevano i colori del deserto, dove non vi è vita, di una terra aggrovigliata da convulsioni scomparse da tempo, con qualche raro segno di una remota presenza umana, come se i viventi avessero rinunciato a esistere nell’attesa di un’imminente apocalisse. L’attesa di qualcosa di straordinario, che doveva venire, forse terribile, forse la salvezza».

Giuseppe Panza, Ricordi di un collezionista, Jaka Book, 2006 (pp 58-59)

Antoni Tàpies, Matèria en forma de peu, 1965, Mixed media on canvas,  130 x 162 cm.
Matèria en forma de peu, 1965, Mixed media on canvas, 130 x 162 cm.

Antoni Tapies is dead today in Barcellona. He was 89. Count Giuseppe Panza wrote these beautiful lines on him:

«Never in human history there were many dead in half a century (between 1914 and 1945, ed). The Reason, having lost her subjection to a higher law, could justify every crime. If the Russian intelligentsia were not consenting to a rigid ideological obedience was right to remove it, if the middle class could not be collectivist had to be destroyed, if the Jews could not be of sincere nationalists were to be burned in a furnace. When there is no longer the expectation of another world, and there is only this world, the goal justifies the means, if happiness is on earth, must be made ​​at any cost.
Tàpies expressed the crisis, the loss of this way of thinking. It was more intense than ever the need to get out of this destructive spiral to find other certainties, other hopes.
His paintings had the colors of the desert, where there is no life, a land oftangled long gone by convulsions, with some rare sign of a remote human presence, as if they had given up living there while waiting for an imminent apocalypse. The expectation of something extraordinary, who was to come, perhaps terrible, even salvation».

Giuseppe Panza, Ricordi di un collezionista, Jaka Book, 2006 (pp 58-59)

NON È UN CASO SE IL QATAR CALA L’ASSO PER CÉZANNE

MARC QUINN
Non è un caso se l’emiro del Qatar si sia preso la pena di spendere 250 milioni di dollari per “I giocatori di carte” di Paul Cézanne. Negli ultimi dieci anni, Hamad bin Khalifa Al Thani è stato l’emiro più ambizioso di tutto il Golfo Persico. Ha fatto di tutto per farsi notare sullo scacchiere internazionale. Dagli Asian Games del 2006 ai Mondiali di calcio del 2022, dal riconoscimento della libertà di culto (solo quella di culto, però) fino all’ostentato attivismo militare nella guerra in Libia. Credere che tutto d’un tratto Al Thani si sia appassionato dall’arte moderna perché intimamente affascinato dalle pennellate di Cézanne e Murakami è ingenuo. È politica innanzi tutto. Capito questo, poi, si può ricordare che non sempre la politica ha fatto male al mondo dell’arte (penso al Rinascimento, non all’assessore Finazzer Flory). In questo il collezionismo dei miliardari arabi, appare diverso da quello dei russi. Proprio perché il prestigio dal punto di vista culturale è utilizzato  in funzione politica e non (solo) per prestigio personale.

L’emiro del Qatar, tuttavia, non è l’unico a battere questa strada. Il più discreto emiro di Abu Dhabi (quello che ha salvato il cugino di Dubai dalla bancarotta…) già da qualche hanno si è aggiudicato un nuovo Museo Guggenheim e una dépendance del Louvre.

Ma le questioni che pone il rapporto tra emiri e arte occidentale (dell’800-900 e contemporanea) non sono di poco conto. Me ne sono accorto quando nel 2009 andai a dare un’occhiata ad Abu Dhabi Art Fair (qui il mio racconto per il Giornale del Popolo). In quell’anno, per la prima volta, la fiera aveva attratto le più importanti gallerie del mondo (Gagosian, White CubePace WildensteindHauser & WirthGmurzynska, Aquavella ecc. ecc.), e i galleristi si erano posti per la prima volta il problema di che cosa avessero voglia di comprare gli arabi. Quella volta si risposero: lusso, sfarzo, oro, diamanti (c’era quello di Jeff Koons offerto a 15 milioni di dollari)… Ma sotto il profilo culturale la sfida era ancora più intrigante. Perché? Perché per l’islam rappresentando figure umane o di altro genere, si rischia di peccare di idolatria. Così l’arte islamica doc si focalizza essenzialmente sulla calligrafia. Il punto di contatto tra occidente e mondo musulmano potrebbe essere quindi l’arte astratta (da qui l’approdo del Guggenheim con una collezione di quadri da sballo – li ho visti dall’Emirates Palace proprio nel 2009). Eppure i precetti islamici non sembrano essere in cima alle preoccupazioni degli emiri che, spesso in contrasto con una fetta influente di sudditi parecchio tradizionalisti, fanno un po’ come gli fa comodo.

