Non è un caso se l’emiro del Qatar si sia preso la pena di spendere 250 milioni di dollari per “I giocatori di carte” di Paul Cézanne. Negli ultimi dieci anni, Hamad bin Khalifa Al Thani è stato l’emiro più ambizioso di tutto il Golfo Persico. Ha fatto di tutto per farsi notare sullo scacchiere internazionale. Dagli Asian Games del 2006 ai Mondiali di calcio del 2022, dal riconoscimento della libertà di culto (solo quella di culto, però) fino all’ostentato attivismo militare nella guerra in Libia. Credere che tutto d’un tratto Al Thani si sia appassionato dall’arte moderna perché intimamente affascinato dalle pennellate di Cézanne e Murakami è ingenuo. È politica innanzi tutto. Capito questo, poi, si può ricordare che non sempre la politica ha fatto male al mondo dell’arte (penso al Rinascimento, non all’assessore Finazzer Flory). In questo il collezionismo dei miliardari arabi, appare diverso da quello dei russi. Proprio perché il prestigio dal punto di vista culturale è utilizzato in funzione politica e non (solo) per prestigio personale.
L’emiro del Qatar, tuttavia, non è l’unico a battere questa strada. Il più discreto emiro di Abu Dhabi (quello che ha salvato il cugino di Dubai dalla bancarotta…) già da qualche hanno si è aggiudicato un nuovo Museo Guggenheim e una dépendance del Louvre.
Ma le questioni che pone il rapporto tra emiri e arte occidentale (dell’800-900 e contemporanea) non sono di poco conto. Me ne sono accorto quando nel 2009 andai a dare un’occhiata ad Abu Dhabi Art Fair (qui il mio racconto per il Giornale del Popolo). In quell’anno, per la prima volta, la fiera aveva attratto le più importanti gallerie del mondo (Gagosian, White Cube, Pace Wildensteind, Hauser & Wirth, Gmurzynska, Aquavella ecc. ecc.), e i galleristi si erano posti per la prima volta il problema di che cosa avessero voglia di comprare gli arabi. Quella volta si risposero: lusso, sfarzo, oro, diamanti (c’era quello di Jeff Koons offerto a 15 milioni di dollari)… Ma sotto il profilo culturale la sfida era ancora più intrigante. Perché? Perché per l’islam rappresentando figure umane o di altro genere, si rischia di peccare di idolatria. Così l’arte islamica doc si focalizza essenzialmente sulla calligrafia. Il punto di contatto tra occidente e mondo musulmano potrebbe essere quindi l’arte astratta (da qui l’approdo del Guggenheim con una collezione di quadri da sballo – li ho visti dall’Emirates Palace proprio nel 2009). Eppure i precetti islamici non sembrano essere in cima alle preoccupazioni degli emiri che, spesso in contrasto con una fetta influente di sudditi parecchio tradizionalisti, fanno un po’ come gli fa comodo.
Così, visto che le opere più celebri al mondo sono figurative, anche coi petroldollari del Golfo Persico spesso e volentieri si punta sui grandi classici. Ora occorrerà capire che ricadute dal punto di vista della cultura visiva avranno sul mondo arabo questi nuovi musei zeppi di opere squisitamente occidentali e “moderniste”.
Infine, per fare un po’ di ordine, vi metto in fila tutte e cinque le versioni dei giocatori di carte di Cézanne:
Una mostra con opere inedite, sorprendenti. Difficile che artisti stranieri del calibro di Marlene Dumas presentino in Italia lavori nuovi. Invece la Fondazione Stelline ci è riuscita. Così a Milano approderanno quindici opere-quindici della signora nata a Città del Capo e olandese d’adozione. I soggetti sono spiazzanti: Emi Winehouse, Pier Paolo Pasolini, Anna Magnani, il Crocefisso… Io dico che può essere una grande mostra. Vedremo.
MARLENE DUMAS Milano, Fondazione Stelline (corso Magenta 61) 13 marzo – 17 giugno 2012
An exhibition of new works, amazing. It is difficult that foreign artists, such as Marlene Dumas, exhibit new works in Italy. But the Stelline Foundation has succeeded. So they will arrivein Milan fifteen works by the southafrican-born lady living in Amsterdam. The subjects are unsettling: Emi Winehouse, Pier Paolo Pasolini, Anna Magnani, the Crucifix … I say it can be a great show. We will see.
