IL PRESTIGIOSISSIMO “FLOWER PRIZE 2013″ VA A CAMILLE HENROT

La vincitrice del “Flower Prize 2013″ è Camille Henrot con Grosse Fatigue.

Motivazione della Giuria:

«Il modo in cui l’universo deborda dalla rappresentazione». È questo il cuore del lavoro dell’artista francese. Una ricerca che parte dagli archivi della Smithsonian Institute per raccontare la storia dell’universo in un filmato di dieci minuti. Una ricerca da antropologa, a caccia di miti, ma che viene attraversata dall’ossessione per le immagini. Immagini che dialogano tra loro e con le parole creando, corto circuito dopo corto circuito, un discorso di poesia rapsodica. La cornice è quella dello schermo di un computer, sul quale appaiono, finestra dopo finestra, le singole sequenze che si sovrappongo in un contrappunto elegante e immaginifico. Alla fine del viaggio si è disorientati e, quando la luce si riaccende dopo la proiezione, si cerca la via di casa. Di una casa, da qualche parte. Nell’universo che deborda.

La narrazione di Camille Henrot appare come una novità di particolare forza espressiva. Il mezzo del video è usato con sapienza ed equilibrio e sa comunicare, non senza una dose di leggerezza, un tema alto e ambizioso. L’approccio investigativo, enciclopedico ed illuminista, si scioglie a causa di una temperatura poetica visiva incandescente. La sfida positivistica s’infrange contro il muro dell’infinito. Il senso di fallimento che restituisce ne è la vittoria più sorprendente.


Camille Henrot, Grosse fatigue, Biennale di Venezia 2013

Camille Henrot, Grosse fatigue, Biennale di Venezia 2013
Camille Henrot, Grosse fatigue, Biennale di Venezia 2013
Camille Henrot, Grosse fatigue, Biennale di Venezia 2013
Camille Henrot, Grosse fatigue, Biennale di Venezia 2013
Camille Henrot, Grosse fatigue, Biennale di Venezia 2013
Camille Henrot, Grosse fatigue, Biennale di Venezia 2013
Camille Henrot, Grosse fatigue, Biennale di Venezia 2013

ECCO LA SHORT LIST DEL PRESTIGIOSISSIMO FLOWER PRIZE 2013

Eccoci giunti, affezionatissimi amici di NONAME, alla quinta edizione del Prestigiosissimo Flower Prize.

L’albo d’oro di questa manifestazione prenatalizia fa tremare le vene ai polsi: Marc Quinn, Julia Krahn, Urs Fischer e Jenny Saville. Anche quest’anno il dibattito e le polemiche riempiranno le pagine dei quotidiani internazionali.

Ripetiamo per i pochi che non le conoscono le regole del premio: entrano nella short list singole opere realizzate nell’anno in corso e viste di persona dal titolare di NONAME e il vincitore è decretato insidacabilmente dal titolare di NONAME.

Il vincitore verrà proclamato il prossimo 23 dicembre

A rendere un po’ anomala l’edizione di quest’anno è l’assenza di artisti giovani provenienti dal vivaio di Giorni Felici, la tradizionale mostra a Casa Testori che quest’anno si è presa un anno di pausa (appuntamento il prossimo giugno?). Avremmo voluto inserire tra i finalisti anche Blindly, il video presentato alla Biennale di Venezia da Artur Żmijewski. Peccato che l’opera sia del 2010. Avremmo voluto inserire l’istallazione di James Turrell al Guggenheim di New York, ma NONAME non l’ha vista dal vivo. Avremmo anche voluto inserire un pittore, ma francamente – forse per distrazione, forse perché sono tempi difficili per la pittura – quest’anno non mi viene in mente niente.