Così, visto che le opere più celebri al mondo sono figurative, anche coi petroldollari del Golfo Persico spesso e volentieri si punta sui grandi classici. Ora occorrerà capire che ricadute dal punto di vista della cultura visiva avranno sul mondo arabo questi nuovi musei zeppi di opere squisitamente occidentali e “moderniste”.

Infine, per fare un po’ di ordine, vi metto in fila tutte e cinque le versioni dei giocatori di carte di Cézanne:

Paul Cézanne, The Card Players, 1890–92, Oil on canvas, 135 x 182 cm, The Barnes Foundation, London
Paul Cézanne, The Card Players, 1890–92, Oil on canvas, 135 x 182 cm The Barnes Foundation, London
Paul Cézanne, The Card Players, 1890–92, Oil on canvas, 65 x 82 cm, Metropolitan Museum, New York
Paul Cézanne, The Card Players, 1890–92, Oil on canvas, 65 x 82 cm Metropolitan Museum, New York
Paul Cézanne, The Card Players, 1892-93, Oil on canvas, 97 × 130 cm, Doha
Paul Cézanne, The Card Players, 1892-93, Oil on canvas, 97 × 130 cm Doha
Paul Cézanne, The Card Players, 1890-95, Oil on canvas, 47 x 57 cm, Musée d'Orsay, Paris
Paul Cézanne, The Card Players, 1890-95, Oil on canvas, 47 x 57 cm Musée d'Orsay, Paris
Paul Cézanne, The Card Players, 1892-96, Oil on canvas, 60 x 73 cm, The Courtauld Gallery, London
Paul Cézanne, The Card Players, 1892-96, Oil on canvas, 60 x 73 cm The Courtauld Gallery, London

 

 

MARLENE DUMAS ALLE STELLINE: LA WINEHOUSE, PASOLINI E GESÙMARLENE DUMAS IN MILAN: EMI WINEHOUSE, PASOLINI AND JESUS

Marlene Dumas, Amy – Pink, 2011
Marlene Dumas, Amy – Pink, 2011 (particolare)

Una mostra con opere inedite, sorprendenti. Difficile che artisti stranieri del calibro di Marlene Dumas presentino in Italia lavori nuovi. Invece la Fondazione Stelline ci è riuscita. Così a Milano approderanno quindici opere-quindici della signora nata a Città del Capo e olandese d’adozione. I soggetti sono spiazzanti: Emi Winehouse, Pier Paolo Pasolini, Anna Magnani, il Crocefisso… Io dico che può essere una grande mostra. Vedremo.

MARLENE DUMAS
Milano, Fondazione Stelline (corso Magenta 61)
13 marzo – 17 giugno 2012

Marlene Dumas, Ecce Homo, 2011 olio su tela, 200x100 cm_courtesy the artist and Frith Street Gallery, Londra
Marlene Dumas, Ecce Homo, 2011 olio su tela, 200x100 cm courtesy the artist and Frith Street Gallery, Londra
Marlene Dumas, Tree of Life, 2011 olio su tela, 200x100 cm_courtesy the artist and Frith Street Gallery, Londra
Marlene Dumas, Tree of Life, 2011 olio su tela, 200x100 cm courtesy the artist and Frith Street Gallery, Londra
Marlene Dumas, Solo, 2011 olio su tela, 175x87 cm_courtesy the artist and Frith Street Gallery, Londra
Marlene Dumas, Solo, 2011 olio su tela, 175x87 cm courtesy the artist and Frith Street Gallery, Londra



Marlene Dumas, Amy – Pink, 2011
Marlene Dumas, Amy – Pink, 2011 (particolare)

An exhibition of new works, amazing. It is difficult that foreign artists, such as Marlene Dumas, exhibit new works in Italy. But the Stelline Foundation has succeeded. So they will arrivein Milan fifteen works by the southafrican-born lady living in Amsterdam. The subjects are unsettling: Emi WinehousePier Paolo PasoliniAnna Magnani, the Crucifix … I say it can be a great show. We will see.