MARLENE DUMAS Milano, Fondazione Stelline (corso Magenta 61) 13 marzo – 17 giugno 2012
A Milano nevica. Rinuncio a esibirmi in immagini da Instagram scattate col mio pessimo iPhone e vi regalo questa. Sarà esposta dal 4 al febbraio all’11 marzo al Castello di Rivoli a Torino. La mostra, a cura di Elena Re, si intitola: LUIGI GHIRRI – Project Prints. Un’avventura del pensiero e dello sguardo.
In questi giorni ho seguito sui giornali la polemica sullo spettacolo “Sul concetto del volto del Figlio di Dio” di Romeo Castellucci. Incuriosito sono andato al Teatro Parenti a vedere di che cosa si trattava. E ho imparato alcune cose. Eccole:
1) È meglio una polemica cialtrona oggi che una recensione seria domani.
2) I lefevriani possono dire una messa in rito antico ovunque, anche su un camion.
3) Se Forza Nuova si incazza, riesce a mandare a protestare al massimo venti ragazzi.
4) Se Forza Nuova si incazza, la polizia manda in strada almeno cento poliziotti in tenuta da sommossa.
5) Se sia Forza Nuova sia i Lefevriani si incazzano, nelle redazioni i giornalisti hanno orgasmi multipli.
4) Antonio Scurati quando non ha nulla da dire, dice che la Chiesa Cattolica fa ingerenza politica.
6) Antonio Socci ha un gran coraggio quando scrive quello che i propri lettori non si aspettano di leggere.
7) Andare a teatro è meglio che andare al cinema. Si possono sentire anche gli odori.
8) Lo spettacolo di Castellucci è bello, ma non è un capolavoro.
9) Il vero capolavoro è quello di Antonello da Messina.
10) Grazie a Dio c’è il Volto di Gesù che ci guarda.
Jonathan Jones si lamenta dell’enfasi con cui in questi giorni si sta celebrando David Hockney come il più grande artista britannico vivente (qualcuno addirittura dice “del mondo”). Dice: morto Lucian Freud si è subito incoronato Hockney come il più grande. Ma perché tutta questa fretta? Dice Jones:
I find it quite tasteless (and I’m sure he does, too) that David Hockney is widely described as Britain’s “greatest living artist” now Lucian Freud is gone. Hockney has inherited the job, it seems. What is the basis for this assumption? It comes down to two things, apparently: one, Hockney is no longer young; and two, he’s a craftsman who makes his paintings with his own two hands.
Eppure, lui dice Freud non era il più grande solo perché era un vecchio pittore:
He did not earn his extraordinary reputation by being a safe pair of hands. He was not just a decent craftsman who worked patiently until he became great. He was a profoundly original, scathing, cruel, sensual, serious observer of the human condition. His art attained a profundity that was paralleled in modern British culture by, say, the plays of Harold Pinter, and the poetry of T.S.Eliot.
E conclude: lasciamo ancora un po’ vacante il posto di “più grande artista inglese vivente”, giusto per non prendere cantonate.
Stiamo parlando del più grande artista inglese vivente [Hockney, ndr.], Lucien Freud non regge il confronto , e Damien Hirst è di un’altra generazione e anche troppo coccolato per essere così veramente trasgressivo. La capacità di David Hockney di rinnovarsi, di cambiare rotta, di sperimentare linguaggi nuovi lo rende un artista assolutamente moderno. Ha usato la fotografia in tempi non sospetti inventando immagini memorabili. E’ un grandissimo disegnatore che può stare tranquillamente al fianco di Degas. Un maestro per le generazioni di giovani artisti, Alex Katz vicino a lui sparisce. Tutti i quadri californiani degli anni 60 dalle piscine ai ritratti in ambienti sono lo specchio preciso di un epoca. I quadri immensi del Grand Canyon hanno una potenza visiva struggente , mischia la cultura pop con il cinema. Le vedute dipinte en plein air nello Yorkshire dove lui è nato fino al Bigger painting per la Royal Academy sono una riflessione di un vecchio che torna bambino, in effetti l’elenco potrebbe essere anche troppo lungo: Picasso, Ocean Drive , il teatro , il nudo maschile…
Della folle mostra degli Spot Paintings di Damien Hirst nelle 11 gallerie di Larry Gagosian avevo parlato ad agosto qui. Secondo me tra tutte le pessime idee che che ha avuto Hirst questa è la migliore. In fondo questi quadri sono abbastanza innocui, un omaggio all’arte per l’arte. Avessi i soldi, uno di questi quadri io me lo appenderei volentieri in salotto. In fondo è facile abbinare con un divano dell’Ikea. Dico questo perché mi sembra ovvio che il vero Hirst non sia qui, ma altrove. L’ha spiegato bene Jerry Saltz su Art in America con un saggio intelligente che secondo me va al cuore della questione, in particolare quando scrive:
There’s a moment in the movie Blade Runner when Roy, the Nexus-6 replicant (a beautiful, nearly human android), finally finds the scientist-inventor who created him. Roy asks what any of us might ask, could we confront our make: why, after giving us life, do you have to take it away? The slightly bemused scientist listens and then asks, “What seems to be the problem, Roy?” – to which Roy emphatically answers, “Death seems to be the problem! I want more life… fucker!” In a nutshell, that’s what Damien Hirst’s work is all about – “more life.”
