LUI È RISORTO E ANCHE IO MI SENTO MOLTO MEGLIO

Buona Pasqua a tutti. Visto come sono andate le cose – dico quel che è accaduto il primo giorno dopo il sabato – possiamo tornare più serenamente su questioni controverse riguardanti la Settimana Santa che si era aperta, quest’anno, con il fattaccio accaduto ad Avignone dove cosiddetti “fondamentalisti cattolici” hanno danneggiato a colpi di martello l’opera “Piss Christ” di Andres Serrano esposta alla Galerie Lambert. Il sospetto che la vicenda più che a valutazioni artistiche sia legata a strategie politiche in vista delle vicine elezioni è abbastanza fondato. Va detto, però, che Serrano deve a quest’opera, la fotografia di un crocifisso immerso nell’urina, parte della sua celebrità visto che già negli anni 80 le polemiche varcarono le porte del Congresso americano. Eppure il “Piss Christ” non mi pare neanche la sua opera più scandalosa e di cattivo gusto (a me, ad esempio, dà più fastidio l’immagine della suora che si masturba).

Andres Serrano, Piss Christ, Avignone, 2011

Detto questo ci sono tre osservazioni interessanti da fare riguardo a questa vicenda:

1) In un’intervista a Liberation Serrano risponde così al giornalista che gli chiede del significato del “Piss Christ”:

“The artists do not tell the meaning of their pictures. If the meaning is that obvious, it is not art any more, it becomes propaganda. The crucifix is simply a common object, that we take for granted. It is minimal. If my work draws attention and creates a debate, it is also a good way to remind people of the horrors the Christ went through”.

2) Tempo fa, a chi gli chiedeva come mai gli artisti contemporanei insistessero sull’uso di simboli cristiani per le loro opere non proprio da sacrestia, Damien Hirst rispondeva:

“Prendiamo quei simboli perché sono gli unici simboli che abbiamo”.

3) Nelle sue conversazioni con Luca Doninelli, Giovanni Testori a un certo punto afferma:

“Non voglio dire che l’artista moderno non abbia dimenticato Dio. C’è chi l’ha dimenticato, chi non l’ha dimenticato, chi si dice ateo, chi no. Quello che voglio dire è che l’artista moderno non è riuscito a togliersi dai piedi Gesù Cristo”.

FRANK SINATRA HA IL RAFFREDDORE, COME ME

In questo sorprendente inizio d’estate mi ritrovo a leggere due bellissimi libri scritti entrambi benissimo. Il primo è “Gesù di Nazareth” di Joseph Ratzinger, il secondo è “Frank Sinatra ha il raffreddore” la raccolta dei migliori articoli del giornalista americano Gay Talese. L’ho comprato l’altro giorno per un motivo semplice : volevo consolarmi per il fatto che anch’io, da qualche giorno, soffro di questa gravissima malattia. Il raffreddore.
Vi offro un assaggio gustosissimo di questo straordinario ritratto, invitandovi però a leggere anche il primo degli articoli della raccolta intitolato “New York è un luogo di cose che passano inosservate”.

Sinatra era malato. Era vittima di un disturbo così comune da essere per molti trascurabile. Ma quando affliggeva Sinatra, quell’indisposizione poteva precipitarlo in uno stato d’angoscia, di depressione profonda, panico e perfino rabbia. Frank Sinatra aveva il raffreddore.
Sinatra col raffreddore è come un Picasso senza colori, come una Ferrari senza benzina, solo molto peggio. Perché un volgare raffreddore deruba Sinatra di un gioiello non assicurabile, la sua voce, minando alla base la fiducia del cantante in se stesso e non colpisce solo la sua psiche, ma sembra provocare una sorta di gocciolamento di naso psicosomatico anche in chi lavora per lui, beve con lui, lo ama e dipende da lui per il proprio benessere e la propria sicurezza. Un Sinatra col raffreddore può, nel suo piccolo, emettere vibrazioni che investono l’industria dello spettacolo e si spingono oltre, così come un’improvvisa malattia del presidente degli Stati Uniti può destabilizzare l’economia nazionale.