MARLENE DUMAS
Milano, Fondazione Stelline (corso Magenta 61)
13 marzo – 17 giugno 2012

Marlene Dumas, Ecce Homo, 2011 olio su tela, 200x100 cm_courtesy the artist and Frith Street Gallery, Londra
Marlene Dumas, Ecce Homo, 2011 olio su tela, 200x100 cm courtesy the artist and Frith Street Gallery, Londra
Marlene Dumas, Tree of Life, 2011 olio su tela, 200x100 cm_courtesy the artist and Frith Street Gallery, Londra
Marlene Dumas, Tree of Life, 2011 olio su tela, 200x100 cm courtesy the artist and Frith Street Gallery, Londra
Marlene Dumas, Solo, 2011 olio su tela, 175x87 cm_courtesy the artist and Frith Street Gallery, Londra
Marlene Dumas, Solo, 2011 olio su tela, 175x87 cm courtesy the artist and Frith Street Gallery, Londra



LA NEVE, LUIGI GHIRRI

Modena, 1985 – serie Architetture di Aldo Rossi, project print, 5.5 x 7 cm © Eredi di Luigi Ghirri Courtesy Fondo di Luigi Ghirri
Modena, 1985 – serie Architetture di Aldo Rossi, project print, 5.5 x 7 cm © Eredi di Luigi Ghirri, Courtesy Fondo di Luigi Ghirri

A Milano nevica. Rinuncio a esibirmi in immagini da Instagram scattate col mio pessimo iPhone e vi regalo questa. Sarà esposta dal 4 al febbraio all’11 marzo al Castello di Rivoli a Torino. La mostra, a cura di Elena Re, si intitola: LUIGI GHIRRI – Project Prints. Un’avventura del pensiero e dello sguardo.

 

DIECI COSE CHE HO IMPARATO DALLA POLEMICA SU CASTELLUCCI

On the Concept of the Face, regarding the Son of God
In questi giorni ho seguito sui giornali la polemica sullo spettacolo “Sul concetto del volto del Figlio di Dio” di Romeo Castellucci. Incuriosito sono andato al Teatro Parenti a vedere di che cosa si trattava. E ho imparato alcune cose. Eccole:

1) È meglio una polemica cialtrona oggi che una recensione seria domani.

2) I lefevriani possono dire una messa in rito antico ovunque, anche su un camion.

3) Se Forza Nuova si incazza, riesce a mandare a protestare al massimo venti ragazzi.

4) Se Forza Nuova si incazza, la polizia manda in strada almeno cento poliziotti in tenuta da sommossa.

5) Se sia Forza Nuova sia i Lefevriani si incazzano, nelle redazioni i giornalisti hanno orgasmi multipli.

4) Antonio Scurati quando non ha nulla da dire, dice che la Chiesa Cattolica fa ingerenza politica.

6) Antonio Socci ha un gran coraggio quando scrive quello che i propri lettori non si aspettano di leggere.

7) Andare a teatro è meglio che andare al cinema. Si possono sentire anche gli odori.

8) Lo spettacolo di Castellucci è bello, ma non è un capolavoro.

9) Il vero capolavoro è quello di Antonello da Messina.

10) Grazie a Dio c’è il Volto di Gesù che ci guarda.

 

IDENTIKIT DEL PIÙ GRANDE ARTISTA VIVENTE: VECCHIO E PITTORE

David Hockney, A Bigger Picture, Royal Academy, 2012Jonathan Jones si lamenta dell’enfasi con cui in questi giorni si sta celebrando David Hockney come il più grande artista britannico vivente (qualcuno addirittura dice “del mondo”). Dice: morto Lucian Freud si è subito incoronato Hockney come il più grande. Ma perché tutta questa fretta? Dice Jones:

I find it quite tasteless (and I’m sure he does, too) that David Hockney is widely described as Britain’s “greatest living artist” now Lucian Freud is gone. Hockney has inherited the job, it seems. What is the basis for this assumption? It comes down to two things, apparently: one, Hockney is no longer young; and two, he’s a craftsman who makes his paintings with his own two hands.