I wrote about the crazy exhibition of Damien Hirst’s Spot Paintings in the 11 galleriesof Larry Gagosian last August here. In my opinion among all the bad ideas that Hirst has had, this is the best. After all these paintings are quite harmless, a tribute to art for art’s sake. If I had the money, I were happy to hang one of these pictures in my living room. It is really easy to match them with a IKEA sofa. I say this because it seems obvious that the real Hirst is not here, but elsewhere. The Jerry Saltz explained it in a smart essay published on Art in America. I think that he goes to the heart of the matter, especially when he writes:
There’s a moment in the movie Blade Runner when Roy, the Nexus-6 replicant (a beautiful, nearly human android), finally finds the scientist-inventor who created him. Roy asks what any of us might ask, could we confront our make: why, after giving us life, do you have to take it away? The slightly bemused scientist listens and then asks, “What seems to be the problem, Roy?” – to which Roy emphatically answers, “Death seems to be the problem! I want more life… fucker!” In a nutshell, that’s what Damien Hirst’s work is all about – “more life.”
Il 2012 ricorreranno, tra l’altro, i cento anni dalla nascita di William Congdon, il giovane pupillo di Betty Parson e Peggy Guggenheim, che decise di lasciare la promettente carriera di action painter (negli anni ’50 la Parson lo quotava di più di Jackson Pollock) per ritirarsi in Italia, trascorrendo gli ultimi trent’anni della vita occupando un appartamento attiguo al Monastero della Cascinazza a Gudo Gambaredo, nella Bassa Milanese.
Ricordato forse troppo per la sua conversione al cattolicesimo e certamente troppo poco per la sua straordinaria energia creativa e abilità pittorica, a Congdon sarà dedicata una mostra al Knights of Columbus Museum di New Haven (Connecticut) intitolata “The Sabbath of History: William Congdon” (dal 22 febbraio al 16 settembre 2012). Alle opere più famose del pittore americano saranno accostate cinque meditazioni dell’allora cardinal Ratzinger sulla Settimana Santa. Nulla si può dire sulla qualità della mostra, tuttavia lascia perplessi la scelta della sede espositiva. Possibile che nessun grande museo tra quelli che conservano opere di Congdon fosse disposto a promuovere una retrospettiva su di lui? Peccato, poi, che nessuno a Venezia interessi più il giudizio dato su di lui da Peggy Guggeheim quando diceva: “William Congdon è l’unico pittore, dopo Turner, che ha capito Venezia, il suo mistero, la sua poesia, la sua passione”.
Ho sempre pensato che il miglior Congdon fosse proprio quello delle Venezie. Eppure frequentando negli ultimi tempi i luoghi dove ha vissuto mi sono accorto, a dispetto delle apparenze, della carica addirittura iperrealista delle sue opere sulla Bassa milanese. Basti confrontare alcuni quadri e la cromia delle immagini satellitari della zona di Gudo.
In 2012 marks, among other things, centenary of the birth of William Congdon, the young protégé of Betty Parsons and Peggy Guggenheim, who decided to leave a promising career as action painter (Parson in the 50s sells him at higher prices compared to Jackson Pollock) and retired to Italy, spending the last thirty years of life, occupying an apartment next to the Monastery of Cascinazza in Gudo Gambaredo in the countryside around Milan.
