IL DEBUTTO DI UN GRANDE PITTORE. SICURO MARTIN?

Martin Gayford è un noto giornalista e critico inglese. Collabora regolarmente con il quotidiano The Independent e Bloomberg News. Ha scritto un libro che ho amato molto: A bigger message. Conversazioni con David Hockney. Il libro precedente si intitolava: L’uomo con la sciarpa blu, ed è il racconto di quando posò per un ritratto nello studio di Lucian Freud. Nelle librerie inglesi arriverà presto il suo prossimo: Michelangelo: His Epic Life.

Martin Gayford siede nello studio di Lucian Freud di fronte al suo ritratto.

Ho iniziato a seguirlo su Twitter. Non twitta molto, ma qualche ora fa ha mandato il messaggio qui sopra. E mi ha subito incuriosito.
David Dawson, infatti, è stato l’ultimo assistente di Lucian Freud e l’ultima persona che posò per lui. È lui il soggetto dell’ultimo quadro incompiuto del grande maestro. Ha studiato al Royal College of Art insieme a Tracey Emin e i fratelli Chapman.

L'ultimo quadro di Lucian Freud che ritrae David Dawson.

Oggi inaugura una sua mostra di quadri alla Marlborough di Londra (la galleria di Francis Bacon) intitolata: David Dawson: London : Wales : New York.
Quelle qui sotto sono alcune delle opere che fanno dire a Gayford: a major painter makes his debut.
Martin, sei sicuro?



 

QUELLA VOLTA A CASA TESTORI CON PAOLO ROSA

Paolo Rosa, Studio AzzurroIeri è morto Paolo Rosa, uno dei fondatori di Studio Azzurro. Ho avuto la fortuna di conoscerlo a fine luglio, quando portò a Casa Testori una giovane artista, Elisabetta Falanga, proponendo di usare una stanza della villa di Novate per una sua istallazione. Ero andato a incontrarlo per portargli una copia di Tracce su cui avevo scritto un articolo sulla Biennale di Venezia. Nel pezzo parlavo anche del Padiglione della Santa Sede e in particolare mi soffermavo sulla sua opera realizzata con, tra l’altro, i detenuti del carcere di Bollate. Trovo che la sua opera sia la più significativa tra le cose proposte da Ravasi & Co.

Quel giorno a Novate ha avuto la pazienza di rispondere alle mie domande sul perché e il per come della sua partecipazione all’azzardo vaticano nel campo aperto dell’arte contemporanea. Raccontava che era stato invitato al Festival della spiritualità di Torino. Giuseppe lo prendeva in giro chiamandolo monsignor Rosa e lui rispondeva con il suo sorriso gentile.

Mi colpirono due cose. La prima è la semplicità con cui raccontava la sua adesione all’invito vaticano, diceva: «La cosa che mi ha convinto è stata che hanno voluto fare un padiglione di arte contemporanea e non di arte sacra». Si diceva, lui laico, lusingato dall’invito da parte del più grande committente della storia dell’arte. Ma questo gliel’avevo sentito dire già in alcune interviste, mentre la seconda cosa era ancor più sorprendente e confermava un’intuizione che avevo scritto nel mio pezzo sulla Biennale. Lui raccontava di un rapporto cordiale nato con la curatrice del padiglione Micol Forti. L’avrebbe incontrata il giorno successivo per progetti futuri. Tra loro era nata una stima reciproca e poi un’amicizia. Penso che questo sia il vero esito positivo dell’operazione di Ravasi: hai voglia a sanare la ferita tra Chiesa e arte contemporanea con i proclami delle università pontificie… Occorre imparare a conoscersi e, se Dio vuole, diventare amici.

Paolo Rosa è morto ieri a Corfù a 64 anni. L’ho conosciuto mentre cercava di aiutare una giovane artista. Mi è parso una persona curiosa, seria e di una sensibilità profonda. Diceva che per lui l’arte oggi non può non porsi il problema della partecipazione del pubblico. Per lui l’opera era un evento, un evento sociale, capace di mettere in rapporto le persone. Penso sia un’intuizione giusta.

Di lui ricorderò gli occhi azzurri e la mia mano che tocca quella del carcerato di Bollate nella penombra del Padiglione vaticano.

