A LONDRA PER UN’ABBUFFATA DI MOSTRE

Due giorni londinesi per un’abbuffata di mostre. A scarpinare di più sarebbe stato possibile vedere altro ma, come diceva Totò: «Ogni limite ha una pazienza». Ecco qualche appunto:

Rembrandt: The Late Works – National Gallery

Rembrandt, Lucrezia, 1666Una mostra coi fiocchi. Ricca, piena di colpi di scena. La prima sala con tre straordinari autoritratti varrebbe da sola il biglietto. Il tema, l’ultimo periodo del pittore olandese, non è fortissimo – l’ultimo Rembrandt non è l’ultimo Tiziano – ma i prestiti arrivati alla National sono davvero straordinari. La Lucrezia del 1666, con quella macchia di sangue che impregna la camicetta stesa a spatolate leggere, è un’opera di una modernità sorprendente. Quel che rimane della lezione di anatomia del dottor Joan Deyman, del 1656, omaggio al Cristo morto del Mantegna, è un momento difficile da dimenticare. E poi il Rembrandt incisore: che crea la luce dosando l’inchiostro con sapienza da alchimista. E poi i ritratti, ah, i ritratti…

Anselm Kiefer  – Royal Academy

anselm kiefer royal academy of artsUn grande classico, esposto nel migliore dei modi, in uno degli spazi espositivi più belli del mondo. L’ampiezza dei grandi saloni danno respiro alle immense opere del grande pittore tedesco. Severo, accigliato, impregnato di struggimento romantico. Kiefer gioca una partita da maratoneta solitario. Colto, coltissimo, arci-colto. Farebbe arrossire per ignoranza chiunque. La definizione più calzante che ho sentito, me l’ha detta una volta Giovanni Frangi, è quella data da Massimo Cacciari: un Van Gogh post bomba atomica. Una bomba esplosa trent’anni fa. Eppure i corvi sopra il campo di grano dipinto in questo tiepido 2014.

Giovanni Battista Moroni – Royal Academy

Giovan Battista Moroni - Royal AcademyUn bergamasco a Londra. Col suo accento, la sua arguzia, la sua raffinata provincialità. La mostra curata da Simone Facchinetti (lo storico dell’arte più simpatico che io conosca) e Arturo Galansino, neo direttore di Palazzo Strozzi, è un piccolo gioiello che fa capire agli inglesi (e a noi turisti del ponte di Sant’Ambrogio) che quel Sarto alla National Gallery non è affatto una meteora dell’arte lombarda. Il rosa del cavaliere in rosa, l’arancione del perizoma della Crocifissione di Albino, la dolcezza del ritratto di bambina dell’Accademia Carrara. Gli sguardi della nobiltà bergamasca. L’occhio del del direttore ottocentesco della National ci aveva visto giusto.

Alibis: Sigmar Polke 1963–2010 – Tate Modern

Alibis: Sigmar Polke 1963–2010 - Tate ModernAvevamo scritto che il 2014 sarebbe stato l’anno di Sigmar Polke. Sono cose che si scrivono un po’ così, senza prendersi troppo sul serio. Ma se una mostra come quella di Kiefer ha poco di sorprendente (sì, Kiefer è Kiefer…), quella alla Tate è in grado aprire scenari inattesi. Una mostra che riesce a mettere in discussione la gerarchia della triade dei tedeschi Richter, Kiefer, Polke (e Immendorf? Immendorf ce lo stiamo dimenticando?), dove Polke era sempre stato, forse per distrazione o pigrizia, stabile al terzo posto. Un inciso: Jonathan Jones, qualche anno fa, aveva scritto che la Germania è la nazione che ha dato di più all’arte contemporanea. Questa mostra è un nuovo tassello che conferma la tesi del critico del Guardian. Ma tornando alle classifiche: non so se Polke insidi davvero Richter, ma Kiefer certamente. Il Dall’Ombra, che ha avuto la cortesia di accompagnarmi nella scampagnata londinese, sostiene che una mostra come quella di Kiefer potrebbe far male a un giovane pittore, quella di Polke no. In che senso? Il primo può essere un muro contro cui scontrarsi. Non tanto per il grandissimo talento (quello non fa male a nessuno), ma perché non segna punti di rilancio, vie di fuga, percorsi inesplorati. Polke (non meno talentuoso, anzi, anz’anzi) invece è una rampa di lancio. Temi, materiali, tecniche. C’è una tensione alla scoperta e alla ricerca da cui non si può che imparare.

 

JENNY SAVILLE, LA PITTURA SI È MESSA A DIETA

Jenny Saville, Oxyrhynchus, 2014. Kunsthaus Zurich Egon Schiele - Jenny Saville
Jenny Saville, Oxyrhynchus, 2014.