Recalling perhaps too much for his conversion to Catholicism, and certainly too little for his extraordinary creative energy and artistic ability, Congdon will be devoted to an exhibition at the Knights of Columbus Museum in NewHaven (Connecticut) entitled “The Sabbath of History: William Congdon” (from 22 February to 16 September 2012). The most famous works of American painter will put together five of the then Cardinal Ratzinger’s Meditations on the Holy Week. Nothing you can say now about the quality of the exhibition, however perplexing the choice of venue. Is it possible that any large museum that houses works from those of Congdon was willing to promote a retrospective on him? Pity, then, that no more interest in Venice about what Peggy Guggenheim said about him: “William Congdon is the only painter, after Turner, who understood Venice, its mystery, its poetry, his passion“.
I always thought that the best works were the pictures of Venice. Yet in recent years, by attending the places where he lived, I realized, in spite of appearances, even the charge of hyper-realism in works about the countryside. Just compare some Congdon’s paintings and the colors of the satellite imagery of the area of Gudo.
Gerhard Richter ha realizzato tre quadri che raffigurano la sua prima figlia Babette, detta Betty. I primi due sono del 1977, mentre l’ultimo del 1988. Il più famoso e il più amato è certamente il terzo (qui Robe da Chiodi ne propone un’interpretazione tanto audace e affascinante quanto legittima). Qui sotto li ripropongo in serie con i rispettivi fogli di Atlas che riportano le fotografie dai quali sono stati tratti. Il primo e il terzo sono esposti, ma in sale diverse, nella mostra “Panorama”, ora a Londra, poi a Berlino e Parigi (ne ho già scritto qui). Vederli così vicini fa un certo effetto. Non so spiegare quale, a dire il vero. Posso dire però due cose. La prima è che si vede in tutti e tre lo sguardo di un padre. Ciascuno esprime un sentimento diverso con il quale, immagino, un padre sia confrontato. La seconda è che Richter usa (sono tentato di dire “inventa”) tre differenti modi nuovi di realizzare un ritratto. Io dico che il più difficile da sostenere è il primo, non solo perché siamo confrontati con lo sguardo diretto di Betty. Sul terzo, quello famoso, riporto un brano del bel saggio di Achim Borchardt-Hume nel catalogo della mostra (p. 164):
In marked contrast, Betty, is resolutely looking back, albeit with the strong implication that she will soon be looking forward. The painting exudes a deep sense of nostalgia. Richeter’s adolescent daughter turns away from her father’s attempt to freeze her appearance with his camera. By extension, she also turns away from the present-day viewer. The typical Richter blur softens the painting’s photorealism and heightens the motif’s romantic aura (not unlike a photograph taken with a soft-focus lens). At the same time, it mimics the temporality oh photography, which, as Roland Barthes so aptly demonstrated, always entails a sense of loss, if not death, of something irretrievably gone.
Gerhard Richter has created three paintings depicting her first daughter, Babette, said Betty. The first two are from 1977, while the last of 1988. The most famous and most popular is certainly the third (here Robe da Chiodi proposes an audacious and fascinating interpretation of it). Here I show theme together with the respective sheets of Atlas from which the photographs were taken. The first and the third are on display, but in different rooms, in the show “Panorama”, now in London, then in Berlin and Paris (I’ve already written about here). Seeing them so close together makes a certain effect. I can not explain that, actually. But I can say two things. The first is that in all three we can see the gaze of a father. Each expresses a different feeling with which, I imagine, a father is compared. The second is that Richter uses (I’m tempted to say “invented”) three different new ways to paint a portrait. I say the more difficult to sustain is the first, not only because we are faced with the direct gaze of Betty. About the third, the famous one, I carry a piece of the beautiful essay by Achim Borchardt-Hume in the exhibition catalog (p. 164):
In marked contrast, Betty, is resolutely looking back, albeit with the strong implication that she will soon be looking forward. The painting exudes a deep sense of nostalgia. Richeter’s adolescent daughter turns away from her father’s attempt to freeze her appearance with his camera. By extension, she also turns away from the present-day viewer. The typical Richter blur softens the painting’s photorealism and heightens the motif’s romantic aura (not unlike a photograph taken with a soft-focus lens). At the same time, it mimics the temporality oh photography, which, as Roland Barthes so aptly demonstrated, always entails a sense of loss, if not death, of something irretrievably gone.
Nel numero di novembre della rivista Tracce, ho scritto questo articolo sulla grande mostra su Leonardo pittore in corso alla National Gallery di Londra.