Eppure, lui dice Freud non era il più grande solo perché era un vecchio pittore:

He did not earn his extraordinary reputation by being a safe pair of hands. He was not just a decent craftsman who worked patiently until he became great. He was a profoundly original, scathing, cruel, sensual, serious observer of the human condition. His art attained a profundity that was paralleled in modern British culture by, say, the plays of Harold Pinter, and the poetry of T.S.Eliot.

E conclude: lasciamo ancora un po’ vacante il posto di “più grande artista inglese vivente”, giusto per non prendere cantonate.

Eppure qualche mese fa in un commento a un post di Robe da Chiodi, Giovanni Frangi aveva detto l’esatto contrario:

Stiamo parlando del più grande artista inglese vivente [Hockney, ndr.], Lucien Freud non regge il confronto , e Damien Hirst è di un’altra generazione e anche troppo coccolato per essere così veramente trasgressivo. La capacità di David Hockney di rinnovarsi, di cambiare rotta, di sperimentare linguaggi nuovi lo rende un artista assolutamente moderno. Ha usato la fotografia in tempi non sospetti inventando immagini memorabili. E’ un grandissimo disegnatore che può stare tranquillamente al fianco di Degas. Un maestro per le generazioni di giovani artisti, Alex Katz vicino a lui sparisce. Tutti i quadri californiani degli anni 60 dalle piscine ai ritratti in ambienti sono lo specchio preciso di un epoca. I quadri immensi del Grand Canyon hanno una potenza visiva struggente , mischia la cultura pop con il cinema. Le vedute dipinte en plein air nello Yorkshire dove lui è nato fino al Bigger painting per la Royal Academy sono una riflessione di un vecchio che torna bambino, in effetti l’elenco potrebbe essere anche troppo lungo: Picasso, Ocean Drive , il teatro , il nudo maschile…

Chi ha ragione?

DAMIEN HIRST: UNA MOSTRA A POIS, MA CHE BELLA NOVITÀDAMIEN HIRST: THE POIS BACK IN FASHION

damien hirst, spot paintings, gagosian gallery

Della folle mostra degli Spot Paintings di Damien Hirst nelle 11 gallerie di Larry Gagosian avevo parlato ad agosto qui. Secondo me tra tutte le pessime idee che che ha avuto Hirst questa è la migliore. In fondo questi quadri sono abbastanza innocui, un omaggio all’arte per l’arte. Avessi i soldi, uno di questi quadri io me lo appenderei volentieri in salotto. In fondo è facile abbinare con un divano dell’Ikea. Dico questo perché mi sembra ovvio che il vero Hirst non sia qui, ma altrove. L’ha spiegato bene Jerry Saltz su Art in America con un saggio intelligente che secondo me va al cuore della questione, in particolare quando scrive:

There’s a moment in the movie Blade Runner when Roy, the Nexus-6 replicant (a beautiful, nearly human android), finally finds the scientist-inventor who created him.  Roy asks what any of us might ask, could we confront our make:  why, after giving us life, do you have to take it away?  The slightly bemused scientist listens and then asks, “What seems to be the problem, Roy?” – to which Roy emphatically answers, “Death seems to be the problem! I want more life… fucker!”  In a nutshell, that’s what Damien Hirst’s work is all about – “more life.”

damien hirst, spot paintings, gagosian gallery

I wrote about the crazy exhibition of Damien Hirst’s Spot Paintings in the 11 galleriesof Larry Gagosian last August here. In my opinion among all the bad ideas that Hirst has had, this is the best. After all these paintings are quite harmless, a tribute to art for art’s sake. If I had the money, I were happy to hang one of these pictures in my living room. It is really easy to match them with a IKEA sofa. I say this because it seems obvious that the real Hirst is not here, but elsewhere. The Jerry Saltz explained it in a smart essay published on Art in America. I think that he goes to the heart of the matter, especially when he writes:

There’s a moment in the movie Blade Runner when Roy, the Nexus-6 replicant (a beautiful, nearly human android), finally finds the scientist-inventor who created him.  Roy asks what any of us might ask, could we confront our make:  why, after giving us life, do you have to take it away?  The slightly bemused scientist listens and then asks, “What seems to be the problem, Roy?” – to which Roy emphatically answers, “Death seems to be the problem! I want more life… fucker!”  In a nutshell, that’s what Damien Hirst’s work is all about – “more life.”