Sono stato al Kunsthaus di Zurigo a vedere la mostra Egon Schiele – Jenny Saville. Sono un fan di entrambi i pittori ma, ammetto, ci sono andato più per la seconda che per il primo.
La mostra accosta i due artisti per un confronto che ha ragion d’essere solo fino a un certo punto. A me piuttosto interessava vedere da che parte stesse andando la Saville. Di venti sue opere esposte (di Schiele sono molte di più), quelle dell’ultimissimo periodo sono tre quadri e un disegno (esposte quest’estate da Gagosian a Londra).

Quando vinse il prestigiosissimo Flower Prize nel 2012, la giuria parlò di una pittura dotta, ma non ingessata nell’accademismo. Ora, a me pare, che questo corpo a corpo con i mostri sacri della storia dell’arte stia avanzando cronologicamente e la ricerca sulla figura umana resti tale mettendo tra parentesi l’aspetto più descrittivo. È come se fosse aumentata la velocità del movimento descritto e sulla tela restino brani di corpi e linee come quelle delle luci delle auto fotografate di notte.

È un po’ un dipingere “col camice bianco”. Una pittura di laboratorio. Non nel senso di un distacco emotivo, ma di una serietà intellettuale. Forse è un pittura “pensosa”. Non che vent’anni fa l’opera della Saville non lo fosse. Ma il rovello intellettuale si nascondeva meglio dietro le masse di carne delle donne sovrappeso. È come se la sua pittura (come del resto lei stessa) si fosse messa a dieta e oggi possa mostrare, in abiti più succinti, la propria colonna vertebrale. Certo, l’episodio in cui questa forza di pensiero si incrocia con la propria biografia, rende le opere sulla maternità il punto più alto, finora, della pittrice di Oxford. Forse questo lo sa anche lei.

La mostra vale certamente il viaggio a Zurigo e, già che ci siete, passate anche dalla Fondazione Beyeler a Basilea. Lì aspettarvi c’è il Courbet che non troverete nei musei di Parigi (a parte L’origine du monde, che invece dà bella mostra di sé lontano dal D’Orsey).

Jenny Saville, Oxyrhynchus, 2014. Kunsthaus Zurich Egon Schiele - Jenny Saville

 

CHE SORPRESA I CAMPI DA CALCIO DI HANS VAN DER MEER

Hans van der Meer, Warley, England, 2004
Warley, England, 2004

Uno dei libri più belli che mi è capitato di vedere ultimamente è questo European Fields, sottotitolo: The Landscape of Lower Leaue. È stato realizzato nel 2006 dal fotografo olandese Hans van der Meer, ma è stato rieditato quest’estate.

La faccio breve perché il racconto della genesi del progetto la potete leggere con calma sul sito di Van der Meer.

Io qui vorrei dire che guardando queste foto mi colpisce di nuovo quello che considero uno dei grandi misteri della fotografia che è la capacità poetica dello stile documentario.

Voglio dire che è sempre sorprendente come uno stile così freddo (grande formato, ricerca della nitidezza, chiarezza, lavoro per “serie”…) possa produrre quella che non mi sembra esagerato chiamare commozione .

Non è solo perché qui si tratta del calcio delle leghe minori, anche se obiettivamente questo viaggio sui campi di calcio europei, dove qualche volta le strisce delle maglie sono orizzontali e non verticali, racconta molto di un mondo fatto di sogni bagnati di sudore.

In queste immagini domina il paesaggio, che è ciò che manca al calcio professionistico, dove lo sguardo è bloccato dal muro degli spalti. Ci sono poche differenze, in fondo, tra una partita giocata in uno stadio di Parigi o Madrid, Bergamo o Glasgow.

Nelle immagini di Van der Meer, invece, ogni partita è diversa e il piacere di giocare assume sfumature diverse a seconda che siano le alpi, il mare o le fabbriche a fare da sfondo. Si riconoscono gli accenti, la parlata locale. Il paesaggio e quel che accade sul campo diventano una cosa sola.

Felicità e malinconia si alternano. A volte convivono.

È un gran lavoro. Bellissimo.

Hans van der Meer, Consett, England, 2004
Consett, England, 2004
Hans van der Meer, Celerina, Switzerland, 2005
Celerina, Switzerland, 2005
Hans van der Meer, Marseille, France, 2004
Marseille, France, 2004
Hans van der Meer, Inerleithen, Scotland, 2001
Inerleithen, Scotland, 2001
Hans van der Meer, Budapest, Hungary, 2000
Budapest, Hungary, 2000

Hans van der Meer, Beire, Portugal, 2004
Beire, Portugal, 2004

HO DATO IL MEGLIO DI ME ALLA SERPENTINE (CON LA ABRAMOVIĆ)

Il primo d’agosto ho partecipato alla Serpentine Gallery di Londra a 512 Hours, l’ultima performance di Marina Abramović. Era annunciata come la performance sul nulla e trovandomi nei paraggi senza nulla da fare ho pensato che potessi continuarlo a fare tranquillamente nella prestigiosa galleria. Ero stato nel 2012 a vedere The Abramović Method al Pac di Milano, ma non avevo preso parte all’esperimento con i camici bianchi e i blocchi di quarzo che pendevano sulla testa.