Una mostra solo di quadri di Leonardo da Vinci non l’avete mai vista. Perché? Semplice: negli ultimi settant’anni nessuno è mai riuscito a farla. Ce l’ha fatta quest’anno la National Gallery di Londra che fino al 5 febbraio propone una retrospettiva sugli anni milanesi del genio italiano intitolata “Leonardo da Vinci, pittore alla corte di Milano”. I presititi sono da capogiro, tanto che per la prima volta nella storia verrranno esposte insieme le due versioni della “Vergine delle rocce”, quella del museo londinese e quella del Louvre. Un evento come quello di Londra sarebbe stato l’occasione per fare un punto sullo stato della ricerca su uno degli snodi decisivi della storia dell’arte del Rinascimento. A ridosso della mostra, tuttavia, uno dei maggiori studiosi di Leonardo, il professore padovano Alessandro Ballarin, ha pubblicato un’opera monumentale (quattro volumi per un totale di 1392 pagine di testo e altre 1389 di immagini a colori e in bianco e nero) intitolata, guarda caso, proprio “Leonardo a Milano”. Ballarin ha lavorato a quest’opera negli ultimi quindici anni riscandagliando i pochi documenti a disposizione degli storici e proponendo nuovi scenari e soluzioni a molti problemi che restano ancora aperti, ma soprattutto proponendo interpretazioni di opere con le quali nessuno aveva mai osato confrontarsi. L’esempio delle due versioni della “Vergine delle rocce”, sui cui ruota tutta la mostra di Londra, è emblematico. Ballarin non concorda affatto con quanto i curatori inglesi sostengono sulla storia delle due opere e propone una lettura assolutamente inedita del loro significato.
Secondo la mostra di Londra la “Vergine delle rocce” conservata al Louvre è stata la prima ad essere realizzata. Dipinta tra il 1483 e il 1486 e sarebbe stata dipinta per la cappella della Confraternita dell’immacolata concezione nella chiesa francescana di San Francesco Grande (nei pressi dell’attuale università Cattolica e abbattuta agli inizi dell’800). Dopo una controversia sui pagamenti, Leonardo avrebbe venduto questa versione e successivamente realizzato quella della National Gallery attorno al 1490 per sotituire la prima nella cappella della confraternita. Leonardo ricorre al tribunale di Milano perché la Confraternita francescana non avrebbe finito di pagare l’opera. Secondo i documenti dell’epoca la confraternita, da parte sua, sosteneva che il pagamento non era stato completato dal momento che l’opera non era considerata finita. Ma se le cose stessero così, come avrebbe fatto Leonardo a rivendere un’opera non terminata? E poi: se la seconda versione avrebbe dovuto sostituire la prima nella complessa ancona di San Francesco, perché le due tavole hanno misure diverse? Infine: perché l’artista avrebbe deciso di modificare la composizione della seconda versione anziché farne una replica fedele?
Ballarin dice: la prima tavola, quella del Louvre, non fu affatto realizzata per San Francesco, ma si tratta di un’opera dipinta nei primi anni del suo soggiorno milanese. Si tratterebbe di un “biglietto da visita” per il suo nuovo signore, Ludovico il Moro, pensato per l’abside della cappella palatina di San Gottardo in Corte, la chiesa che ancora oggi si trova dietro al Palazzo reale a Milano. Questa chiesa era stata costruita dallo zio del Moro, Azzone Visconti, e la sua struttura originale replicava, nell’abside, la pianta ottagonale del battistero di San Giovanni ad Fontes (quello maschile, dove Ambrogio aveva battezzato Agostino) e che era stato sacrificato per il cantiere del nuovo Duomo. Sembra quindi che nelle intenzioni di Azzone San Gottardo doveva diventare una nuova “ecclesia fontis”. Contemporaneamente, però, la chiesa era anche dedicata all’Immacolata Concezione, culto che era stato diffuso in Italia e in particolare a Milano dai francescani. Una pala d’altare per quella chiesa avrebbe quindi dovuto far convivere il tema del battesimo di Gesù e quello dell’Immacolata. E, a ben vedere, la “Vergine delle rocce” del Louvre sembra essere in grado di rispondere a questa difficile esigenza.