LA CONTADINA CHE RESUSCITÒ JOSEPH BEUYS

Ho letto la biografia di Joseph Beuys di Heiner Stachelhaus pubblicata l’anno scorso da Johan & Levi. Non è un libro straordinario, ma ha il pregio di restituire un’idea complessiva delle vicende del grande artista in modo lineare e (come direbbe Maurizio Milani) completo. Diciamo che è un buon punto di partenza. A maggio è uscita anche la nuova biografia di Hans-Peter Riegel, anticipata dalla stampa tedesca come rivelatrice di magagne sconosciute nel passato di B. (tipo mecenati nazisti e balle raccontate sul suo mitologico passato). Purtroppo è in tedesco e, al meno io, dovrò attendere che qualcuno la pubblichi nella lingua del . Se la sensazione è che Stachelhaus abbia sfiorato l’agiografia, è più che probabile che Riegel abbia ecceduto in senso opposto. Essendo quello su Beuys un vero e proprio culto, è naturale che vi siano i relativi sacerdoti ed eretici…

***

La pagina più bella del libro di Stachelhaus è quella dedicata alla testimonianza della madre dei fratelli van der Grinten sul periodo della depressione di Beuys. I fratelli van der Grinten erano figli di contadini e avevano una fattoria a Kranenburg, vicino a Kleve. Hans e Franz Joseph conoscono B. nel 1946 e nel 1951 decidono di diventare i suoi primi collezionisti. Fatto stà che dal 1954 B. cade in una profonda depressione. Viene ricoverato senza esiti, molti amici cercano di aiutarlo. Un giorno Franz Joseph chiede alla madre se possono ospitare B. per qualche tempo. La madre accetta non senza qualche esitazione. Dice: ho appena perso mio marito, non sono sicura di poter aiutare qualcun altro. Ecco come in un’intervista del 1971 la donna racconterà quella vicenda. Un saggio di pragmatismo contadino, che riesce ad attraversare il tormento di un uomo cogliendone il vero snodo esistenziale. Per la serie: scarpe grosse, cervello fino.

«Parlavamo di guerra, di arte, di politica, di paesi stranieri, di fiori… Beuys si intendeva di tutto. Nell’ultimo periodo lavorare non gli dava più soddisfazione, restata a letto tutto il giorno, fumava e si rifiutava di mangiare. Una volta Franz Joseph è tornato a casa per il fine settimana, come sempre, e mi ha detto: “Hai una brutta cera. Se va avanti così, sarai tu ad ammalarti anziché lui a guarire”. Gli ho raccontato come stavano le cose, che non riuscivo ad accettare che lui se la prendesse con se stesso, a allora Franz Jospeh ha detto: “Bene, se è così deve andarsene, abbiamo fatto abbastanza per lui”.
L’ho detto a Beuys. E il mattino seguente, ormai pronto a partire con i bagagli già fatti, è venuto da me, mi ha ringraziato e ha detto: “Signora van der Grinten, mi ha fatto molto piacere stare con lei, me ne vado a malincuore”. “Ci credo” gli ho risposto “ma per come sono stati gli ultimi giorni, io non ce la faccio. Non posso restare a guardarla mentre se la prende con se stesso e contro il Signore senza sentire ragioni”. Sì, rispose, era convinto che il Signore lo avesse abbandonato. “Invece” gli ho detto io “sono sicura che il Signore è con lei. Le ha dato il talento e le ha messo l’arte nel cuore. E se lei promette a sua madre di tornare a casa e poi passa tutto il tempo a vegetare non pensa che sua madre ci resti male? È una cosa che disapprovo, non riesco a sopportarlo. Non penserà mica che la mia vita sia stata tutta rose e fiori! Anch’io ho avuto molte preoccupazioni e difficoltà, oltre a dover lavorare sodo. Quando mio marito è morto in un incidente, un’ora dopo ho dovuto mungere le mucche e dare da mangiare ai maiali lo stesso, perché il dovere è dovere e non si può aspettare, deve farci i conti anche lei. Un uomo deve avere il senso del dovere. Se lei lavora su questo, tutto il resto viene da sé”.
Ha ascoltato in silenzio. Non gliel’ho detto in modo duro o severo, perché era simpatico e volevo davvero aiutarlo, e lui ha capito. Mi ha chiesto se poteva tornare. Gli ho detto che poteva venire tutte le volte che voleva. Poi è partito e due giorni dopo è passato per una breve visita. Così l’amicizia è rimasta e lui è guarito».