Ma bando alle cianche. Ecco la Short List del Prestigiossimo Flower Prize 2013:

A) Camille Henrod con Grosse Fatigue (video)



B) Joel Meyerowitz con Objects da Atelier Cézanne


C) Ron Mueck con Couple Under An Umbrella


D)  Richard Mosse con The Enclave (video)


E) Studio Azzurro (Paolo Rosa) con  In principio (E poi)


F) Nan Goldin con Chimera

A MILANO I CRISTI FOSFORESCENTI DI ANDY WARHOL

Sono stato a Palazzo Reale a vedere Andy Warhol. La mostra è molto bella per diversi motivi. Il primo è che è una mostra in cui si impara. Si impara che Warhol non è un artista né improvvisato né superficiale. Il secondo motivo, e sta alla base del primo, è che a Palazzo Reale è stata portata la collezione della Brant Foundation: una raccolta di pezzi scelti sapientemente e con gusto.

Che Warhol non sia un artista improvvisato di capisce subito, nella prima sala, dove vengono esposte le opere degli anni Cinquanta. Disegni, acquarelli e opere su carta (e qualche altra cosa che andrebbe sotto la definizione di “arte applicata”. La mano di Andy è sicura e raffinata. Il tratto è continuo e non ha ripensamenti. Chi ha visto il meraviglioso stand della galleria Daniel Blau quest’anno ad Art Basel sa di cosa sto parlando (vedi qui, qui e qui).

L’aura di spensieratezza che pervade la prima sala si perde ben presto e lascia il posto a un senso di inattesa inquietudine (me l’ha fatto notare Petra, ed è vero). Dietro l’ostentato vitalismo un po’ cazzone che Warhol coltivava alla Factory e smerciava nelle interviste e nelle serate mondane, c’è un dramma mica da ridere. Marilyn appena morta (in mostra ce n’è una perforata da un proiettile), Liz Taylor dopo la malattia, i car crash, i teschi…  Fino alle feroci pennellate degli anni settanta sulle serigrafie di Mao o al grande autoritratto rosso dell’ultimo periodo (di questa serie ha parlato qui robe da chiodi).

L’ultima sala, poi, è un colpo al cuore. Quell’immensa tela che rifà l’ultima cena di Leonardo è un trionfo. Torna fuori la mano del disegnatore: il tratto è ininterrotto, divertito e senza paura. È l’ultima cena di Cristo ed è l’ultima cena di Andy al banchetto dell’arte. Quei due Cristi fosforescenti, prima di uscire, emanano una luce notturna. La felicità delle due natività della prima sala, con Gesù bambino che gioca con i gatti, lascia spazio a un’inquietudine premonitrice. È l’in exitu vibrante per una mostra difficile da dimenticare.

Le immagini qui sotto sono tratte dal sito della Brant Foundation.

Andy Warhol, Brant Foundation

Andy Warhol, Brant Foundation
Andy Warhol, Brant Foundation

Andy Warhol, Brant Foundation

 

NEL VENTRE DELLA BIENNALE

Ecco il mio reportage dalla Biennale di Venezia 2013, pubblicato su Tracce di luglio/agosto:

Giovanni Testori la chiamava “biennalica balena”. Un cetaceo spiaggiato sulle rive della Laguna. Un enorme animale agonizzante, immagine di un evento che, già nel 1978, non aveva più niente da dire. Sono passati 35 anni e l’ombra di quelle parole si allunga ancora sul Canal Grande, su su, lungo la Riva degli Schiavoni fino ad arrivare ai Giardini di Castello, che con l’Arsenale sono sede della 55a Biennale di Venezia. Eppure una visita a quella che rimane la più importante manifestazione di arte contemporanea del mondo si può fare solo lasciando da parte – almeno per qualche ora – le giuste perplessità testoriane e non solo testoriane. Varrebbe la pena venirci anche solo per la vera novità del 2013: la presenza del padiglione della Santa Sede, fortissimamente voluto dal cardinale Gianfranco Ravasi e che tanto sta facendo discutere. Il Giornale dell’Arte ha titolato il numero di giugno «Il Papa alla Biennale». Papa Francesco a Venezia non ci verrà di persona, ma chi l’ha detto che proprio la Biennale non sia una di quelle «periferie esistenziali» con le quali ci invita a comprometterci?