Gay Talese, Frank Sinatra ha il raffreddore, BUR, 2011

MARK ROTHKO 4SEASONS RESTAURANT=POMPEI+MICHELANGELO

Jonathan Jones racconta una storia che non sapevo e che trovo davvero intrigante. È la storia che vedete qui sopra e che lega inaspettatamente una delle opere più importanti del Novecento, il ciclo per il Four Seasons di New York di Mark Rothko, con i dipinti della Villa dei Misteri di Pompei e il vestibolo della Bibblioteca Laurenziana di Firenze di Michelangelo. Il critico del Guardian lo racconta in modo più elegante e convincente, ma permettetemi lo stesso di sintetizzare la vicenda. Mark Rothko era un fan de “La nascita della tragedia” in cui Friedrich Nietzsche spiega che il teatro greco ha avuto origine dai riti dionisiaci. Mentre stava pensando al ciclo di quadri che sarebbe dovuto servire per le pareti dell’elegante ristorante del Seagram Building di Manhattan, Rothko fa un viaggio in Italia e si reca a Pompei e in particolare visita la Villa dei Misteri famosa per i suoi affreschi raffiguranti proprio dei riti dionisiaci. I rossi e i neri di quegli affreschi, probabilmente, sono quelli che ritroviamo nei quadri del ciclo ora conservato alla Tate Modern.  L’altra visita di cui Rothko parla è quella alla Biblioteca laurenziana. Jones dice che Rothko fu impressionato, in particolare, dalle finestre cieche del vestibolo della bibblioteca (uno dei grandi capolavori di Michelangelo). Finestre che, anziché portare luce, bloccano la curiosità del visitatore. La sala della Tate con i quadri di Rothko – dice sempre Jones – è come se riproducesse l’effetto claustrofobico e disorientante del vestibolo bicromatico di Michelangelo. L’ultima osservazione di Jones è forse la più interessante: nell’ultima fase della sua vita il pittore americano sembra interessato soprattutto a creare degli spazi con la pittura ed è soprattutto nella Rohtko Chappel di Huston che si ritrovano echi ancora più evidenti del Michelangelo architetto.

MARIO BOTTA: “ENZO CUCCHI? È UN ANIMALE CHE DIPINGE”

L’altro giorno ho incontrato l’architetto Mario Botta per un’intervista. Siamo finiti a parlare del suo rapporto con Enzo Cucchi e in generale del rapporto tra architettura e iconografia sacra. A un certo punto mi ha detto:

“Gli artisti vanno guidati. Gli artisti sono come dei bambini : possono dare il peggio di sé stessi anche nella pittura. Io questo l’ho capito con Cucchi. Cucchi è un animale che dipinge. Ma se non lo guidi… se appena gli dai delle indicazioni parte… e parte in maniera felice. Se gli artisti non li sai guidare… rischi che ti diano delle croste…”

Santa Maria degli Angeli Chapel
Cappella di Santa Maria degli Angeli, Monte Tamaro, Svizzera. (Mario Botta e Enzo Cucchi)

ANISH KAPOOR AL GRAND PALAIS DI PARIGI (E POI A MILANO)

Anish Kapoor, Grand Palais, Parigi 2011 - Milano, rotonda della besana, fabbrica del vapore

Tra l’11 maggio e il 23 giugno Anish Kapoor si approprierà del Grand Palais di Parigi. Il battage mediatico è iniziato tanto per creare ancor più attesa di quella che di per sé ci sarebbe già. Non si sa ancora che cosa realizzerà, si sa però che sarà molto grande. Il sito dedicato all’istallazione è molto ricco. Io vi segnalo questi spezzoni di intervista. Qui riporto la parte più significativa.

“I think there is no such thing as an innocent viewer. All viewing, all looking comes with complications, comes with previous histories, a more or less real past. Abstract art and sculpture in particular, has to deal with this idea that the viewer comes with his body, and of course memory. Memory and body come together in the act of looking. I’m really interested in what happens to meaning in that process: as memory and body walk through, take the passage through any given work, something happens, something changes.”

Dopo Parigi sarà la volta di Milano. In un primo momento si pensava che l’artista indiano portasse Sky Mirror (2006),  da piazzare da qualche parte in città, e Ascension (2003), che invece sarebbe stata collocata alla Rotonda della Besana. A questo sarebbe aggiunta una mostra antologica alla Fabbrica del Vapore.  A gennaio si è detto invece (lo ha scritto il Sole24ore) che Kapoor avrebbe realizzato un’opera permanente per la città di Milano. A quanto mi risulta il progetto sarà presentato il prossimo 25 maggio a ridosso dell’inaugurazione della Biennale di Venezia (con la quale ci sarà una collaborazione) e prevederà un’istallazione alla Rotonda della Besana (quasi certamente Ascension) e una nuova opera alla Fabbrica del Vapore che sarebbe già in fase di realizzazione in un cantiere navale da qualche parte nel mondo (il contratto è già stato firmato). Non ho ricevuto conferma sulla possibilità che quest’opera possa diventare permanente. Pare anche che si stia lavorando a una mostra di pezzi di Kapoor appartenenti a collezionisti italiani anche questa probabilmente alla Fabbrica del Vapore.