Rispetto alla tappa milanese, qui a Londra è tutto molto più semplice. Non c’è bisogno di prenotazioni né acquisto di biglietti. Si arriva e, se c’è coda, si fa la dosa, altrimenti, come è successo a me, si entra senza troppe cerimonie.

Sulla porta c’è scritto: «Silence, please». Entrati non si potrà più parlare. Viene chiesto di riporre i propri oggetti personali, soprattutto i telefonini, e viene consegnata una bella cuffiona nera, come quelle che si usano nei poligoni di tiro. Si viene anche informati che partecipando alla performance si accetta di essere, eventualmente, fotografati o ripresi. Si potrà stare all’interno della galleria per tutto il tempo che si desidera (ma Marina chiude la galleria alle 18).

Al di là dello “spogliatoio”, si entra in un ambiente composto da tre stanze. Nella prima, quadrata e coperta dalla caratteristica cupola della Serpentine, c’è una pedana di legno a forma di croce. A ciascuno dei lati ci sono tre sedie di legno dello stesso colore.

Nella stanza ci saranno una quindicina di persone. Alcune guardano quel che accade stando accanto alle pareti. Quelli seduti sulle sedie, invece, hanno gli occhi chiusi. Altri, ancora, sono in piedi sulla pedana con le mani lungo il corpo, alcuni si tengono per mano, sempre con gli occhi chiusi.

C’è Marina, che entra ed esce. Lei è vestita con pantaloni e giacca nera, camicia bianca. I capelli sono raccolti in una coda di cavallo. Cammina con le gambe un po’ a X, lo sguardo è vivo, ma la pelle del volto è esausta. Per lei è il 43esimo giorno di performance, sono passate 336 ore dall’inizio. Ad aiutarla un gruppo di ragazzi tendenzialmente vestiti di nero. Anche loro partecipano alla performance e hanno la funzione di “coinvolgere” i partecipanti. Uno di loro ha una lunga frangia turchina che gli scende sulla fronte. Un altro, sopra i pantaloni, ha una specie di gonna fatta di fili annodati a trama molto larga.

Attendo diversi minuti prima che uno dei ragazzi venga verso di me, incroci il mio guardo, mi prenda per mano e mi porti al centro della stanza sulla pedana. Sono al centro della stanza, ma non al centro della pedana. Anzi, diciamo che sono nella periferia della pedana. Per fortuna, penso, al centro dell’attenzione sì, ma non troppo. In quel momento con me ci saranno quattro o cinque persone. Un ragazzone con la maglietta bianca è lì già da diversi minuti. La mia “guida” mi fa capire di chiudere gli occhi. Li chiudo. Lui tiene ancora la mia mano. La terrà ancora forse per un paio di minuti. Poi, mentre io resto fermo con gli occhi chiusi, me la lascia e se ne va. Sono solo. E ora? Cosa faccio? Sono minuti che sto lì fermo. Comincio a sentire il peso della braccia. Le spalle sono un po’ incriccate. Penso: in questi casi, se si respira profondamente, non si sbaglia mai. Comincio a farlo e penso che sto andando forte. Gli occhi sono ancora chiusi, ma la voglia di aprirli è tanta. Li apro per una frazione di secondo solo di una fessura. Poi continuo. Dritto. Mi si vedrà troppo la pancia? E queste cose che penso? Finirò per scriverle? Penso a quello che sto pensando e non so se è esattamente quello che vorrebbe da me Marina. Io provo a impegnarmi cercando di cacciare via i pensieri, far andare via tutto fuori dalla testa per farci entrare qualcosa di nobile. Ma prima che accada riapro per la seconda volta gli occhi e questa volta è quella definitiva. Con un profondo senso di sconfitta scendo dalla pedana. Noto che il ragazzone con la tshirt bianca è ancora lì immobile a godersi la performance. Che invidia.

Giro per un po’ per la galleria. Le donne, giovani e meno giovani, sono tutte vestite in modo ricercato. Diverse sono anche molto belle. Marina abbraccia per lunghi secondi quelli che sembrano essere due amici. Bisbiglia qualcosa nell’orecchio, ma con questi cuffioni non si sente neanche il rumore dei tacchi che picchiano sul pavimento.