Da Jung a Pasolini. Quest’anno la mostra principale è stata affidata a Massimiliano Gioni, giovane curatore di Busto Arsizio, ma newyorkese d’adozione. Il titolo, Palazzo Enciclopedico, è ispirato da un eccentrico emigrato abruzzese in Pennsylvania, Marino Auriti, che negli anni Cinquanta immaginò di costruire un immenso grattacielo dentro il quale raccogliere tutto il sapere umano. Gioni è un grande regista dello sguardo, capace di creare un percorso in grado di spiazzare anche gli addetti ai lavori. Su 150 artisti, circa la metà sono sconosciuti. Molti non sono nemmeno artisti di professione, ma persone che si sono ritrovate a creare immagini per i motivi più vari.
La via maestra seguita dal curatore è quella della curiosità, la voglia di capire quali siano i confini del linguaggio dell’arte. L’approccio di Gioni può apparire anti-ideologico, verrebbe da dire “formalista”. Eppure ai Giardini la mostra si apre esibendo i tre “santi protettori” del Palazzo enciclopedico: Carl Gustav Jung, primo allievo di Sigmund Freud (con il Libro rosso, codice “miniato” con l’interpretazione dei propri sogni), André Breton, teorico del surrealismo (con la maschera che ne fa René Iché), e Rudolf Steiner, pedagogo, occultista e teorico della teosofia (con le lavagne da lui realizzate durante le tante conferenze). Capito da quale punto di vista stiamo per guardare il mondo, ci si allaccia le cinture e si percorre a capofitto il caleidoscopico viaggio dentro il ventre della “biennalica balena”.
Il racconto di questo percorso andrebbe fatto per immagini. Ma avendo a disposizione soltanto le parole, facciamo il nome di qualche artista. Quello di Viviane Sassen, ad esempio, fotografa olandese che ritrae persone da Ghana, Tanzania, Zambia e altri Paesi africani: per pudore spesso lascia in ombra il volto dei soggetti. O di Maria Lassnig, la novantaquattrenne pittrice austriaca ancora in grado di far vibrare il volto e il corpo umano sulla tela di un quadro. Shinro Ohtake, con il labirinto onirico dei suoi Scrapbooks. Roberto Cuoghi, che realizza una monumentale scultura astratta, Belinda, che sembra un pesantissimo macigno in bilico. In realtà è una struttura in polistirolo coperto di polvere dolomitica e cenere ottenuta dal forno di una pizzeria. La francese Camille Henrot che, in un filmato di qualche minuto, prova a ricostruire la vita della terra dal suo inizio. Richard Serra rende omaggio a Pasolini con due parallelepipedi di bronzo scuro, attorno ai quali fanno da cornice i mari tempestosi dipinti da Thierry De Cordier.