Mi sembra una buona cosa che si sia riusciti a convincere Kapoor a realizzare una nuova opera apposta per Milano. Probabilmente non avrà l’imponenza di quella di Parigi, ma almeno non ci si è limitati – cosa che capita troppo spesso a Milano – a portare opere (magari bellissime) ma già note.

IO SONO QUI – MATTEO CACCIA RACCONTA JEFF WALL SU RADIO24

Jeff Wall - after invisible man

Lyonora mi ha segnalato questo podcast di “Io sono qui” di Matteo Caccia, un simpatico programma in onda su Radio24. La puntata è dedicata all’arte ed è molto divertente. Tutto muove dal racconto di una foto di Jeff Wall intitolata After “Invisible Man” e i radioascoltatori sono invitati a intervenire e dire qual è la loro opera d’arte preferita. Caccia è un grande affabulatore e, anche se non penso di essere d’accordo su quel che dice sull’arte a inizio puntata, devo dire che l’attacco della puntata e il troncone centrale (dal minuto 10′) sono davvero godibilissimi. Detto questo la foto di Wall (in realtà è una lightbox gigante) la potete vedere meglio qui sul sito della sua mostra del 2006 alla Tate (che non ho visto), e i più attenti (non io) l’hanno potuta vedere anche al Mart di Rovereto (ridente cittadina trentina che ha dato i natali a Lyonora) nella mostra del 2008 “Il secolo del Jazz”.

Per il resto: io sono qui. E il mio numero è sempre quello: ottozerozero ventiquattro ventiquattro

Ps: Jeff Wall è un fotografo canadese molto bravo e famoso e a lui è legato uno degli aneddoti più divertenti della storia della fotografia. Fu scelto dall’Accademia di Dusseldorf per subentrare ai Hilla e Bern Becher alla cattedra di fotografia dopo che questi ultimi andarono in pensione. Gli studenti non furono molto contenti tanto che uno di loro alla prima lezione gli puntò addosso una pistola intimandogli di andarsene. Beh, quello disse “grazie tante” e rinunciò alla cattedra…

LE DOLOMITI DI OLIVO BARBIERI AL MART (E UN FLASH SU LEOPARDI)

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1) Giuseppe, consigliandomi caldamente di andare al Mart a vedere la mostra su Modigliani di cui parla con entusiasmo qui e qui, mi ha segnalato anche un’altra mostra in corso a Rovereto: “Dolomites Project 2010” di Olivo Barbieri. Vedendo gli scatti a video sembrano davvero immagini importanti, epiche e stranianti. Undo.net ha fatto un bel servizio con un’intevista a Barbieri che trovate qui.

2) Non conoscendo molto l’opera di Olivo Barbieri sono andato sul suo sito e mi sono imbattuto un’immagine straordinaria. Ogni volta che vado a Milano a trovare mio fratello mi trovo davanti a questo edificio misterioso, irreale. È la prima volta che trovo nella realtà un’immagine che incarni in modo così preciso quegli indimenticabili versi de “Il pensiero dominante” di Giacomo Leopardi:

Ratto d’intorno intorno al par del lampo
Gli altri pensieri miei
Tutti si dileguàr. Siccome torre
In solitario campo,
Tu stai solo, gigante, in mezzo a lei.

Olivo Barbieri - cite specific_MILANO 09
Olivo Barbieri, cite specific_MILANO 09

DI ARAKI A LUGANO? SOPRATTUTTO I FIORI

Nobuyoshi Araki - SatchinSono andato a vedere “Love and Death” di Nobuyoshi Araki al Museo d’Arte di Lugano. La mostra è allestita molto bene e ha almeno due virtù: la prima è quella di essere una grande retrospettiva che restituisce la dimensione e la complessità dell’opera del folle fotografo giapponese, la seconda è di proporre lavori nuovissimi e inediti a livello mondiale. Non mi sembra poco.

  • I primi lavori sui bambini sono davvero belli: immagini semplici e profonde.
  • La serie che unisce il viaggio di nozze e la morte della moglie è davvero commovente.
  • Gli ultimi lavori (2010) sui cieli con dipinto l’ideogramma “morte” sono puliti e forti.

Solo questi tre aspetti bastano per far digerire l’imperante sessuomania della mostra e dell’opera di Araki.

A questo proposito: ancor più sconvolgenti delle celeberrime foto delle donne legate (“Lego il loro corpo perché non posso legare la loro anima”) ho trovato alcune foto dei fiori. In particolare quelle su una parete ma che non sono state riprodotte in catalogo e che trovo siano la dimostrazione dell’energia travolgente di cui è fatta la fotografia di Araki. Forme confuse, labirinti, colori iper saturi… (ho una brutta foto fatta con l’iphone ma non vale la pena pubblicarla)

Bulimia allo stato puro per la fotografia, perché bulimia per la vita. Tutto è fuori misura, incontenibile. E che, comprensibilmente, può risultare insopportabile.