Leonardo, infatti, sceglie di partire da antiche tradizioni apocrife sulla vita del Battista che raccontavano che al ritorno dall’Egitto, Gesù e la Madonna si fossero recati a trovare il cugino Giovanni il quale invece aveva trovato rifugio dalla persecuzione di Erode in una grotta, che si era aperta miracolosamente dopo le preghiere di Elisabetta. Era una grotta che permetteva di vedere all’esterno senza esser visti: infatti nel quadro di Leonardo si scorge il magnifico paesaggio in cui scorre il Giordano. In quell’occasione, dicono gli apocrifi, Gesù rivela a San Giovannino il destino di entrambi. L’angelo a destra trattiene Gesù sul ciglio di una pozza d’acqua e, allo stesso tempo, volgendosi verso di noi attira la nostra attenzione con il dito puntato verso il Battista il quale è abbracciato dalla Vergine. Dice Ballarin: «Sul primo piano la pozza allude alla fons, alla vasca battesimale, alla promessa del battesimo di Cristo nelle acque del Giordano; la mano della Vergine è sollevata sopra la testa del figlio in segno di protezione al destino della passione del figlio. (…) La Vergine è colei che adotta il Precursore del figlio, ma è anche colei che teme per le sorti del figlio, che vive, nell’incontro dei due piccoli, la premonizione della passione del figlio, grazie alla quale la salvezza sarà restituita al mondo. Ella presiede all’incontro, lo patrocina; ella conosce il disegno divino, anzi ne è lo strumento; ella è colei che sa. Voglio dire che in questo quadro alla Vergine viene assegnato un ruolo centrale nel compiersi del disegno divino, nella redenzione dell’umanità attraverso l’incarnazione ed il sacrificio di Cristo».
Nulla di simile si era ancora visto: non a Firenze, e neppure a Milano. Un’immagine del genere ha una coloritura tutta francescana, impensabile senza tener conto della nuova sensibilità per il culto mariano frutto dell’accesissimo dibattito che i frati minori, guidati da Francesco della Rovere, generale dell’ordine e poi papa con il nome di Sisto IV, conducono contro i domenicani per l’affermazione della dottrina del concepimento immacolato della Vergine. E proprio Milano era uno dei fronti più accesi di tale disputa. Dice ancora Ballarin: «Si potrebbe dire che Leonardo ha inteso significare il concepimento immacolato della Vergine, la sua natura di creatura immacolata concetta, attraverso il ruolo che Dio le ha dato di corredentrice: quello che i teologi francescani di oggi direbbero il privilegio della corredenzione, cioè della cooperazione della Vergine nell’opera salvifica di Cristo, come prova del suo essere stata concepita senza peccato originale».
Solo cogliendo queste implicazioni teologiche possiamo comprendere l’interesse dei francescani milanesi per un tipo di immagine come quella del Louvre. È così molto probabile che colta la genialità della prima “Vergine delle rocce” – che a noi oggi appare sfumata perché non più partecipi della sensibilità dei contemporanei di Leonardo – la Confraternita dell’Immacolata Concezione abbia deciso di commissionare a Leonardo una nuova immagine che, partendo dalla struttura della prima, si concentrasse solo sul tema che stava loro a cuore. A quel punto a Leonardo non rimane che emendare la prima e acrobatica ingegneria iconografica dai riferimenti diretti al tema del battesimo. Nella tavola conservata alla National Gallery, dunque, non vengono riprodotti la pozza d’acqua in primo piano e il dito dell’angelo che indica San Giovannino. Gesù, il Battista, l’angelo e la Vergine qui formano una sorta di piramide che ha il suo fulcro proprio nella figura di Maria, imponente e matura, diversa dalla giovinetta fragile della prima versione. «Quella Vergine di Leonardo – scrive Ballarin – determinata nei gesti, sicura del proprio agire, ma fragile nei sentimenti, è veramente l’annunzio, il battesimo, di una nuova èra mariologica, aperta, in modi e tempi diversi, da due francescani, Giovanni Duns Scoto e Francesco Della Rovere». Lo studioso padovano arriva a dire che se il Medioevo è stato un periodo cristologico, soprattuto nei secoli XIII e XIV, la prima parte del Rinascimento è stata tutta per la Madonna. Forse, anche se furono anni difficili, Maria andava ad assumere un ruolo sempre più importante come madre del popolo cristiano.
You have never seen an exhibition with only pictures by Leonardo da Vinci. Why? It’s simple. In the past 70 years, no one has managed to organize one. This year, London’s National Gallery has managed it. From November 9th to February 5th, it proposes a review of the Italian genius’ Milanese years, entitled, “Leonardo da Vinci: Painter at the Court of Milan.” The list of loans is breathtaking. The two versions of Leonardo’s Virgin of the Rocks, belonging to the National Gallery and the Louvre, are shown together for the first time. An event of this kind could be the occasion for an update on the research on one of the crucial nodes of the history of Renaissance art. Alongside the exhibition, one of the greatest experts on Leonardo, Professor Alessandro Ballarin, from Padua, has published a monumental work (four volumes–1, 392 pages of text and 1, 389 pages of photographs) entitled, “Leonardo in Milan.” Ballarin worked on this book over the past 15 years, sifting through the few documents available to historians and proposing new scenarios and solutions to many questions still open but, above all, proposing interpretations of works that no one up to now dared to analyze. The example of the two versions of the Virgin of the Rocks, around which the whole London exhibition gravitates, is emblematic. Ballarin is not in fact in agreement with what the curators of the English exhibition maintain about the history of the two works and proposes a totally new interpretation.