I raggi del sole. Ma a doversi soffermare su un’opera, val la pena parlare di Blindly, il video del polacco Artur Zmijewski. Il filmato mostra alcuni adulti ciechi a cui l’artista ha chiesto di dipingere un paesaggio e il proprio ritratto. Sullo schermo appaiono uomini alle prese con una sfida vertiginosa. La loro umanità emerge con forza. Il mistero della visione appare in tutta la sua insondabile profondità. A un certo punto uno dei “pittori ciechi” dice: «Devo dipingere il sole? Qui scelgo il pennello, le dita non vanno bene. Dicono che i raggi del sole sono fili sottili, le tracce delle dita sarebbero troppo spesse». Verso la fine del video si vede una mano impiastrata di colori. Una delle immagini indimenticabili di questa Biennale.
Oltre la mostra di Gioni, alla Biennale sono presenti 88 padiglioni nazionali. Il più bello? Forse quello dell’Irlanda. Il fotografo Richard Mosse ha portato un filmato realizzato nel Nord Kivu, nella Repubblica Democratica del Congo. Qui, dal 1988 sono morte quattro milioni di persone in una guerra dimenticata. Nel suo tentativo di reinventare la fotografia di guerra, Mosse aveva iniziato nel 2009 a scattare immagini con la pellicola a infrarossi. Sul rullino si imprime lo spettro di luce non visibile all’occhio umano. Le foto mostrano, cioè, quel che c’è ma non si vede: una metafora non solo della guerra dimenticata, ma anche un tentativo di mostrare ciò che ci sfugge di quel che guardiamo. Le immagini, poi diventate anche un filmato, sono di una bellezza tragica: il verde della foresta rigogliosa diventa di un magenta-rosa profondissimo. Una scossa. Anche per i cuori più impenetrabili.
È solo dopo aver attraversato gli oltre 10mila metri quadrati dell’esposizione principale e messo il naso nei padiglioni nazionali più importanti, che si può prendere la misura della sfida lanciata dal cardinale Ravasi portando la Santa Sede a Venezia. Se per le singole nazioni si tratta di presentare gli artisti più significativi del momento, oggi la Chiesa torna a riflettere sul proprio rapporto con l’arte contemporanea. Una ferita, un divorzio, il teatro di profonde incomprensioni. La via scelta non è quella di proporre una mostra di arte sacra, ma di suggerire ad alcuni artisti di primo livello (cosa nient’affatto scontata) un tema di lavoro, quello dei primi undici capitoli della Genesi. Si trattava di riallacciare un rapporto non tanto con l’arte contemporanea in generale, ma con alcuni uomini, chiamati a coinvolgersi in prima persona con opere realizzate per l’occasione. La scelta è caduta sul collettivo milanese Studio Azzurro, il fotografo ceco Joseph Koudelka e l’artista australiano Lawrence Carroll. Come ouverture sono state scelte tre opere che il pittore Tano Festa realizzò in omaggio al Michelangelo della volta della Cappella Sistina. Quella di Studio Azzurro è l’opera che più si fissa nella memoria. Su tre schermi vengono proiettate immagini di persone che camminano in uno spazio indefinito. Se lo spettatore appoggia la mano su una figura, questa si ferma e si rivolge verso di lui “pronunciando” alcune parole. Nel primo e nel secondo schermo, vengono mimati con l’alfabeto dei muti nomi di piante o animali. Nel terzo – ed è il momento più toccante di tutto il padiglione – i protagonisti sono alcuni detenuti del carcere di Bollate. Quando vengono toccati si fermano e appoggiano entrambe le mani sullo schermo. Iniziano a dire il proprio nome, quello dei genitori e dei genitori dei genitori. Mentre parlano può capitare che le nostre mani tocchino le loro. È quasi come essere nel parlatorio di un carcere. Dio comandò con la parola e le cose furono create, sembra suggerire Studio Azzurro, ma in quel momento non c’era ancora nessuno in grado di ascoltare quelle parole. L’uomo, invece, è creato proprio per pronunciare il proprio nome, per dire «io».

«Voi siete maestri». Missione compiuta? Più che altro è un’avventura iniziata di nuovo. Si potevano scegliere altri artisti? Certamente. Ma il Cardinale ha intrapreso la sfida con il suo stile, ed è giusto che sia stato così. Quel che colpisce, rispetto al contesto della Biennale, è vedere come altrove l’immagine artistica cerca di svincolarsi dalla parola. Cerca cioè di dire ciò che le parole non arrivano a dire. Nel padiglione della Santa Sede, invece, all’immagine è chiesto, in qualche modo, di tornare alla parola. E non una parola a caso. Questo scarto è forse il grande problema. E non è detto che sia risolvibile in modalità convincenti. Ma se è così, è proprio necessario che questa riconciliazione avvenga? Non basterebbe rifarsi alle forme del passato, così riuscite e ammirate? Verrebbe da dire: no, non basta. Se è vero che Cristo o è contemporaneo a noi o non è, gli artisti di oggi devono giocarsi per quello che sono, da poveri uomini moderni, con la loro sensibilità e gli strumenti che hanno a disposizione. Guardare indietro sarebbe una scorciatoia. Usciti dal padiglione della Santa Sede, lasciandoci alle spalle la candida opera di Carroll, tornano in mente le parole di Paolo VI agli artisti: «Noi abbiamo bisogno di voi, voi siete maestri». Con questi pensieri, e molte immagini nella testa, si prende la direzione di San Zaccaria per salire sul vaporetto del ritorno. Un po’ come Giona sputato fuori dal ventre della balena. Che torna a riveder le stelle.