(da Heiner Stachelhaus, Jospeh Beuys – Una vita di controimmagini, Johan & Levi, pp. 54-55)

LUIGI GHIRRI, IL LIBRO (DI SAGGI) CHE NESSUNO RIPUBBLICA

Luigi Ghirri, niente di antico sotto il sole

«La mia idea della fotografia, come inesauribile possibilità di espressione, ha cercato nella realtà dei mondi e dei modi di rappresentarli… La fotografia, al di là di tutte le spiegazioni critiche e intellettuali, al di là di tutti gli aspetti negativi che pure possiede, penso che sia un formidabile linguaggio visivo per poter incrementare questo desiderio di infinito che è in ognuno di noi»
(Luigi Ghirri, da intervista per Les Cahiers de la Photographie)

Nel 1997 la SEI ha pubblicato Niente di antico sotto il sole – Saggi e immagini per un’autobiografia uno spesso libro di saggi e interviste di Luigi Ghirri. Un libro fondamentale per comprendere quello che oggi è considerato il più importante fotografo italiano degli ultimi quarant’anni (Luca Beatrice ha descritto bene la sua riscoperta degli ultimi anni). A scorrere l’indice c’è davvero di che ingolosirsi. Cito solo qualche titolo della sessantina di saggi: Diaframma 11, 1/125, luce naturale (1970-1979); “∞” Infinito (1974); Re Mida nel vicolo cieco; Mondi senza fine. Su William Eggleston; Paesaggi senza cornice oltre la Casa Gialla; Le carezze fatte al mondo di Walker Evans; Sulla strada, dylaniati; Da Contarina a Prince; Casa, ponte, cancello… 

Qui la prima pagina del’indice e qui la seconda.

Trascrivo qui un brano dell’introduzione:

«Questo è per Ghirri, a partire da Daguerre, il compito della visione attraverso l’obbiettivo: ” ridare vita mediante la luce al mondo inanimato” e “dare al nostro sguardo sul mondo un altro sguardo successivo, per non dimenticarlo, per capirlo o, forse, solo per la gioia di rivederlo”. Scrittura della luce sono quindi davvero la fotografia e la sua storia, e al bianco assoluto di una luce lancinante eppure piena di consolazione, si aprono gli interni e i paesaggi diafani dell’ultimo periodo. Venerdì 14 febbraio 1992 Ghirri avrebbe dovuto prendere una decisione definitiva riguardo al libro della vita, un libro più volte ipotizzato e poi sempre decostruito per l’evidente impossibilità di contenere in un solo volume la complessità e la vastità del lavoro compiuto. La morte improvvisa giunta quel mattino, finzione suprema della realtà dell’apparire, non ha interrotto la sua opera, l’ha solo compiuta nella propria verità di opera aperta alla luce della Luce che, oltre la soglia dell’orizzonte, segna il nuovo inizio della realtà senza fine».

Vi consiglio di leggerlo. Ma c’è un unico problema: è introvabile. Strano, no? Possibile che a nessuno interessi ripubblicare un libro del genere?

I COLORI DELLA POVERTÀ. LAWRENCE CARROLL SECONDO PANZA

Lawrence Carroll, mostra al Museo Correr, Venezia, 2008
Lawrence Carroll, mostra al Museo Correr, Venezia, 2008

 

Uno degli artisti che probabilmente (chissà, vediamo, sapremo il 14 maggio) sarà presente al Padiglione della Santa Sede alla Biennale di Venezia 2013 è Lawrence Carroll (Melbourne, 1954). Fu una delle passioni del conte Giuseppe Panza e alcune sue opere si possono vedere nella villa di Varese. Di lui Panza parla in Ricordi di un collezionista. Le parole del conte sulle intenzioni e i risultati di questo artista sono davvero uno dei punti più belli di tutto il libro. Eccone qualche stralcio.

 

«Il suo obiettivo è il condividere la vita dell’uomo e dell’umanità, e le sue sofferenze. L’individuo perso tra la folla della metropoli. La tristezza e la solitudine. Il bisogno di amore. L’esistenza delle persone rifiutate dalla società, che non hanno la forza per competere con gli altri per sopravvivere. (…)

Molti non hanno colpa del loro destino, della loro miseria. Anche per chi ha colpe, di chi sono le vere colpe? Non vi è giustizia che può sanare queste sofferenze, sono nascoste dentro l’imprevedibile destino di ognuno. Dove è una possibilità di salvezza? Lawrence Carroll non è un fotografo, non descrive la realtà che i nostri occhi vedono. La rappresenta in un modo che è più sostanziale, arriva all’essenza della realtà, dove nascono il bene e il male. Il piacere e il soffrire. Esplora il mondo invisibile della coscienza, l’attimo insostituibile e irripetibile dell’esistere. La metafora di quello che vediamo, prima che il reale diventi reale.

I colori, bianchi, grigi, gialli, più o meno scuri ma prevalentemente chiari, sono macchie, superfici dipinti su tela attaccata a un supporto di legno, di una cassa trovata per strada adattata a diventare un quadro con tre dimensioni. I colori e le forme della povertà.