Vado nella seconda stanza. Qui, al lato della parete di finestre, ci sono una decina di piccoli tavolini a cui sono sedute altrettante persone. Mi avvicino e vedo che sono alle prese con del riso crudo misto a lenticchie (crude anche queste). Sempre su tavolino è una matita e un foglio bianco. Nel resto della stanza ci sono persone che camminano al rallentatore. Alcuni hanno gli occhi chiusi, altri no. Sul camminare al rallentatore mi sento poco portato. Mi considero forte a stare fermo al rallentatore, ma camminare… Decido però di buttarmi, ma a due condizioni. 1) camminerò vicino ai tavolini così (vedi punto 2) potrò osservare cosa fanno davvero quelli del riso e delle lenticchie 2) camminerò con gli occhi aperti, un po’ per il punto 1, un po’ perché camminare a occhi chiusi, si sa, fa andare storti e non ho intenzione di giocare agli autoscontri al rallentatore senza avere la possibilità di chiedere scusa a causa dell’imposto silenzio. Così parto. Lento. Lentissimo. Voglio far vedere che anche io riesco a non correre come faccio di solito in modo così grossolanamente superficiale e distratto. Ma subito mi accordo di qualcosa che non avevo mai notato: è molto difficile camminare al rallentatore facendo sì che gambe e piedi viaggino sempre alla stessa velocità. Nel momento in cui gli tocca tornare a terra, subiscono l’attrattiva della forza di gravità e quindi accelerano. Ci metto un po’ a tarare questa cosa, senza però riuscirci in modo davvero convincente. Intanto guardo quelli del riso. Vedo che ognuno fa una cosa diversa: c’è chi semplicemente separa i chicchi di riso dalle lenticchie. Qualcuno li raggruppa per 10, 20, 30 annotando tutto sul foglio. Altri prendono le lenticchie e le dispongono a spirale sul foglio. Capisco che deve essere rilassante. Un po’ come tagliare in mille pezzi la buccia delle arance, come faceva mia mamma dopo cena. Nel frattempo vedo che ci sono persone che viaggiano molto più lentamente più di me. Ma ormai la stanza è finita. Che faccio? Un altro giro? Vorrei provare anche le lenticchie, ma non ci sono sedie libere, così decido si andare nell’ultima stanza.

Entrato capisco subito che questo è il luogo per me. Alle pareti sono appesi quattro fogli colorati: uno giallo, uno rosso, uno blu, uno verde. Davanti al foglio c’è una sedia, e sulla sedia ci si può sedere per fissare il foglio colorato. Ma non è questo che mi mette a mio agio. A farlo sono le brande da campeggio verde scuro, su cui qualcuno, coperto da un lenzuolo azzurro o rosa, a occhi chiusi, è steso a compiere la propria performance. Ce ne sono di libere, ma io non oso. Poi, a un certo punto, si avvicina una ragazza magra con i capelli scuri corti. Mi prende per mano e mi conduce a una delle brande. Io mi distendo con le braccia lungo il corpo, lei mi copre con il lenzuolo rosa. Il cuscino è ancora bianco. Finito di coprirmi, mi passa la mano lungo il braccio sinistro e, quando arriva alla mano, me la stringe per un attimo. Ok, e ora? Anche qui: cosa faccio? E se mi addormento davvero? E se mi metto a russare senza accorgermene? Ma a un certo punto i pensieri scivolano su altro: cose fatte, cose da fare… Passa il tempo e a un certo punto mi accorgo si essermi scordato che sto facendo una performance con Marina Abramović. È grave? È il pensiero di un momento, poi altri pensieri. E infine, sì, probabilmente, il sonno. Quello vero. Non ho idea di quanto ci sia stato su quella branda. Venti minuti? Forse di più. A un certo punto mi sveglio da solo. Mi alzo e penso che, anche se non prevista dal metodo Abramović, la pennica, anche in una prestigiosissima galleria d’arte, dà soddisfazioni importanti.

Mi faccio ancora un giro per le stanze. C’è sempre Marina. Non mi avvicino a salutarla, non vorrei deconcentrarla. E poi cosa le direi in silenzio? Boh.

Esco e trovo il foglio per i commenti. Cosa scrivo? Poi lo pubblicano? Lo firmo o no? Deve essere qualcosa di abbastanza sibillino per non sembrare né troppo entusiasta né irrispettosamente strafottente. Provo con un: «Silence, and something else».

Uscendo guardo Rock on Top of Another Rock di Fischli e Weiss. Poi torno con la mente a queste forse due ore delle 512 Hours e penso: peccato non esserci stato ai tempi in cui Marina si tagliava la pancia con la lametta.

RICHTER ALLA BEYELER E QUELLE QUATTRO TELE BIANCHE

Studio di Gerhard Richter, Colonia, 19 dicembre 2013, foto di Georges Didi-Huberman.
Studio di Gerhard Richter, Colonia, 19 dicembre 2013, foto di Georges Didi-Huberman.

∑a mostra di Gerhard Richter Pictures/Series alla Beyeler di Basilea è una nuova occasione per ripetersi che, sì, esistono ancora grandi artisti e soprattutto grandi opere d’arte. Guardare, dopo aver visto il pittore tedesco, i Cézanne, i Monet, i Picasso, i Klee della collezione permanente conservata nel Museo progettato da Renzo Piano rinsalda nella certezza che, no, non tutto è perduto come alcuni dicono.