IL DEBUTTO DI UN GRANDE PITTORE. SICURO MARTIN?

Martin Gayford è un noto giornalista e critico inglese. Collabora regolarmente con il quotidiano The Independent e Bloomberg News. Ha scritto un libro che ho amato molto: A bigger message. Conversazioni con David Hockney. Il libro precedente si intitolava: L’uomo con la sciarpa blu, ed è il racconto di quando posò per un ritratto nello studio di Lucian Freud. Nelle librerie inglesi arriverà presto il suo prossimo: Michelangelo: His Epic Life.

Martin Gayford siede nello studio di Lucian Freud di fronte al suo ritratto.

Ho iniziato a seguirlo su Twitter. Non twitta molto, ma qualche ora fa ha mandato il messaggio qui sopra. E mi ha subito incuriosito.
David Dawson, infatti, è stato l’ultimo assistente di Lucian Freud e l’ultima persona che posò per lui. È lui il soggetto dell’ultimo quadro incompiuto del grande maestro. Ha studiato al Royal College of Art insieme a Tracey Emin e i fratelli Chapman.

L'ultimo quadro di Lucian Freud che ritrae David Dawson.

Oggi inaugura una sua mostra di quadri alla Marlborough di Londra (la galleria di Francis Bacon) intitolata: David Dawson: London : Wales : New York.
Quelle qui sotto sono alcune delle opere che fanno dire a Gayford: a major painter makes his debut.
Martin, sei sicuro?



 

QUELLA VOLTA A CASA TESTORI CON PAOLO ROSA

Paolo Rosa, Studio AzzurroIeri è morto Paolo Rosa, uno dei fondatori di Studio Azzurro. Ho avuto la fortuna di conoscerlo a fine luglio, quando portò a Casa Testori una giovane artista, Elisabetta Falanga, proponendo di usare una stanza della villa di Novate per una sua istallazione. Ero andato a incontrarlo per portargli una copia di Tracce su cui avevo scritto un articolo sulla Biennale di Venezia. Nel pezzo parlavo anche del Padiglione della Santa Sede e in particolare mi soffermavo sulla sua opera realizzata con, tra l’altro, i detenuti del carcere di Bollate. Trovo che la sua opera sia la più significativa tra le cose proposte da Ravasi & Co.

Quel giorno a Novate ha avuto la pazienza di rispondere alle mie domande sul perché e il per come della sua partecipazione all’azzardo vaticano nel campo aperto dell’arte contemporanea. Raccontava che era stato invitato al Festival della spiritualità di Torino. Giuseppe lo prendeva in giro chiamandolo monsignor Rosa e lui rispondeva con il suo sorriso gentile.

Mi colpirono due cose. La prima è la semplicità con cui raccontava la sua adesione all’invito vaticano, diceva: «La cosa che mi ha convinto è stata che hanno voluto fare un padiglione di arte contemporanea e non di arte sacra». Si diceva, lui laico, lusingato dall’invito da parte del più grande committente della storia dell’arte. Ma questo gliel’avevo sentito dire già in alcune interviste, mentre la seconda cosa era ancor più sorprendente e confermava un’intuizione che avevo scritto nel mio pezzo sulla Biennale. Lui raccontava di un rapporto cordiale nato con la curatrice del padiglione Micol Forti. L’avrebbe incontrata il giorno successivo per progetti futuri. Tra loro era nata una stima reciproca e poi un’amicizia. Penso che questo sia il vero esito positivo dell’operazione di Ravasi: hai voglia a sanare la ferita tra Chiesa e arte contemporanea con i proclami delle università pontificie… Occorre imparare a conoscersi e, se Dio vuole, diventare amici.

