PARASIMPATICO, PIPILOTTI RIST INCANTA MILANOPARASIMPATICO, PIPILOTTI RIST ENCHANTS MILAN

A me le sue opere alla biennale erano piaciute molto, ma non erano in grado di restituire tutta la sua forza visionaria e poetica. L’artista svizzera Pipilotti Rist, in contemporanea alla grande mostra della Hayward Gallera & Visual Arts di Londra, presenta una mostra al ex cinema Manzoni ospite della Fondazione Trussardi e lo fa regalando a Milano una mostra che sarà difficile dimenticare.
Inutile aggiungere parole sopra le video-proiezioni di “Parasimpatico”. Io ho girato tre video e scattato qualche foto che restituiscono molto vagamente l’atmosfera che si respira sulla scala, nel foyer e nella platea del Manzoni. Un consiglio: non dimenticatevi di entrare nel bagno degli uomini.


Pipilotti Rist - Parasimpatico @ Cinema Manzoni, Milano

 

Pipilotti Rist - Parasimpatico @ Cinema Manzoni, Milano

 

Pipilotti Rist - Parasimpatico @ Cinema Manzoni, Milano

Pipilotti Rist - Parasimpatico @ Cinema Manzoni, Milano

 

Pipilotti Rist - Parasimpatico @ Cinema Manzoni, Milano

 

Pipilotti Rist - Parasimpatico @ Cinema Manzoni, Milano

I liked a lot her works at the Venice Biennial, but they were not able to repay all her visionary force and poetic. The Swiss artist Pipilotti Rist, simultaneously with the exhibition of the Hayward Gallery & Visual Arts in London, presents an exhibition at the former cinema Manzoni guest of the Trussardi Foundation in Milan and is giving an exhibition that will be hard to forget.
Needless to add words over the video projection of “parasympathetic”. I shot three videos that return very vaguely the atmosphere on the scale, and in the audience in the foyer of Manzoni. A word of advice: do not forget to enter the men’s room.


Pipilotti Rist - Parasimpatico @ Cinema Manzoni, Milano

 

Pipilotti Rist - Parasimpatico @ Cinema Manzoni, Milano

 

Pipilotti Rist - Parasimpatico @ Cinema Manzoni, Milano

Pipilotti Rist - Parasimpatico @ Cinema Manzoni, Milano

 

Pipilotti Rist - Parasimpatico @ Cinema Manzoni, Milano

 

Pipilotti Rist - Parasimpatico @ Cinema Manzoni, Milano

RICHTER ALLA TATE, PENSIERI SU UNA MOSTRA INDIMENTICABILERICHTER AT THE TATE, THOUGHTS ON AN UNFORGETTABLE SHOW

Quella di Gerhard Richter alla Tate Modern è una mostra indimenticabile. Lo sapevo già prima di andarci, visto che si tratta della prima grande antologica sul pittore tedesco, eppure la conferma non è stata priva di sorprese. Indimenticabile perché la grandezza di Richter ha lo spazio per dispiegarsi nonostante i limiti che un allestimento come quello della Tate, inevitabilmente, porta con sé.
La mostra ha un andamento didattico, giustamente cronologico, ma rinuncia o non è stata capace, laddove era possibile, a far deflagrare alcune questioni esplosive insite nell’arte di Richter. Diciamola così: secondo la distinzione che Giovanni Agosti mutua da Pasolini, quella alla Tate è una mostra di prosa e non di poesia.
Faccio quattro esempi: il primo è nella seconda sala, quando il rapporto tra “Herr Heyde” (1965) e “Tante Marianne” (1965) non è affatto valorizzato. Il primo quadro, infatti, rappresenta l’arresto del responsabile della politica eugenetica del regime nazista, mentre il secondo è la riproduzione di un immagine in cui Richter bambino è tenuto in braccio dalla zia Marianne, vittima proprio di quella politica. I quadri sono esposti a poca distanza, ma come se tra loro non ci fosse nessuna relazione diretta.

Nella settima sala, invece, sono esposti “Kerze” (1982) e “Schädel” (1983). I curatori, nella loro presentazione della stanza, dicono bene che siamo difronte a una sincera meditazione sulla “vanitas”. Eppure i due quadri non sono accostati e sono posti in punti non strategici (nel catalogo invece le due immagini sono accostate).