È un’arte che si deve guardare con attenzione per scoprire una raffinata bellezza, nascosta tra colori smunti, senza rilievo, pallidi e tristi. Quando la si scopre, si prova una profonda emozione; la bellezza nascosta, non evidente, senza aggressività, è la bellezza che ha radici, che rientra nel nostro essere. Ci comunica una realtà sotterranea che è la condizione primordiale del nostro esistere. Ci mette in relazione con gli altri, con l’umanità, con tutti quelli che non vediamo, ma che vivono.  (…)

Carroll ha un forte interesse per un famoso pittore italiano, Giorgio Morandi, poco apprezzato in America, un artista che ha speso tutta la sua vita, dagli anni ’20 fino agli anni ’50, dipingendo una sola cosa: bottiglie. Un soggetto quanto mai modesto, insignificante. Ciononostante è stato un grande pittore. Condivido l’interesse di Carroll. Non vi sono eroi, o tristezze opprimenti, solo immagini domestiche della vita quotidiana. Credo che per questo mi coinvolga così tanto. Non interessano i grandi drammi, ma la vita della moltitudine che scompare senza lasciare traccia, ma vive. (…)

Le opere di Carroll esprimono intensamente ed efficacemente la realtà del dolore perché la sublimano con una rappresentazione metaforica di una realtà che diversamente sarebbe aggressiva e lacerante, troppo violenta per essere rappresentata. Oggi questo compito spetta ai fotografi della cronaca giornalistica o della televisione, che è generosa nell’informare su tante cose che sarebbe meglio non vedere. I soggetti di Carroll non sono gli episodi violenti: è la vita triste di chi non riesce a vivere come gli altri per tante ragioni, vizi, malattie mentali, disfunzioni del carattere, debolezza fisica. Spesso situazioni di povertà per l’improvvisa perdita del reddito e la difficoltà di rifarsi una vita. La miseria ha colori e forme apparentemente disordinate che l’artista utilizza e l’arte fonde in un’armonia nuova che stupisce per la sua bellezza. Stupisce chi è ancora capace di spogliarsi dei propri pregiudizi». 

(Giuseppe Panza, Memorie di un collezionista, Jaca Book, 2006)

Lawrence Carroll, mostra al Museo Correr, Venezia, 2008
Lawrence Carroll, mostra al Museo Correr, Venezia, 2008

QUANDO RICHTER DISTRUSSE IL SUO RITRATTO DI HITLER

Gerhard Richter, Köln - Courtesy Gerhard- Richter-Archiv Dresden
Gerhard Richter, Köln - Courtesy Gerhard- Richter-Archiv Dresden

Nel suo catalogo generale si dice che siano circa 60. Sono le opere che Gerhard Richter ha deciso di distruggere e delle quali si ha un qualche tipo di documentazione. Molte sono degli anni Sessanta, quando da artista semisconosciuto proponeva nelle gallerie tedesche i suoi Foto-Bilder. Come capita ai pittori, non soddisfatto del risultato, prendeva un taglierino e distruggeva la tela. A volte le opere venivano bruciate con altro materiale di scarto. Ma dagli archivi sono emerse una serie di immagini di questi quadri e una in particolare, il ritratto di Hitler (ne parlava qualche mese fa lo Spiegel). Ora, che il nazismo sia uno dei grandi temi dei Foto-Bilder degli anni Sessanta non è un mistero. Richter ritrae lo zio in uniforme della Wehrmacht e fa il ritratto della zia uccisa dal programma nazista di eutanasia per i malati mentali. È forse il primo artista a rompere il tabù che in quegli anni copriva il ricordo dei recenti fatti storici. Mostra come in una normale famiglia tedesca potesse esserci la vittima e il carnefice. Quella di Richter è una poetica anti-ideologica e anti retorica che segna tutta la sua carriera. Si capisce allora come sia possibile che nel 1962 gli sia venuta l’idea di ritrarre proprio lui, Adolf Hitler. Un’immagine che all’epoca deve essere apparsa fortissima, trasgressiva e provocatoria. Nessuno prima di lui aveva osato tanto. Eppure quell’immagine è andata perduta (meglio: l’archivio online usa l’espressione “Gilt als zerstört”, probabilmente distrutta). Perché? Oggi Richter a proposito di quel quadro dice che quel tema e quel ritratto gli apparivano troppo “spettacolari”. Era quindi un quadro non riuscito. Non riuscito perché troppo retorico, troppo massimalista. Troppo retorico, appunto. Sul tema non tornò più anche se anni dopo il volto del Furher si fa spazio nella sua immaginazione, come testimoniano i fogli 131 e 132 del suo Atlas.