Paolo Rosa è morto ieri a Corfù a 64 anni. L’ho conosciuto mentre cercava di aiutare una giovane artista. Mi è parso una persona curiosa, seria e di una sensibilità profonda. Diceva che per lui l’arte oggi non può non porsi il problema della partecipazione del pubblico. Per lui l’opera era un evento, un evento sociale, capace di mettere in rapporto le persone. Penso sia un’intuizione giusta.

Di lui ricorderò gli occhi azzurri e la mia mano che tocca quella del carcerato di Bollate nella penombra del Padiglione vaticano.

LA CONTADINA CHE RESUSCITÒ JOSEPH BEUYS

Ho letto la biografia di Joseph Beuys di Heiner Stachelhaus pubblicata l’anno scorso da Johan & Levi. Non è un libro straordinario, ma ha il pregio di restituire un’idea complessiva delle vicende del grande artista in modo lineare e (come direbbe Maurizio Milani) completo. Diciamo che è un buon punto di partenza. A maggio è uscita anche la nuova biografia di Hans-Peter Riegel, anticipata dalla stampa tedesca come rivelatrice di magagne sconosciute nel passato di B. (tipo mecenati nazisti e balle raccontate sul suo mitologico passato). Purtroppo è in tedesco e, al meno io, dovrò attendere che qualcuno la pubblichi nella lingua del . Se la sensazione è che Stachelhaus abbia sfiorato l’agiografia, è più che probabile che Riegel abbia ecceduto in senso opposto. Essendo quello su Beuys un vero e proprio culto, è naturale che vi siano i relativi sacerdoti ed eretici…

***

La pagina più bella del libro di Stachelhaus è quella dedicata alla testimonianza della madre dei fratelli van der Grinten sul periodo della depressione di Beuys. I fratelli van der Grinten erano figli di contadini e avevano una fattoria a Kranenburg, vicino a Kleve. Hans e Franz Joseph conoscono B. nel 1946 e nel 1951 decidono di diventare i suoi primi collezionisti. Fatto stà che dal 1954 B. cade in una profonda depressione. Viene ricoverato senza esiti, molti amici cercano di aiutarlo. Un giorno Franz Joseph chiede alla madre se possono ospitare B. per qualche tempo. La madre accetta non senza qualche esitazione. Dice: ho appena perso mio marito, non sono sicura di poter aiutare qualcun altro. Ecco come in un’intervista del 1971 la donna racconterà quella vicenda. Un saggio di pragmatismo contadino, che riesce ad attraversare il tormento di un uomo cogliendone il vero snodo esistenziale. Per la serie: scarpe grosse, cervello fino.

«Parlavamo di guerra, di arte, di politica, di paesi stranieri, di fiori… Beuys si intendeva di tutto. Nell’ultimo periodo lavorare non gli dava più soddisfazione, restata a letto tutto il giorno, fumava e si rifiutava di mangiare. Una volta Franz Joseph è tornato a casa per il fine settimana, come sempre, e mi ha detto: “Hai una brutta cera. Se va avanti così, sarai tu ad ammalarti anziché lui a guarire”. Gli ho raccontato come stavano le cose, che non riuscivo ad accettare che lui se la prendesse con se stesso, a allora Franz Jospeh ha detto: “Bene, se è così deve andarsene, abbiamo fatto abbastanza per lui”.
L’ho detto a Beuys. E il mattino seguente, ormai pronto a partire con i bagagli già fatti, è venuto da me, mi ha ringraziato e ha detto: “Signora van der Grinten, mi ha fatto molto piacere stare con lei, me ne vado a malincuore”. “Ci credo” gli ho risposto “ma per come sono stati gli ultimi giorni, io non ce la faccio. Non posso restare a guardarla mentre se la prende con se stesso e contro il Signore senza sentire ragioni”. Sì, rispose, era convinto che il Signore lo avesse abbandonato. “Invece” gli ho detto io “sono sicura che il Signore è con lei. Le ha dato il talento e le ha messo l’arte nel cuore. E se lei promette a sua madre di tornare a casa e poi passa tutto il tempo a vegetare non pensa che sua madre ci resti male? È una cosa che disapprovo, non riesco a sopportarlo. Non penserà mica che la mia vita sia stata tutta rose e fiori! Anch’io ho avuto molte preoccupazioni e difficoltà, oltre a dover lavorare sodo. Quando mio marito è morto in un incidente, un’ora dopo ho dovuto mungere le mucche e dare da mangiare ai maiali lo stesso, perché il dovere è dovere e non si può aspettare, deve farci i conti anche lei. Un uomo deve avere il senso del dovere. Se lei lavora su questo, tutto il resto viene da sé”.
Ha ascoltato in silenzio. Non gliel’ho detto in modo duro o severo, perché era simpatico e volevo davvero aiutarlo, e lui ha capito. Mi ha chiesto se poteva tornare. Gli ho detto che poteva venire tutte le volte che voleva. Poi è partito e due giorni dopo è passato per una breve visita. Così l’amicizia è rimasta e lui è guarito».