In catalogo sono riportati una serie di quadri del 1995 relativi alla nascita dell’ultimo figlio di Richter: una serie commovente di otto immagini che sono un grandioso inno alla maternità. Bene: in mostra non ci sono. Immagino ci saranno a Berlino o a Parigi. Peccato non averli visti dal vivo.

Ultimo: il quadro “September” (2005) nell’ultima stanza è esposto come uno tra gli altri come se non si trattasse di una delle sfide più azzardate con cui Richter si sia confrontato negli ultimi dieci anni.

Ecco invece le cose che mi sono piaciute.

La prima stanza con il primo quadro “ufficiale” (CR:1) tratto da un’immagine di un tavolo trovata sulla rivista Domus. Un quadro che ha dentro di sé il destino di tutta l’opera di Richter.


Lo straordinario “Neger (Nuba)” (1964) tratto da una foto di Leni Riefenstahl che è il primo photopainting a colori in mostra.


Il fatto che i curatori insistano molto sulla riflessione “in opera” che Richter svolge sulla pittura e il suo rapporto decisivo con l’opera di Duchamp.

Grande il trittico delle tre nuvole “Wolken” (1970).

Alcuni quadri astratti scelti sono davvero da capogiro come quello del 1997 (CR:849-2).


E infine: la stanza più clamorosa è quella dedicata al ciclo “Oktober” del 1989. Per intensità, maestria e portata storica.

Un ultima cosa: quel che mi colpisce di più leggendo le interviste di Richter è la sua insistenza a sottolineare il suo orientamento anti-ideologico che, a tratti, appare a sua volta ideologico. La sua volontà di andare contro corrente sempre lo ha portato, paradossalmente, a svolgere il ruolo di paladino della forma d’arte che durante l’ultimo secolo è stata data tante volte per morta: la pittura. Il suo metterne in luce i limiti (come nel corpo a corpo con l’Annunciazione di Tiziano) lo ha portato a scoprirne le frontiere e allo stesso tempo il valore di mezzo di comunicazione contemporanea. Il fatto che ancora oggi, a ottant’anni, Richter continui a dipingere e a inventare cose nuove (vedi la mostra in corso a Parigi) dimostra che questo lavoro di ricerca non è ancora finito.The exhibition by Gerhard Richter at the Tate Modern is an unforgettable. I knew that before, since this is the first major retrospective on the German painter, but confirmation has not been without its surprises. Memorable because the Richter magnitude has the space to unfold despite the limitations that an exhibition such as the Tate inevitably brings.
The exhibition has an educational trend, chronologically correct, but withdraws or has not been able, where possible, to explode at some explosive issues inherent in the art of Richter.
I make four examples:

the first is in the second room, when the relatonship etween “Herr Heyde” (1965) and “Tante Marianne” (1965) is not valued. The first painting, in fact, shows the arrest of chief of eugenics policy during the Nazi regime, while the second is the reproduction of an image in which Richter’s child is held in the arms of Aunt Marianne, a victim of that very policy. The paintings are on display at a short distance, but as if among them there was no direct relationship.

In the seventh room, however, are exposed “Kerze” (1982) and “Schadeli” (1983). The editors, in their presentation of the room, say that we are in front of a sincere meditation on the “vanitas.” Yet the two paintings are juxtaposed and are placed in non-strategic points (in the catalog instead of the two images are touching).

The catalog shows a series of paintings of 1995 relating to the birth of the last son of Richter: moving a series of eight images that are a great hymn to motherhood. Well, they are not on display. I imagine there will be in Berlin or in Paris. Too bad not having seen them live.

Last: the painting “September” (2005) in the last room is exposed as one of the others as if it were not one of the most daring challenges with which Richter has been compared in the last ten years.

Here is the things that I liked:

The first room with the first “official” painting (CR: 1), an image taken from a table found on the magazine Domus. A framework has within himself the destiny of Richter’s whole work.


The extraordinary “Neger (Nuba)” (1964) a photopainting taken from a photo of Leni Riefenstahl which is the first color in the exhibition.


The fact that the editors insist on much reflection “work” that plays on the Richter painting and its relationship with the critical work of Duchamp.

The triptych of the three great clouds “Wolken” (1970).