Eppure l’incontro con Richter non è mai facile, perché si tratta di un artista sfuggente, che fugge i tentativi dell’intelligenza di accalappiarlo. Appaga gli occhi, sfianca i neuroni. Non sappiamo bene dove ci porterà, che cosa ci sta dicendo, perché ce lo vuole dire. È qualcosa che ci attrae, di sicuro, e per questo il rovello che ci prende è ancor più intenso.

Qui però vorrei parlare del saggio che Georges Didi-Huberman ha scritto per il catalogo della mostra in forma di lettera allo stesso Richter. Parla di una visita, avvenuta nel dicembre del 2013, allo studio dell’artista. Dice: c’erano quattro tele bianche che attendevano di essere dipinte. Dice: l’arte di Richter vive di dubbio (ostilità verso tutte le forme di ideologia) e di desiderio. Il desiderio come motore del fare arte, che impedisce di arrendersi all’apparente assenza di significato delle cose. Dice: sono mesi che penso a che cosa accadrà di quelle tele bianche. Il critico francese ricorda quella risposta data a Nicholas Serota nell’intervista del catalogo di Panorama, in cui parla dell’impossibilità di raffigurare le immagini dell’olocausto. Ricorda che in quella risposta Richter cita un libro dello stesso Didi-Huberman Immagini malgrado tutto, che tratta proprio la possibilità di creare delle immagini dopo la tragedia dei campi di sterminio. Didi-Huberman racconta che una di queste immagini è appesa dello studio del pittore tedesco e che, andandolo a trovare e vedendo quelle quattro tele bianche ancora da dipingere ha pensato che forse, quello, sarebbe stato il luogo dove, finalmente, dopo sessant’anni di riflessione (c’è una foglio di Atlas dedicato), Richter avrebbe affrontato il tema più difficile. Ecco come termina la lettera:

«Spero che riuscirai a “portar fuori quelle immagini” dal tuo piano di montaggio psichico (troppo travolgente nell’immaginario), dove sono ancora da trovare, e da quel tuo piano di rappresentazione documentaria (troppo travolgente nel reale), dove noi forse le guardiamo. Non per sbarazzarcene, neanche per “salvarle attraverso l’arte”, ma invece, semplicemente per farle uscire e permettere che siano viste in modo diverso. So che quando uno ne ha abbastanza di qualcosa, in Germania voi dite: “Mi vien fuori dalla gola” (Es hängt mir zum Hals raus). In Francia noi diciamo: “Mi viene fuori dagli occhi” (Ça me sort par les yeux). Lasciaci attendere e vedere. Lasciaci vedere se queste immagini, alla fine, “ti verranno fuori attraverso gli occhi”, con l’aiuto della pittura».

Qui qualche foto della mostra di Basilea (che nessuno mi ha impedito di fare)

COME PENSA LA PITTURA? JONATHAN LITTELL SU FRANCIS BACON

Jonathan Littell, Trittico - Tre Studi su Francis Bacon - Einaudi

Ho letto il libro di saggi su Francis Bacon di Jonathan Littell. È intelligente e istruttivo. Istruttivo perché si imparano molte cose non solo su Bacon, ma anche su Velásquez, Goya e la storia della figurazione nell’Occidente cristiano (interessantissima la digressione che porta dai ritratti delle mummie del Fayyum a Rogier van der Weyden passando per la vicenda del Mandylion – la vera immagine di Cristo). È intelligente perché non chiude Bacon in una gabbia di interpretazioni, ma dice che per capire quel che dice Bacon occorre innanzitutto imparare ad ascoltare la sua lingua, che è la pittura. Non è un’idea formidabile o inaudita, ma viene spiegata con molta onestà e chiarezza. È un invito all’umiltà e alla curiosità.

Qui riporto uno dei passi più significativi.

La maggior parte degli spettatori, guardando un dipinto di Francis Bacon, dà per scontato, senza nemmeno pensarci, che la figura umana o animale di fronte a loro sia il soggetto di quel quadro. Ma non è affatto così: la figura è l’oggetto dipinto nel quadro; il soggetto, come in tutta la pittura, e non solo in quella astratta, è la pittura in sé. È la pittura a parlarci di ciò di cui essa stessa tratta. «La pittura – come Bacon spiegò a Franck Maubert a un cero punto degli anni ottanta – è un linguaggio a sé, una lingua a parte». Come tale, ha una propria fonologia (le relazioni e i valori tonali) e una morfologia (la disposizione delle forme sulla tela), una grammatica e una sintassi, la cui specifica organizzazione e articolazione, all’interno dell’opera di ciascun pittore, è l’unica cosa che può insegnarvi a leggere quell’opera. Ovviamente un attento studio degli oggetti è di importanza cruciale, e l’ampio corpus di scritti scaturito dallo studio delle fonti dell’opera di Bacon si è rivelato uno strumento potente, come ogni approccio iconografico, anche se ben presto mostra i suoi limiti (…).