(da Heiner Stachelhaus, Jospeh Beuys – Una vita di controimmagini, Johan & Levi, pp. 54-55)

QUEI MAZZI DI FIORI PER LA MADONNA DEL PARTO

«Solenne come figlia di re sotto quel padiglione soppannato di ermellini, essa è tuttavia rustica come una giovane montanina che venga sulla porta della carbonaia»
(da Roberto Longhi, Piero della Francesca, Abscondita, p.84)

«Quando sono tornato a Monterchi ho scoperto che l’affresco era stato staccato dal muro della cappella posta all’ingresso del vecchio cimitero e rimontato su un muro della scuola del paese. La costruzione sfoggia un’architettura di stile fascista degli anni 1932-1933 e la Madonna di Piero è stata messa sotto vetro, incorniciata e illuminata in modo tale da sembrare ormai una diapositiva proiettata sullo schermo. Non è più possibile distinguere la natura di pittura a fresco, e neanche capire se si tratta dell’opera originale o di una riproduzione. Quanto ai vasti spazi ormai dismessi, sale e aule, sono stati trasformati in “shops”, come sta scritto, negozi di souvenir e “prodotti derivati”. Le masse dei turisti che si riversano dai pullman ogni estate hanno sostituito le processioni delle fanciulle vicine a partorire»
(da Jean Clair, L’inverno della cultura, Skira, p.87)

C’è un che di ipnotico in quel «viso da mustela» (Longhi), in quell’irreale apertura simmetricissima della tenda. C’è una quantità di pensiero che atterrisce chi ha la tendenza a guardare opere d’arte più con la pancia che con la testa. Uscendo dalla vecchia scuola elementare di Monterchi è quasi obbligatorio domandarsi se aveva ragione Berenson quando scriveva: «Oso dunque affermare che nei suoi momenti quasi universalmente reputati supremi, l’arte è sempre stata ineloquente come in Piero della Francesca, sempre, come in lui, muta e gloriosa».

***

Come scrive Jean Clair, l’allestimento della Madonna del parto è la quintessenza della musealizzazione. Qui mai come altrove si sente la violenza dello “strappo” dell’affresco. La teca climatizzata è pulita e ortogonale, opera di un Donald Judd della Valtiberina, e sembra fare eco alle splendide geometrie di Pietro. Eppure, allo stesso modo miracoloso in cui dentro il rigoroso padiglione di ermellini appare quasi ruspante la bellezza della “giovane montanina”, anche nella scuola di Monterchi va in scena qualcosa di assolutamente sorprendente. Lì, nella penombra della saletta, appoggiati con grazia si trovano una serie di mazzi di fiori omaggio devoto delle giovani donne incinte dei paesi vicini. Neanche la musealizzazione più selvaggia è riuscita a disinnescare l’affezione popolare a questa immagine senza tempo.

Nella foto qui sotto si intravvedono i fiori.