Some abstract paintings chosen are truly mind-boggling as that of 1997 (CR :849-2).


And finally, the most dramatic room is dedicated to the cycle “Oktober” in 1989. For strength, skill and historical significance.

One last thing: what strikes me most reading the interviews Richter is his insistence to emphasize its anti-ideological orientation that, at times, appears to turn ideological. His willingness to go against the tide always led him, paradoxically, to play the role of champion of the art form during the last century has been given up for dead many times: painting. His highlight the limits (as in combat with the Annunciation by Titian) led him to discover its borders and at the same time the value of contemporary media. The fact that even today, eighty years, Richter continued to paint and invent new things (see the current exhibition in Paris) demonstrates that this research work is not finished yet.

I MIEI APPUNTI SULLA FRIEZE ART FAIR 2011

I grandi assenti sono Damien Hirst e Jeff Koons. Erano anni che le loro opere la facevano la padrone degli stand delle gallerie più importanti. Quest’anno a Frieze Art Fair invece, no. Loro non ci sono e al loro posto in bella vista ci sono gli artisti del momento : Gerhard Richter, Ai Weiwei e Anish Kapoor. Il fatto è che questi ultimi nell’ultimo anno hanno presentato nuove opere di una certa importanza (il salto no-painting del tedesco, il Leviathan di Kapoor e la mostra alla Lisson per il cinese nominato numero 1 dell’Art Word da Art Review). I primi due no. Il 2011 per loro è stato l’anno del silenzio creativo (più per Koons che per Hirst, in verità) e così il mercato registra questa loro assenza. Le domande sono due : cosa staranno facendo di bello ? O meglio: di nuovo? Hirst riesce a far parlare di sé con gli Spot paintings (all’asta sia da Christie’s che da Sotherby’s e in mostra da White Cube), Koons invece sembra assente su tutta la linea. Tornerà o è andato in pensione come Cattelan ?

Pittura
Nell’anno del suo trionfo con la grande retrospettiva nei musei di Londra, Berlino e Parigi che lo incorona come il più grande pittore vivente, Gerhard Richter abbandona i pennelli. Almeno così sembra (parzialmente almeno) dalla mostra in corso da Marian Goodman a Parigi nella quale il pittore tedesco presenta delle grandi stampe digitali attraversate la mille strisce di colore parallele.  Per il resto la pittura non se la passa molto bene : nessuno ha il coraggio, la baldanza, la spregiudicatezza di fare quadri di grande respiro. Non è una novità certo. Ma quest’anno ho notato che a Londra la quantità di opere di pittura fosse più consistente rispetto agli ultimi due anni. Ci sono quindi questi due dati contrastanti : più pittura, ma più pittura stanca. Non è un caso che i due quadri più belli esposti in fiera fossero di due pittori morti : Jörg Immendorf e Sigmar Polke. Una nota : cosa succede con Cy Twombly ? Dalla fiera e dalle aste sono sparite le sue opere. Non così è per Lucian Freud. C’è un motivo ?

Gerhard Richter, Strip (CR 921-1), 2011, Digital print mounted between aluminium and perspex (Diasec) in two parts, 200x440cm.
Gerhard Richter, Strip (CR 921-1), 2011, Digital print mounted between aluminium and perspex (Diasec) in two parts, 200x440cm. (ndr : le righe nella realtà sono dritte).

Jörg Immendorf, untitled, 2006, oil on canvas, 250x300cm.
Jörg Immendorf, untitled, 2006, oil on canvas, 250x300cm.

Sigmar Polke, Siberian meteorites, 1988, artificial resin on polyester fabric, 300x255cm.
Sigmar Polke, Siberian meteorites, 1988, artificial resin on polyester fabric, 300x255cm.

Scultura e altro
Ma tornando a Frieze 2011: le due opere più forti (nel senso di provocatorie) sono del duo Elmgreen & Dragset. La prima mostra un bambino abbandonato in una culla davanti a una porta della camera 69 di un albergo fuori dalla quale è affisso l’avviso “please do not disturb”. La seconda riproduce un obitorio a grandezza naturale. Da uno degli scomparti d’acciaio spuntano un cadavere di donna coperto da un lenzuolo. Si vedono solo i piedi nudi e, accanto a essi, gli effetti pesonali della donna : una collana, un paio di scarbe e un Blackberry. Meno acuti di Cattelan, ma non meno ironici e spietati. Si rivede Nathalie Djurberg con una nuova animazione fatta per l’occasione. Non male. Ancora energica e immaginifica.