Anche se sarebbe meglio evitare di prendere troppo alla lettera le dichiarazioni di Bacon in proposito, come dire la sua versione ufficiale, e prestare piuttosto attenzione a ciò che lui stesso definiva la propria «immaginazione tecnica». Soprattutto, sarebbe meglio non chiedersi mai: «Che cosa voleva dire Bacon qui?», perché non lo sapeva nemmeno lui, ma piuttosto: «Che cosa ci sta dicendo, qui e ora, questo dipinto?». Prendetevi il tempo per guardare davvero i dipinti, da soli in una sala o circondati dalla folla incollata alle audio guide, o anche seduti di fronte alle riproduzioni, su un catalogo o sullo schermo di un computer; osserva teli a lungo, spostandovi dall’uno all’altro, con pazienza: a poco a poco inizierete a vedere come pensa la pittura.

Jonathan Littell, Trittico – Tre studi da Francis Bacon, Einaudi p. 45

CAPIRE MEGLIO GIOVANNI FRANGI. QUALCHE PENSIERO

 

Giovanni Frangi parla del suo sito internet da quando lo conosco, quindi almeno dal 1999, l’anno della mostra alle Stelline “Il richiamo della foresta”. Alla fine c’è riuscito e da settimana scorsa è online www.giovannifrangi.it. Verrebbe da chiedersi: ci voleva tanto?

Giovanni non è un pigro e non è neanche uno a cui mancano le idee. Semplicemente pensa molto prima di fare le cose e decide di farle quando pensa sia il momento giusto di farle. Insomma, non improvvisa mai. Il fatto che il sito appaia oggi deve avere un significato particolare per lui e ho il sospetto che abbia a che fare con la volontà di fare un punto su quanto fatto fino a oggi.

Non varrebbe la pena parlarne infatti se non fosse che quel che ne è uscito è uno strumento prezioso per capire il percorso di uno dei maggiori pittori italiani degli ultimi vent’anni. È l’unico a disposizione per ricostruirne l’opera dall’inizio alla fine, se si tiene conto che il catalogo della mostra “Straziante, meravigliosa bellezza del creato” a Villa Manin copre il periodo 2005-2011.

Quel che appare anche agli occhi del più distratto degli osservatori è che la pittura di Frangi è molto cambiata. La critica che gli viene mossa più spesso è di aver tradito lo stile muscolare, giocato tutto sul colore materico, che lo ha contraddistinto almeno fino al 1999. Io sono tra quelli che pensano che non si tratti di un tradimento, ma di un passo avanti. Gli anni che da “Il richiamo della foresta” portano a “Nobu at Elba” sono quelli di un effettiva accelerazione verso un’altra direzione. Più elegante, ma non meno muscolare.

È stato in quel periodo che ho sentito parlare Frangi di Filippo de Pisis e, guardando a quanto è successo, la riflessione su questo maestro non era soltanto un eccentrico interesse a cui si sottopone chi vuole andare per forza contro il mainstream. L’avvicinamento a De Pisis, mai citato esplicitamente e forse neanche implicitamente, avviene tramite l’introduzione delle carte. A un certo punto, all’attività a olio, Frangi affianca un lavoro sistematico attorno a un genere considerato minore. Può darsi che la scelta sia dovuta a esigenze commerciali (si vendono più facilmente), ma a me pare che sul piano stilistico dalle carte non si torni più indietro. La stesura del colore molto diluito viene applicata anche alle tele e il disegno si fa sempre più essenziale. L’ossessione figurativa si affievolisce  senza mai scomparire definitivamente. La scommessa è tutta sulla pittura, il campo su cui un pittore vince o perde. Il punto più alto, forse, è “Giardini pubblici” esposto al Mart nel 2010.

Il sito documenta anche un altro aspetto decisivo dell’opera di Frangi. Da “La fuga di Renzo” in poi, le mostre sono sempre concepite come dei progetti compiuti, con una propria coerenza, come se fossero racconti con una trama. L’allestimento diventa parte essenziale della comprensione del lavoro che, quasi sempre, deve esser letto come un’istallazione vera e propria. Il capolavoro, in questo senso, per ambizione e risultato, è certo “Nobu at Elba” del 2004, che speriamo di poter rivedere presto riallestito.