According to the London experts, the version of the Virgin of the Rocks preserved in the Louvre was the first to be made. Painted between 1483 and 1486, in their view it was painted for the oratory of the Confraternity of the Immaculate Conception in the Franciscan church of San Francesco in Milan (near what is now the Catholic University, and demolished in the early 1800s). After an argument over payment, Leonardo is said to have sold this version and successively (around 1490) painted what is now in the National Gallery to replace that in the oratory of the Confraternity. Leonardo had recourse to the Milan Tribunal claiming that the Confraternity had not finalized payment for the work. According to the documents of the time, the Confraternity maintained that payment was not finalized because the work was not considered completed. But if this were the case, how could Leonardo have sold an unfinished work? And then, if the second version was to replace the first in the complex altarpiece of San Francesco, why are the two panels of different sizes? Lastly, why would the artist have decided to alter the composition of the second version instead of making an exact copy?
The well and the fons. Ballarin says, “The first panel, that of the Louvre, was not in fact painted for San Francesco, but is a work painted during the first years of his sojourn in Milan. It would have been a ‘calling card’ for his new patron, Ludovico il Moro, destined for the apse in the palatine chapel of San Gottardo in Corte, the church that can still be found behind Milan’s Palazzo Reale. This church had been built by Ludovico’s uncle, Azzone Visconti, and its original structure was a replica, in the apse, of the octagonal plan of the baptistery of San Giovanni ad Fontes (for males, where Ambrose baptized Augustine) and had been sacrificed for the building of the new Duomo. It would seem, then, that Azzone’s intention was for San Gottardo to become a new Ecclesia Fontis.”
At the same time, though, the Church was dedicated to the Immaculate Conception, a cult spread in Italy and particularly in Milan by the Franciscans. An altarpiece for that church would therefore have been required to combine the theme of the Immaculate Conception with that of the Baptism of Jesus. The Louvre version of the Virgin of the Rocks would therefore correspond to these complex requirements.
As it was, Leonardo chose to begin from ancient apocryphal prophecies about the life of the Baptist, which tell that, on their return from Egypt, Jesus and Our Lady went to see their cousin, John, who had taken refuge from Herod’s persecution in a cave that opened miraculously thanks to the prayers of Elizabeth. It was a cave that allowed those inside to see out without being seen. In fact, in Leonardo’s painting we get a glimpse of the countryside with the Jordan passing though. The apocryphal stories say that on that occasion, Jesus revealed to John both their destinies. The angel holds Jesus near the edge of a well and, at the same time, looking towards us, guides our attention with his finger pointed towards the Baptist who is embraced by the Virgin. Ballarin says, “In the foreground, the well alludes to the fons, to the baptismal font, to the promise of the Baptism of Christ in the waters of the Jordan; the Virgin’s hand is raised above her Son’s head as a sign of protection in His destiny of the Passion. …The Virgin is she who adopts her Son’s precursor, but also she who fears for the fate of her Son, and who lives, in the meeting of the two children, the premonition of her Son’s Passion, thanks to which salvation will be restored to the world. She presides over the meeting, promotes it; she knows the divine plan, she is its instrument; she is she who knows. I want to say that in this painting, the Virgin is assigned a central role in the fulfilling of the divine plan, in the redemption of mankind through the incarnation and the sacrifice of Christ.”
The dispute. Nothing of its kind had been seen before–not in Florence, nor in Milan. This image has a coloring wholly Franciscan, unthinkable without taking into account the new sensitivity for the Marian cult, fruit of the intense dispute between the Friars Minor–led by Francesco della Rovere, General of the order and later Pope by the name of Sixtus IV–and the Dominicans, so as to affirm the doctrine of the Immaculate Conception of Our Lady. Milan was one of the hot spots in this dispute. Once again, Ballarin says, “We could say that Leonardo intended to mean the Immaculate Conception of the Virgin, her nature as a creature conceived immaculately, through the role God gave her of Co-redemptrix–what today’s Franciscan theologians would call the privilege of co-redemption, that is, of the Virgin’s cooperation in Christ’s salvific work, as the proof of her being conceived without original sin.”