Elmgreen & Dragset
Elmgreen & Dragset

Nathalie Djurberg
Nathalie Djurberg

Nathalie Djurberg
Nathalie Djurberg

Fotografia
Oltre ai pittori anche i fotografi sono quasi sempre tedeschi. Cioè, sono tedeschi quelli che piacciono a me. Wolfgang Tillmans mi sembra tenere botta con alcuni pezzi belli anche se non innovativi (a lui perdono praticamente tutto), Andreas Gursky dà l’impressione che col passare del tempo sia sempre più compiaciuto. Di Thomas Ruff i galleristi hanno tirato fuori un paio di opere pixelate sull’11 settembre che non avevo mai visto (gli anniversari sono sempre gli anniversari). Taryn Simon c’è anche al Frieze (ha tenuto una conferenza giovedì), ma di lei vi parlerò in un altro post. Alla Biennale avevo notato la fotografa indiana Dayanita Singh e qui si conferma con un’opera molto interessante. Poi spopola Ryan McGinley con i suoi giovani nudi che fanno acrobazie in boschi illumninati da una irreale luce. C’è Darren Almond che mi è piaciuto molto. E infine l’intramontabile Luigi Ghirri. La presenza alla Biennale ci ha ricordato quanto sia grande. Mi pare sia l’unico grande nome italiano presente a questo Frieze.

Wolfgang Tillmans, Faltenwurf (grey), 2011.
Wolfgang Tillmans, Faltenwurf (grey), 2011.

Wolfgang Tillmans, Onion, 2010.
Wolfgang Tillmans, Onion, 2010.

Taryn Simon, The Wailing Wall, Jerusalem Minu Israel, Latrum, Istrael, 2007.
Taryn Simon, The Wailing Wall, Jerusalem Minu Israel, Latrum, Istrael, 2007.

Taryn Simon, The Wailing Wall, Jerusalem Minu Israel, Latrum, Istrael, 2007 (didascalia dell’opera).
Taryn Simon, The Wailing Wall, Jerusalem Minu Israel, Latrum, Istrael, 2007 (didascalia dell’opera).

I grandi assenti sono Damien Hirst e Jeff Koons. Erano anni che le loro opere la facevano la padrone degli stand delle gallerie più importanti. Quest’anno a Frieze Art Fair invece, no. Loro non ci sono e al loro posto in bella vista ci sono gli artisti del momento : Gerhard Richter, Ai Weiwei e Anish Kapoor. Il fatto è che questi ultimi nell’ultimo anno hanno presentato nuove opere di una certa importanza (il salto no-painting del tedesco, il Leviathan di Kapoor e la mostra alla Lisson per il cinese nominato numero 1 dell’Art Word da Art Review). I primi due no. Il 2011 per loro è stato l’anno del silenzio creativo (più per Koons che per Hirst, in verità) e così il mercato registra questa loro assenza. Le domande sono due : cosa staranno facendo di bello ? O meglio: di nuovo? Hirst riesce a far parlare di sé con gli Spot paintings (all’asta sia da Christie’s che da Sotherby’s e in mostra da White Cube), Koons invece sembra assente su tutta la linea. Tornerà o è andato in pensione come Cattelan ?

Pittura
Nell’anno del suo trionfo con la grande retrospettiva nei musei di Londra, Berlino e Parigi che lo incorona come il più grande pittore vivente, Gerhard Richter abbandona i pennelli. Almeno così sembra (parzialmente almeno) dalla mostra in corso da Marian Goodman a Parigi nella quale il pittore tedesco presenta delle grandi stampe digitali attraversate la mille strisce di colore parallele.  Per il resto la pittura non se la passa molto bene : nessuno ha il coraggio, la baldanza, la spregiudicatezza di fare quadri di grande respiro. Non è una novità certo. Ma quest’anno ho notato che a Londra la quantità di opere di pittura fosse più consistente rispetto agli ultimi due anni. Ci sono quindi questi due dati contrastanti : più pittura, ma più pittura stanca. Non è un caso che i due quadri più belli esposti in fiera fossero di due pittori morti : Jörg Immendorf e Sigmar Polke. Una nota : cosa succede con Cy Twombly ? Dalla fiera e dalle aste sono sparite le sue opere. Non così è per Lucian Freud. C’è un motivo ?