Per lungo tempo la figura umana non è comparsa nell’opera di Giovanni. Ricordo la figura di donna appesa nel salotto di di un amico o il ritratto sulla copertina dell’edizione  Garzanti di “In Exitu” di Giovanni Testori. Le persone riappaiono nei quadri in modo inaspettato ed eterodosso in occasione di “Straziante, meravigliosa bellezza del creato”. Sono fotografie scattate in riva al mare, in Marocco mi sembra, i cui ingrandimenti sono dipinti quasi a monocromo. Pescatori, famiglie al bagno. Un omaggio a Schifano, forse. Anzi, sicuramente. Certo è una soluzione che non risolve il problema sconfinato della pittura della figura umana. Dilemma che resta aperto dopo la morte di Bacon e Freud (Richter non ne fa una malattia e nemmeno Hockney ultimamente) e chissà se qualcuno avrà mai la forza di riaffrontarlo con risultati all’altezza. Di certo le ombre di Frangi fanno fatica a scomparire dalla memoria di chi le ha viste. Per non parlare degli Albatros: «stormi d’uccelli neri, com’esuli pensieri, nel vespero migrar».

Ho consigliato a Giovanni di segnalare nel sito i due testi più importanti che trattano della sua opera: quello di Giovanni Agosti “Giovanni Frangi alle prese con la natura” edito da Feltrinelli e il saggio di Massimo Recalcati per la mostra al Diocesano “La règle du jeu. Atto secondo. Dieci giardini” del 2011.

Se potessi tornare indietro nel tempo e scegliere una mostra che non sono riuscito a vedere, forse, sceglierei quella del 2009 a Trento “Giovanni in gennaio”.

Di seguito ho provato a riassumere in nove immagini la storia raccontata da www.giovannifrangi.it.

MOMA E CHRISTIE’S, È L’ANNO DI SIGMAR POLKE

Alice in Wonderland, sigmar polke, Moma 2014
Alice in Wonderland, 1972.

Il 2014 sarà ricordato come l’anno della riscoperta globale di Sigmar Polke. I dati sono chiari: 1) Sabato apre al Moma una grande retrospettiva che ad ottobre alla Tate Modern e  nel 2015 al Museo Ludwig di Colonia. 2) Il 24 inaugura a Londra, alla Christie’s Mayfair una mostra dedicata a lui e al compagno di viaggio degli anni Sessanta: Gerhard Richter. Se grandi istitituzioni (e grandi sponsor, leggi: Wolkswagen) e mercato (Christie’s) si muovono in sincronia, l’operazione è già un successo in partenza.

Di per sé Polke non avrebbe bisogno di riscoperte, ma con l’operazione in corso lo si vuole consegnare alla storia dell’arte come un grande del secondo Novecento come è già è stato fatto con Richter.

Entrambe le occasioni, quella del Moma e da Christie’s, saranno utili per prendere le misure del grande del pittore tedesco, registarne la lettura critica e farlo conoscere al grande pubblico.

Certo, né a New York né a Londra ci saranno capolavori indimenticabili come il monumentale ciclo Axial Age realizzato per la Biennale di Venezia del 2007 ora di proprietà di Pinault e rivisto a Punta della Dogana (Robe da chiodi dice essere una delle meraviglie dello scorso decennio), ma al Moma sembra essere ricostruita in modo abbastanza esauriente (250 opere tra quadri, foto e film) tutta la parabola del pittore.

Pittore, appunto. Come Richter ma in modo molto diverso: più sperimentatore, forse, più istintivo anche se non meno cerebrale (è possibile essere entrambe le cose nello stesso momento?).

A volerlo distruggere basterebbe dire che faceva i pallini come Roy Lichtenstein. Ma è evidente che non è così. Ha dentro molto più mistero (e non faceva solo “i pallini”). Ha una mano fenomenale, un gusto, un senso del colore  che gli fa meritare questo momento di gloria.

Sigmar Polke, Untitled (Quetta, Pakistan) 1974/78
Sigmar Polke, Untitled (Quetta, Pakistan) 1974/78

 

IRVING PENN E IL BACIO DI MILES DAVISIRVING PENN E IL BACIO DI MILES

miles davis tutu interior frontal photo irving penn 1986
Irving Penn, Miles Davis, 1986

Ho ritrovato questo pezzo di Jay Fielden su Irving Penn pubblicato su Vogue. Ecco il finale indimenticabile:

Mentre parliamo lui si illumina alla vista della mano di Miles Devis, incisa da una ragnatela di rughe.

A Penn era stato commissionato un ritratto del grande jazzista per la copertina del suo album del 1986, Tutu.

Davis si presentò con il suo parrucchiere e il suo famigerato modo di fare.

«Provai a rivolgergli la parola appena entrò, ma lui mi ignorò completamente», ricorda.

Quando Davis ebbe terminato di agghindarsi, si piazzò di fronte alla macchina fotografica.

Penn continua:

«Scommetto che vuoi che mi tolgo la maglia» mi disse. «Si», gli risposi. «E scommetto che vuoi che mi tolgo anche tutte le catene d’oro». «Si», gli risposi di nuovo. Poi, per circa un’ora, lavorammo.

Alla fine gli dissi «Grazie mille».