Nobuyoshi Araki - Sentimental Journey/Winter Journey

Nobuyoshi Araki - Dead Sky (2010)

Nobuyoshi Araki - Kinbaku (Bondage)

MARINA, MARINA, MARINA (ABRAMOVIC)

Marina-Abramovic.-Portrait-with-white-lamb.-2010.-Courtesy-the-artist-Marco-Anelli-and-Lisson-GalleryAnch’io la sera dello scorso 28 gennaio mi trovavo a Bologna, ma anziché assistere alla conferenza di Marina Abramović mi trovavo attovagliato con un paio di amici in una trattoria sotto i portici del centro. Per la serie: al momento giusto, nel posto sbagliato. Senza nulla togliere al Sangiovese (ma perché servito freddo?), temo di essermi perso davvero qualcosa. Ad ovviare a questa lacuna ci ha pensato Undo.Net che ha messo online due filmati: uno della conferenza di quella sera (veniva presentato il film “Seven Easy Pieces”) e l’altro dell’incontro all’università della mattina successiva. Trovo siano due documenti interessanti per chi, come me, voleva farsi un’idea del personaggio Abramovic (considerata ormai un autentico guru, guardate quanta gente c’era quella sera ad ascoltarla…). Qui segnalo alcune cose dette nei due incontri che mi hanno colpito.

DOMANDA: Ha mai pensato di concludere la sua carriera con una performance che preveda il suicidio?
ABRAMOVIC: Sembro malata o aspirante suicida? No, non lo sono (lei ride, applausi). Io amo la vita più di ogni altra cosa.

DOMANDA: qual è stata la performance più difficile?
ABRAMOVIC: L’ultima, senza dubbio. Quella al Moma di New York (“The Artist Is Present”, ndr). È durata tre mesi. Ogni giorno sette ore, e al venerdì dieci: 736 ore e 30 minuti. La più lunga performance mai realizzata. E la più difficile. Se fai performance da un’ora, da tre ore o da sette, puoi sempre far finta, puoi sempre recitare. Ma tre mesi… è la vita reale… È la nuda verità, non puoi far finta, non puoi recitare. È la performance che più mi ha trasformata, e quella che ha trasformato il pubblico che l’ha compiuta insieme a me. È accaduto davvero qualcosa. La mia anima e la mia mente sono cambiate.

ABRAMOVIC: ho sempre pensato che aver avuto una infanzia difficile permette agli artisti di realizzare lavori migliori, rispetto a quando c’è la felicità e tutto va bene. Penso che se c’è la felicità non ci sia un progresso, se si è autosufficienti non ci può essere progresso. Penso che l’essere umano cambi attraverso momenti molto drammatici: malattie terminali, incidenti, violenze, pressioni, morte. In quei momenti accade davvero qualcosa, c’è una sorta di transizione. L’arte nasce da questo, fondamentalmente. Ed è per questo che io lavoro sulle mie paure. Più profondamente si va dentro se stessi e più si può essere universali. Perché tutti abbiamo gli stessi problemi: tutti siamo spaventati dal tempo che passa, dalla morte e dalla sofferenza. È semplice. E mettendo in scena queste cose di fronte a un pubblico, creando delle situazioni e attraversandole, con l’aiuto dell’energia del pubblico… perché non farei queste cose nella mia vita reale… a me fare queste cose non piace… le faccio nel contesto delle performance, perché nella performance si prende l’energia dal pubblico. Questo surplus di energia ti permette di fare queste cose che non puoi fare nella tua vita reale. Così io divento uno specchio: se io posso fare a me queste cose, anche il pubblico ha questa energia da usare nella propria vita reale”.

GOOGLE ART PROJECT: PAS MAL…

Non ho avuto modo di dedicarci tempo, ma L’Art Project di Google ha l’aria di essere una cosa fatta davvero bene. Al di là delle visite virtuali in stile “street-view”, la cosa più incredibile mi sembrano le opere in alta risoluzione. Per alcune, non tutte, ci si può “avvicinare” talmente tanto che si può distinguere la struttura della singola pennellata. Beccatevi, ad esempio, The Starry Night di Van Gogh o Il figliol prodigo di Rembrandt, (meno ad effetto, ma più testoriano questo Cristo Risorto di Gaudenzio Ferrari). Per la fretta non sono riuscito a capire se si tratta di un progetto in corso d’opera oppure no. Sarebbe comunque interessante capire quali sono stati i criteri di selezione delle opere, perché talvolta sono davvero incomprensibili.
Qui sotto i due video ufficiali con la presentazione del progetto e il “making of”.