Gerhard Richter, Strip (CR 921-1), 2011, Digital print mounted between aluminium and perspex (Diasec) in two parts, 200x440cm.
Gerhard Richter, Strip (CR 921-1), 2011, Digital print mounted between aluminium and perspex (Diasec) in two parts, 200x440cm. (ndr : le righe nella realtà sono dritte).

Jörg Immendorf, untitled, 2006, oil on canvas, 250x300cm.
Jörg Immendorf, untitled, 2006, oil on canvas, 250x300cm.

Sigmar Polke, Siberian meteorites, 1988, artificial resin on polyester fabric, 300x255cm.
Sigmar Polke, Siberian meteorites, 1988, artificial resin on polyester fabric, 300x255cm.

Scultura e altro
Ma tornando a Frieze 2011: le due opere più forti (nel senso di provocatorie) sono del duo Elmgreen & Dragset. La prima mostra un bambino abbandonato in una culla davanti a una porta della camera 69 di un albergo fuori dalla quale è affisso l’avviso “please do not disturb”. La seconda riproduce un obitorio a grandezza naturale. Da uno degli scomparti d’acciaio spuntano un cadavere di donna coperto da un lenzuolo. Si vedono solo i piedi nudi e, accanto a essi, gli effetti pesonali della donna : una collana, un paio di scarbe e un Blackberry. Meno acuti di Cattelan, ma non meno ironici e spietati. Si rivede Nathalie Djurberg con una nuova animazione fatta per l’occasione. Non male. Ancora energica e immaginifica.

Elmgreen & Dragset
Elmgreen & Dragset

Nathalie Djurberg
Nathalie Djurberg

Nathalie Djurberg
Nathalie Djurberg

Fotografia
Oltre ai pittori anche i fotografi sono quasi sempre tedeschi. Cioè, sono tedeschi quelli che piacciono a me. Wolfgang Tillmans mi sembra tenere botta con alcuni pezzi belli anche se non innovativi (a lui perdono praticamente tutto), Andreas Gursky dà l’impressione che col passare del tempo sia sempre più compiaciuto. Di Thomas Ruff i galleristi hanno tirato fuori un paio di opere pixelate sull’11 settembre che non avevo mai visto (gli anniversari sono sempre gli anniversari). Taryn Simon c’è anche al Frieze (ha tenuto una conferenza giovedì), ma di lei vi parlerò in un altro post. Alla Biennale avevo notato la fotografa indiana Dayanita Singh e qui si conferma con un’opera molto interessante. Poi spopola Ryan McGinley con i suoi giovani nudi che fanno acrobazie in boschi illumninati da una irreale luce. C’è Darren Almond che mi è piaciuto molto. E infine l’intramontabile Luigi Ghirri. La presenza alla Biennale ci ha ricordato quanto sia grande. Mi pare sia l’unico grande nome italiano presente a questo Frieze.

Wolfgang Tillmans, Faltenwurf (grey), 2011.
Wolfgang Tillmans, Faltenwurf (grey), 2011.

Wolfgang Tillmans, Onion, 2010.
Wolfgang Tillmans, Onion, 2010.

Taryn Simon, The Wailing Wall, Jerusalem Minu Israel, Latrum, Istrael, 2007.
Taryn Simon, The Wailing Wall, Jerusalem Minu Israel, Latrum, Istrael, 2007.

Taryn Simon, The Wailing Wall, Jerusalem Minu Israel, Latrum, Istrael, 2007 (didascalia dell’opera).
Taryn Simon, The Wailing Wall, Jerusalem Minu Israel, Latrum, Istrael, 2007 (didascalia dell’opera).