Lui si alzò, mi si avvicinò e mi baciò sulla bocca.

Non sapevo cosa dire.

Ci stringemmo la mano, e se ne andò.

Poi tardi conobbi la sua musica e mi colpì profondamente: era pura arte visiva. È una cosa terribile che io non abbia potuto condividere con lui questa cosa, all’epoca».

Penn appoggia un dito sulle labbra, come fa spesso quando è assorto in qualche pensiero. «Questo è lo strazio della mia professione», aggiunge. «Mi resta solo quel bacio da ricordare».

Qui il grande Miles:

(Grazie a Petra per l’aiuto per la traduzione)

I “NOVISSIMI” DI ROBERT IRWIN E JAMES TURRELL A VILLA PANZA

Robert Irwin, Varese scrim, 2013, Villa Panza, Varese
Robert Irwin, Varese scrim, 2013

Sono stato a Villa Panza per AISTHESIS – All’origine delle sensazioni la mostra Robert Irwin e James Turrell curata da Michael Govan e Anna Bernardini. La prima cosa da dire è che si tratta di una grande mostra. La seconda è un consiglio: scegliete una bella giornata di sole, e se andate in questo periodo, mettetevi un paio di calze di lana spessa. Vi godrete di più le opere.

È una grande mostra perché

  • Ci sono delle opere davvero importanti
  • La ricostruzione della vicenda dei due artisti e del loro, fondamentale, rapporto con il conte Panza è realizzata con poche parole e molti documenti
  • L’allestimento è chiccosissimo

Irwin e Turrell sono due grandi vecchi e le loro prime intuizioni degli Anni Sessanta li hanno consegnati alla storia, ma loro traiettoria è ancora tesa e la forza delle ultime opere ci dice che continuano ad essere protagonisti assoluti nel panorama dell’arte di oggi. Penso che questo dipenda dai robustissimi presupposti teorici piantati quasi cinquant’anni fa. Questo vale soprattutto per Turrell che ha dovuto attendere che la maturazione della tecnologia gli permettesse di realizzare progetti concepiti sulla carta diverso tempo fa. La mostra al Guggenheim di New York, che purtroppo non ho visto, è certamente uno degli eventi del 2013 che nessuno si è preso la briga di sottolineare nelle scorse settimane, come sarebbe stato il caso.

Alla fine della mostra ho preso un caffè con un giovane gallerista che mi parlava con sospetto della necessità –  a suo giudizio soprattutto italiana – di andare a cercare a tutti i costi i significati profondi e «spirituali» [parola che io tendo a non usare] dell’arte. Io ho risposto che il valore di un artista si misura anche con l’ambizione da cui parte il suo lavoro e la profondità dei temi affrontati è certamente parte di tale ambizione. Non si può negare che la dimensione «spirituale» o trascendente sia uno dei temi più profondi che un’artista possa affrontare. Ma per scoprire la dimensione «spirituale» di un lavoro, legata in un modo o nell’altro alle domande sul senso delle cose, occorre che l’artista abbia seminato davvero elementi concreti che permettano una lettura di questo genere. Magari non intenzionalmente o escludendolo esplicitamente. Dan Flavin, ad esempio, negava qualsiasi contenuto spirituale alle sue opere con i neon, eppure Giuseppe Panza vedeva in esse una fortissima carica religiosa. Chi aveva ragione? Che elementi concreti aveva il conte per pensare così? Secondo me ne aveva tanti e questo conferma la forza del lavoro dei neon, capace di trascendere, qui è proprio il caso di dirlo, le intenzioni dello stesso Flavin.

E Irwin e Turrell? Per i curatori della mostra i due vanno all’origine delle sensazioni. Sensazioni non tanto intese come “sentimenti”. Il lavoro dei due californiani non nasce da una ricerca emotiva o psicologica, ma si concentra sul funzionamento dei sensi. Soprattutto in Turrell questo è evidente: il suo lavoro è tutto teso a raggiungere il “grado zero” della percezione. Come dire: noi facciamo esperienza della luce tutti giorni, ma questa esperienza è sempre legata a degli oggetti fisici su cui la luce si riflette in diversi modi mostrandoci i colori, Turrell invece ci vuole offrire l’esperienza della luce in quanto tale, dei colori in quanto tali. Potremmo definirli i “Novissimi” [le cose ultime] della percezione: luce e colore al loro stato puro. Chi non ha paura di porsi certe questioni, visitando questa mostra, non può non essere portato a pensare, anche solo tangenzialmente, ai veri “Novissimi”: la morte, il giudizio, il Paradiso e l’Inferno o comunque alla sfera che con essi ha a che fare. Perché, in fondo, come diceva san Tommaso d’Aquino: «Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu». Non c’è nulla nell’intelletto che prima non sia passato nei sensi.

James Turrell Ganzfeld, Varese 2013
James Turrell, Ganzfeld, Varese 2013