Only if we grasp these theological implications can we understand the interest of the Milanese Franciscans in an image like that of the Louvre. Thus, it is highly probable that, having grasped the genius of the first Virgin of the Rocks–which for us today seems obscure because we no longer share the sensitivity of Leonardo’s contemporaries–the Confraternity of the Immaculate Conception decided to commission from Leonardo a new painting that, starting off from the structure of the first would concentrate only on the theme they had at heart. At that point, all Leonardo had to do was to purge that first, acrobatic iconographic engineering of direct references to the theme of Baptism. In the panel preserved at the National Gallery, therefore, there is no trace of the well in the foreground, or the angel’s finger pointing to St. John. Jesus, the Baptist, the angel, and the Virgin here form a sort of pyramid that has its fulcrum in the figure of Mary, imposing and mature, different from the frail little girl of the first version. “The Virgin of Leonardo,” writes Ballarin, “determined in her gestures, sure of her own action, but frail in her feelings, is truly the announcement, the Baptism, of a new era in Mariology, opened, in different ways and times, by two Franciscans, John Duns Scotus and Francesco Della Rovere.” The Paduan scholar goes as far as to say that if the Middle Ages was a Christological period, above all in the 13th and 14th centuries, then the first part of the Renaissance was all for Our Lady. Perhaps, even though they were difficult years, Mary went to take up a more and more significant role as Mother of the Christian People.
Ieri, in contemporanea con l’assegnazione del prestigiosissimo Flower Prize 2o11, si è svolta anche la premiazione del Turner Prize. Ha vinto l’artista scozzese Martin Boyce (anche l’anno scorso ha vinto un’artista scozzese: Susan Philipsz). Complimenti. Qui sotto un’immagine della sua istallazione:
Mi ha incuriosito la reazione dei due critici del Guardian: quella entusiasta di Adrian Searle e quella inviperita di Jonathan Jones. Searle definisce il lavoro Boyce “un’istallazione bellissima e sorprendente”, un inno alla purezza modernista. Jones, invece, si dice proprio incazzato per la sconfitta del pittore George Shaw, il suo preferito, e arriva a dire: “Per il mondo dell’arte respingere Shaw è una confessione della propria superficialità”. E continua: “È come se i giudici abbiano voluto dimostrare che Charles Saatchi ha ragione quando dice che c’è qualcosa di storto nel mondo dell’arte. La loro decisione di non far vincere il grande George Shaw è una rivelazione inquietante di quanto il panorama artistico britannico si sia allontanato dal vero cammino di profondità morale ed emotiva. Pochissimi artisti negli ultimi anni hanno affrontato così potentemente sentimenti così profondi ed enigmatici. Pochissimi hanno lavorato su un livello umano così diretto. Il verdetto? Lui è un “conservatore””.
Allora: se Jonathan Jones non fosse stato già membro della giuria del Turner Prize, nel 2009, avrei liquidato la faccenda sotto la voce “Jean Clair e affini”. Eppure no so davvero. Guardando le immagini delle opere di Shaw, non so cosa pensare. Voi cosa ne dite?
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Urs Fischer won the Prize Flower 2011. Martin Boyce won the Turner Prize 2011. Congratulations. Below a picture of his installation:
I was curious about the reaction of two critics of the Guardian: one excited by Adrian Searle and the furious one by Jonathan Jones. Searle defines Boyce’s work “a beautiful and unexpected installation” and says “his art is a sort of elegy to modernist purity”. Jones, however, says just pissed off about the defeat of the painter George Shaw, his favorite, and he even says: “For the art world to spurn Shaw is a confession of its own shallowness”. And he continues: “It is as if the judges wanted to prove Charles Saatchi right that something is awry in the house of Art. Their second-besting of the great George Shaw is a disturbing revelation of how far the British art scene has strayed from the true path of moral and emotional depth. Very few artists in recent years have so powerfully dealt with deep, enigmatic feeling. Very few have worked on such a direct human level. The verdict? He’s a “conservative””.
So, if Jonathan Jones had not already been a jury member of the Turner Prize in 2009, I would dismissed the matter under the heading “Stuckism”. But I don’t really know. Looking at the images of the works of Shaw, I do not know what to think. What do you say?