JAY JOPLING: LA MONTATURA NERA CON IL GALLERISTA INTORNO

Martedì sera Jay Jopling ha inaugurato la nuova sede di Bermondsey Street (la terza a Londra) della sua White Cube: si tratterebbe del più grande spazio espositivo privato d’Europa. Ci sono stato. È davvero grande. Tutto bianco. E grande. Molto. Si sentiva ancora l’odore della pittura sui muri. Comunque l’Independent gli ha fatto un bel ritrattone dal titolo: “Jay Jopling: Big space, big art, big ego” sottolineando il fatto che qui tutti parlano di crisi del mondo dell’arte e questo ragazzone di 48 anni sembra non aver paura di niente e non lascia ma raddoppia.

L’intervista dà alcuni spunti tra il serio e il faceto (leggi: gossip) magari stranoti ma che val la pena ripetere in onore di JJ:

1) Figlio del barone Michael, esponente di spicco dei Tory, si appassiona all’arte durante gli studi a Eton leggendo il libro di Gilbert and George “Dark Shadow” (1974).

2) Negli anni ’80 ha una relazione con Maia Norman, una fashion designer. È lei a presentargli Damien Hirst. A conquistare Maia, però, è proprio Hirst che la sposerà e con lei avrà tre figli.

3) Fonda la galleria White Cube nel 1993. A ispirargli il nome è un libro dello scrittore e artista irlandese Brian O’Doherty  dal titolo “Inside the White Cube: Ideologies of the Gallery Space”.

4) Nel 1997 sposa l’artista Sam Taylor-Wood dalla quale ha due figlie. Nel 2008 divorziano pare a causa di un breve flirt che Joplin ha avuto con la cantante Lily Allen, 22 anni più giovane di lui e figlia di un suo caro amico, l’attore Keith Allen.

5) Dopo la sede storica di Manson’s Yard, nel 2000 apre quella di Hoxton Square, nel 2011 in Bermondsey Street e l’anno prossimo sarà la volta di Hong Kong.

Jopling con (da sinistra) Sam Taylor-Wood, Hugh Grant and Lulu
Jopling con (da sinistra) Sam Taylor-Wood, Hugh Grant and Lulu
Jay Jopling Tracey Emin
Con Tracey Emin

Ps: le mostre alla nuova sede di Bermondsey Street, nonostante i nomi, non sono nulla di che.

HAMPTON COURT: I TRIONFI E UN CARAVAGGIO NASCOSTO

“La scena si apre ad Hampton Court” direbbe Davide parafrasando l’incipit di “Su Mantegna 2” di Giovanni Agosti. Dopo averne visto per la prima volta uno a Parigi alla mostra al Louvre, era da un po’ che volevo fare questo “pellegrinaggio” alla reggia di Enrico VIII per vedere i “Trionfi” tutti insieme. Così a metà della mia settimana londinese dedicata al contemporaneo ho preso questa salutare pausa e un treno da Waterloo Station fino a Hampton Court.

Non vi sto qui a fare una lezione su Mantegna perché non ve la so fare. Posso dirvi solo che l’emozione è stata grande. Penso siano quadri difficili, per gente che la sa davvero lunga. Quadri che si possono apprezzare a pieno, forse, solo dopo i quarant’anni (Franco Loi dice che gli “Inni sacri” del Manzoni si possono apprezzare solo dopo una certa età, ecco, un po’ così). Oggi che sono ancora più vicino ai trenta che ai quaranta mi riempiono di stupore per la loro misteriosità. Posso solo dire che ho capito da cosa è dipesa la scelta di quello da portare a Parigi: è semplicemente il più bello (e il meglio conservato).

Aggirandomi poi per le stanze della reggia sono arrivato in una piccola stanza degli Georgian Private Apartments, l’ala settecentesca del palazzo. Le pareti erano coperte di tele del Seicento e Settecento. Non avevo alcuna aspettativa e ho dato un’occhiata veloce. Un quadro però ha attratto la mia attenzione più degli altri. Ho guardato la didascalia: Michelangelo Merisi detto Caravaggio. Titolo dell’opera: “The calling of St. Peter and St. Andrew”. Gulp. Si tratta di una scoperta recente (2004) e la tela è stata anche esposta in Italia (2006). Comunque mi domando: dove , se non in Inghilterra, nella reggia di uno dei sovrani più eccentrici della storia dell’umanità, ci si può permettere di conservare un’opera del più grande come se fosse uno tra i tanti?