LA BATTAGLIA DEGLI EROI DI MARC QUINN

Sabato sono stato con gli amici dell’Associazione Testori a Venezia. Alla mattina abbiamo visto la mostra di Manet spiegata da Robe da Chiodi che, personalmente, mi ha aperto la testa come una cozza. A pomeriggio, invece, è toccato a me spiegare la mostra di Marc Quinn alla Fondazione Cini sull’isola di San Giorgio. È stata l’occasione per mettere a fuoco l’opera di uno degli artisti più interessanti degli ultimi anni.

La mostra è molto bella. Straordinaria la serie Evolution che si affaccia sulla laguna (ci tornerò in un altro post). Ma vedere da San Marco la figura di Alison Lapper incinta svettare sulla laguna è qualcosa che sarà difficile da dimenticare. È la versione gonfiabile alta 11 metri realizzata per la cerimonia di inaugurazione delle Paraolimpiadi di Londra 2012. Quella di marmo l’avevo vista a Verona nel 2009.

Nel meraviglioso catalogo (davvero) realizzato da Skira c’è una lungo dialogo tra Germano Celant e Quinn. Ci sono moltissime cose interessanti. Ve ne segnalo una, proprio sul ritratto di Alison Lapper e la sua presenza sul Fouth Plint di Trafalgar Square.

Marc Quinn: Il marmo originale a Trafalgar Square… era in un luogo destinato agli eroi pubblici, persone che erano andati e avevano conquistato il mondo, ed erano inseriti dentro un contesto culturale. Erano celebrati: erano morti e uomini. Beh, lo erano tutti. Alison invece era viva, era una donna ed incinta e quindi è come diventata…

Germano Celant: Una metafora?

MC: Del futuro più che del passato. Un monumento al futuro.

GC: Anche l’accettazione della diversità fisica, intellettuale…

MC: Celebrava la diversità e anche un’eroicità di tipo diverso, una eroicità di qualcuno che conquista le proprie circostanze, più che di qualcuno che conquista il mondo esterno.

GC: La forza dell’interiorità

MC: È l’interiorità il luogo dove accade questa battaglia e non il mondo esterno. Ed era abbastanza interessante il fatto che a Trafalgar Square c’era già un’altro disabile. L’Ammiraglio Nelson aveva perso un braccio e un occhio, e se guardi la sua statua, non ha il braccio, ma nessuno aveva mai pensato a lui come a una persona disabile.

LUCI DELLA CITTÀ. LE MAQUETTES/LIGHTS DI NAOYA HATAKEYAMA

Altro acquisto mancato ad Art Basel. Le Maquettes/Lights di Naoya Hatakeyama. Questo è il classico caso in cui è pressoché impossibile riprodurre l’effetto della visione dal vivo di un’opera. Fatevi aiutare un po’ dalla fantasia, in questo caso può essere sufficiente.

Lo stesso Hatekeyama spiega così la genesi di queste immagini: «Ho fotografato l’illuminazione urbana della città. Quando guardavo la stampa sviluppata, sentivo che mancava qualcosa. Allora ho messo la stampa in una light box. L’intera stampa diventava grigia. Ho pensato: «Così non va». Ho stampato la stessa immagine su una pellicola trasparente e l’ho attaccata sul retro della stessa stampa. In questo modo venivano illuminate solo le parti dell’immagine in cui apparivano le fonti di luce . Certo, è ovvio che accadesse così, ma non avevo mai realizzato questo. Si tratta semplicemente di una tautologia del reale, in cui le caratteristiche della fotografia, di conversione e la metafora sono delegittimate. Ho pensato che non potevo non intitolarle “Maquette”, modelli».

L’effetto è sorprendente. Innanzitutto perché l’effetto non si nota. Cioè, al primo sguardo non ci si accorge di quello che sta accadendo: non si realizzata che si tratta di light box. Ci si stupisce soltanto dell’effetto realistico. I lampioni fotografati sembrano davvero produrre luce. Un trucco, una magia. Banale? Forse proprio per questo molto poetica.

Naoya Hatakeyama, “Maquettes/Light”, 2009

Naoya Hatakeyama, “Maquettes/Light”, 2009
Naoya Hatakeyama, “Maquettes/Light”, 2009