Gerhard Richter, Atlas 131, 1969
Gerhard Richter, Atlas 131, 1969
Gerhard Richter, Atlas 132, 1969
Gerhard Richter, Atlas 132, 1969

RAVASI ALLA BIENNALE NON PORTA QUEL CHE AVREBBE VOLUTO

Lucio Fontana, Via Crusis (X stazione), 1947.
Lucio Fontana, Via Crusis (X stazione), 1947.

Niente Kounellis, niente Kapoor, niente Bill Viola. Non ci sarà neanche il tema della Genesi. Ci saranno, probabilmente, Josef Koudelka, Lawrence Carroll, Lucio Fontana (che sarebbe stato ripescato dopo il ritiro dell’artista colombiana Doris Salcedo) e un altro artista che resta ancora avvolto nel mistero. A riferirlo è il Corriere del Veneto che cita tra le sue fonti il blog il Francesco Colafemmina. Come andranno veramente le cose lo si saprà solo il 14 maggio, giorno della presentazione ufficiale del Padiglione della Santa Sede alla Biennale di Venezia 2013.

Le cose, evidentemente, non sono andate come avrebbe voluto il cardinale Gianfranco Ravasi che dal 2008 si dice convinto della necessità della presenza della Santa Sede alla maggiore manifestazione di arte contemporanea del mondo.

Josef Koudelka e Lawrence Carroll sono certamente grandi nomi, magari non quelli che ci si sarebbe aspettati viste le dichiarazioni rilasciate in passato da Ravasi. Altrettanto certo è che la proposta di un tema non è stato raccolta dal mondo degli artisti. Nulla si sa sulle ragioni che avrebbero portato Doris Salcedo a rinunciare alla sua partecipazione. Il Corriere dice che si era pensato di portare Shibboleth, l’opera che l’artista istallò nel 2007 nella Turbin Hall della Tate Modern di Londra. Ma davvero si pensava di riproporre quella stessa opera negli spazi ristretti dell’Arsenale? Io ne dubito fortemente. La possibilità che artisti di caratura mondiale accettino di coinvolgersi con una committenza così prestigiosa (ma così esigente) non è affatto scontata. Anzi.

E la Via Crucis di Lucio Fontana? A me pare una buona idea, anche se di ripiego. Sottolineare da una ribalta così importante, che quello che viene considerato il maggior artista italiano del secondo Novecento ha realizzato una serie di opere a tema esplicitamente religioso, è comunque un’operazione interessante. Sulla polemica circa l’eventuale acquisto dell’opera da parte della Santa Sede e i relativi costi, non so cosa dire: portare all’Arsenale quella Via Crucis non impone che l’opera venga comprata. Ma forse la sovrapposizione delle due operazioni non era prevista.

Tutto questo ammesso e non concesso che il Corriere sia bene informato.

UPDATE (4 maggio 2013)

Il Pontificio Consiglio della Cultura ha finalmente annunciato la conferenza stampa di presentazione del Padiglione della Santa Sede alla Biennale (14 maggio, ore 11,30, sala stampa vaticana). Qui trovate il comunicato in cui viene confermato il tema della Genesi. 

I DUE VECCHI DI RON MUECK DA CARTIER

Ron Mueck, Couple Under An Umbrella, 2013, Fundation Cartier.

Ron Mueck, Couple Under An Umbrella, 2013, Fundation Cartier, Paris.
Ron Mueck, Couple Under An Umbrella, 2013.

Forse mi piace perché è un artista piacione. O forse perché davvero è uno che riesce a dire qualcosa. Direte: è uno che piace alla gente che piace e quindi bisogna farselo piacere, guarda dove espone, a Parigi alla Fondazione Cartier

È invece dico che Cartier si merita le opere di Ron Mueck, perché sono veri gioielli.
Fosse uno dei tanti iperrealisti non mi interesserebbe. Le sue figure, i suoi corpi, sono sempre fuori scala: o troppo grandi o troppo piccoli. Così il realismo va a farsi benedire. C’è una generosità di ispirazione che eccede la perfezione formale (che pure c’è).

Guardate questi due anziani che si riparano sotto l’ombrellone. Monumentali. Lei guarda lo con tenerezza. Lui appoggia un braccio sulla fronte. Non guarda nulla per riposare lo sguardo.Con l’altra mano le tiene il braccio, in un gesto di abbandono. C’è una complicità, una fierezza. Un amore maturo. Coraggioso. Monumentale, appunto.