ROTHKO: “NO, PER FAVORE, NON ILLUMINATELI CON GLI SPOT”

Ho già scritto sulla mostra alla Whitechapel Gallery intitolata “Rothko in Britain”. Ora che l’ho vista ci torno per aggiungere altri particolari curiosi.

La mostra è ospitata in una sola piccola stanza al secondo piano della galleria. Su una parete c’è il quadro “Light Red Over Black” (1957) che è il primo dipinto comprato da un’istituzione inglese al pittore americano. In una delle teche a fianco è esposto il carteggio che l’allora direttore della Tate Gallery, Norman Reid, intrattenne tra l’aprile e il giugno del 1959  con il gallerista di Rothko (Sidney Janis Gallery) per concludere l’affare. Il prezzo sarebbe stato di 5000 dollari, ma visto che erano quelli della Tate il gallerista accordò uno sconticino del 10 per cento.

Sull’altra parete sono esposte le foto in bianco e nero di Sandra Lousada che fu chiamata a documentare l’allestimento. Allora giovane fotografa era abituata a fotografare in bianco e nero, però quel giorno si portò anche dei rullini a colori. Con due macchine, una col bn e l’altra col colore, immortalò la grande mostra. Peccato che il curatore della mostra Bryan Robertson perse i negativi a colori, così di quella serie ne è rimasta negli archivi soltanto una.

Sulla stessa parete c’è un documento davvero interessante: è il foglio dattiloscritto con le indicazioni dettate da Rothko per l’allestimento della mostra. Io ne ho trascritto solo una parte perché dalla foto che ho fatto col cellurare non si capisce tutto (per i più curiosi ecco la foto: ).

WALLS: Walls should be made considerably off-white with umber and warmed by a little red. If the walls are too white, they are aleways fighting against the pictures which turn greenish because of the predominante of red in the pictures.

LIGHTS: The light, whether natural or artificial should not be too strong: the pictures have their own inner light and if there is too much light, the color in the picture is washed out and a distortion of ther look occurs. The ideal situation would be to hang them in a normally lit room – that is the way they were painted. They should not be over-lit or romanticized by spots; this results is a distortion of their meaning. They should either be lighted from great distance or indirectly by casting lights at the ceiling of the floor. Above all, the entire picture should be evenly lighted and not strongly.

Ultima cosa (che però non c’è in mostra). Durante il suo soggiorno in Gran Bretagna Rothko incontrò Giuseppe Panza che si interessò a cinque delle tele in un primo momento progettate per il ristorante Four Season di New York, i cosiddetti “Seagram Murals”. L’idea del conte, infatti, era quella di dedicare tutta la Villa di Biumo alle opere di Rothko. Panza in seguito diede perfino un acconto per quei quadri (circa 40mila dollari), ma poi la cosa non andò in porto e il Conte chiese di avere due tele “normali” (i Seagram costavano allora 20mila dollari l’uno).

In mostra ci sono proprio i documenti relativi alla trattativa della Tate per avere i “Seagram Murals”. L’ultima lettera è scritta dal direttore  Norman Reid nella quale scrive al suo interlocutore americano che i quadri tanto attesi erano arrivati a Londra lo stesso giorno in cui giunse se questa sponda dell’Oceano la notizia della morte di Rothko.

SEGNI IRRAZIONALI – PERCHÈ BACON GUARDAVA A REMBRANDT

Irving Penn, Francis Bacon, 1962
Irving Penn, Francis Bacon, 1962

Entrambi avevano l’ossessione dell’autoritratto. Sembra essere questa l’unica cosa che accomuna Rembrandt e Francis Bacon. In realtà quest’ultimo aveva quasi un culto per il maestro olandese tanto che quando nel 1962 Irving Penn andò a fotografarlo, Bacon aveva appeso sulla parete del suo studio una riproduzione dell'”Autoritratto con berretto” conservato al Musée Granet a Aix-en Provence. Di quel quadro Bacon parla nel 1966 anche con David Sylvester (qui il video) e dice:

“Well, if you think of the great Rembrandt self-portrait in Aix-en-Provence, for instance, and if you analyse it, you will see that there are hardly any sockets to the eyes, that it is almost completely anti-illustrational. I think that the mystery of fact is conveyed by an image being made out of non-rational marks… in this Rembrandt self-portrait… there is a coagulation of non-rapresentational marks which have led to making up this very great image. Well, of course, only part of this is accidental. Behind all that is Rembrandt’s profound sensibility, which was able to hold onto one irrational mark rather than onto another. And abdtract expressionism has all been done in Rembrandt’s marks. But in Rembradt it has been with the added thing that it was an attempt to record a fact and to me therefore must be much more exciting and much more profound”.

Il fatto che oggi si ritiene che il quadro del Musée Granet sia incompiuto non toglie nulla all’osservazione di Bacon. Sta di fatto che quel quadro – ma anche gli autoritratti dell’ultimo periodo lo sono – è la dimostrazione, per Bacon, che per raggiungere la somiglianza al soggetto non è necessario che le pennellate vadano in cerca della verosimiglianza.

Pilar Ordovas ha deciso di inaugurare la sua propria galleria a Londra con questa mostra “Irrational marks: Bacon – Rembrandt”. Per la serie: meglio non si può iniziare. La mostra dura fino al 16 dicembre. E non aspettatevi la retrospettiva con mille quadri: di Rembrandt c’è solo quello di cui parla Bacon.

Rembrandt, autoritratto con berretto, circa 1959
Rembrandt, autoritratto con berretto, 1959

Francis Bacon, Study for a Self-Portrait, 1973
Francis Bacon, Study for a Self-Portrait, 1973

DA VEDERE IL FILM DI CORINNA BELZ SU GERHARD RICHTER

Sono riuscito a vedere (in una saletta della sede di Christie’s di Londra) quasi tutto “Gerhard Richter painting” della regista tedesca Corinna Belz di cui avevo scritto qualche giorno fa. Il documentario è molto bello e vale la pena guardarlo. In Germania qualcuno l’ha rimproverato perché non riesce ad andare al fondo dell’opera del pittore tedesco e lascia il commento a un molto ellittico Richter. È vero, è così. Chi volesse letture approfondite vada a leggersi i libri di Robert Storr e lasci perdere questo film. Anzi no, se lo guardi lo stesso perché mostra forse la cosa più importante di R.: il modo in cui lavora. Il grande merito di questo documentario è quello di mettere, per la prima volta forse, una telecamera alle spalle del maestro che lavora. Così si può vedere un molto energico quasi-ottantenne in camicia azzurra che spalma il colore su una mega-spatola larga quanto la tela per poi trascinarla a due mani dall’alto in basso sul quadro. La mega-spatola prima stende il colore, poi in un secondo momento lo toglie creando quello stupendo effetto tipico dei quadri di R. Il maestro sembra lavorare a due quadri per volta: forse per permettere agli strati di colore di asciugare parzialmente. In un caso prende due quadri già iniziati e li ricopre di bianco per ricominciare da zero. I due collaboratori assicurano: è impossibile prevedere quel che farà. Se gli si danno dei pareri, si può star certi che farà il contrario. Un giorno di un quadro dice: “ci siamo”, il giorno dopo “è da buttare”.

Ma la cosa più bella del film sono le lunghe sequenze silenziose che mostrano i momenti di lavoro in cui a farla da padrone sono sì i movimenti del pittore, ma soprattutto il suono del colore che viene trascinato sulla tela: simile al fruscio di un vento gagliardo.

P.s.: alla Tate per “Panorama” vado venerdì, vi dirò.



RAQIB SHAW: DIECI ANNI PER DIPINGERE “PARADISE LOST”

Dieci anni per dipingere un quadro. Avrà fatto anche altro, ok (tipo mostre al MOMA e alla Tate Britain), però non sono pochi. Questo “Paradise Lost” (300 x 900 cm) di Raqib Shaw esposto alla White Cube di Manson’s Yard è davvero un’opera maestosa. Ammetto: non mi fa impazzire. Ma a questo qui non gli si può mica dire “questo lo facevo anche io”.

Clicca per ingrandire le immagini

Raqib Shaw, Paradise Lost, 2001-2011
Raqib Shaw, "Paradise Lost", 2001-11 Oil, acrylic, glitter, enamel and rhinestones on birch wood
Raqib Shaw, Paradise Lost, 2001-2011
Raqib Shaw, "Paradise Lost", particolare
Raqib Shaw, Paradise Lost, 2001-2011
Raqib Shaw, "Paradise Lost", particolare del particolare