LA STAMPA TEDESCA SCETTICA SUL FILM SU GERHARD RICHTER


La stampa tedesca non fa sconti al film di Corinna Belz “Gerhard Richter Painting” dedicato all’opera degli ultimi due anni del grande pittore tedesco presentato sabato al festival del film di Toronto. A segnalarlo è Artforum che cita gli articoli di Die Zeit e della Süddeutsche Zeitung. Il primo parla addirittura di un “misunderstanding di 73 minuti” accusando la Belz di considerare Richter come il miglior interprete possibile della propria opera. La Süddeutsche, invece, valorizza il documentario soltanto per i lunghi piani sequenza nei quali viene ritratto il pittore all’opera. Se è difficile valutare la prima sentenza senza aver visto il film, sulla seconda invece bastano i brani contenuti nel trailer qui sotto per dire che almeno per quell’aspetto il film è da non perdere. Ora occorrerà capire quando e come sarà possibile vederlo.

IL RAGAZZINO CHE FECE DA BABY SITTER A LUCIAN FREUD

Boy's Head, Lucian Freud, 1952

Si chiama Charlie Lumley e oggi ha 79 anni. È il soggetto di questo bellissimo ritratto che Lucian Freud dipinse nel 1952 e che il mese prossimo andrà all’asta da Sotheby’s per almeno 4 milioni di sterline. Lumley ha raccontato all’Independet che durante il periodo in cui posò per il dipinto dovette fare da “baby sitter” al grande pittore inglese. A chiederglielo furono gli amici di Freud preoccupati per la sua incolumità a causa delle difficoltà tra l’artista e Lady Caroline Blackwood, alora sua moglie. “Francis Bacon – racconta Lumley – mi disse ‘per amor del cielo tienilo d’occhio perché temo che salti giù dal tetto’. Così dovetti fargli da baby sitter”.
“Freud non smetteva mai di parlare – continua Lumley – Conversava su qualsiasi argomento. Aveva una memoria incredibile. Poteva discutere di boxe – di cui io all’epoca parlavo molto – ma Dio solo sa lui cosa sapesse di boxe…”.

NOI CHE DIMENTICHIAMO. ANCHE L’11 SETTEMBRE

Thomas Hoepker chose not to publish this photograph in a book about 9/11. Photograph: Thomas Hoepker/Magnum
Photograph: Thomas Hoepker/Magnum

Che l’11 settembre 2001 ha cambiato la storia lo sappiamo dalla sera dell’11 settembre, cioè è dieci anni che lo sappiamo. Non so cosa ci sia davvero di nuovo da dire. La cosa più intelligente che ho letto finora l’ha scritta Jonathan Jones in questo pezzo dal sapore testoriano nel quale cerca di spiegare il dirompente significato di questa foto di Thomas Hoepker la cui storia la potete leggere qui. Una foto che, più che dell’11 settembre, parla di come sono fatti gli uomini.

Dice Jones:

And so, 10 years on, the meaning of this photograph is that memories fade fast. The people in the foreground are us. We are the ones whose lives went on, touched yet untouched, separated from the heart of the tragedy by the blue water of time, which has got ever wider and more impossible to cross. A 10-year-old event belongs to history, not the present. To feel the full sorrow of it now you need to watch a documentary – and then you will switch to something lighter, either because it is painfully clear that too much blood has been spent around the world in the name of this disaster, or simply because changing channels is what humans do. The people in this photograph cannot help being alive, and showing it.

RECALCATI E IL GIALLO-VAN GOGH: COSÌ VICINO DA BRUCIARE


Del giallo-Van Gogh aveva già scritto Giuseppe Frangi qualche giorno fa in un pezzo per il Sussidiario parlando dell’“alta nota gialla”  che pittore stesso in una lettera descriveva al fratello Theo. Poi è arrivata la notizia secondo la quale il giallo-Van Gogh potrebbe andare perduto a causa della sua struttura chimica per la quale è destinato a imbrunirsi. Sul motivo per il quale amiamo così tanto il giallo-Van Gogh, Marco Dotti per Vita ha fatto qualche domanda allo psicanalista Massimo Recalcati. Ecco la parte più interessante di quel dialogo.

RECALCATI: Sarebbe ingenuo ignorare che tutti amiamo o abbiamo amato Van Gogh per la sua pittura, per le sue tele, per i suoi colori e per il suo “giallo” che, oggi, dicono stia svanendo a causa della composizione del colore. Tutti l’abbiamo amato o lo amiamo perché c’è qualcosa in lui – che è una singolarità così irriducibile all’universale – che tocca una corda universale. Van Gogh non mente sull’umano, dice una verità essenziale sull’umano. Il giallo-Van Gogh può essere visto come un segno di questa pratica di non menzogna sull’umano. Un segno paradossalmente confermato e non smentito dal suo deperimento.

DOTTI: Quale verità?
R: Quella che l’umano è sradicamento, assenza di origine, emergenza su uno sfondo vuoto ma, al tempo stesso, spinta incessante verso l’assoluto. Spinta ad accostare questo vuoto, tentativo di nominarlo, di fornirgli un’immagine. Forse anche di racchiuderlo in questa immagine. E poi c’è il grande elemento dell’incarnazione, della biografia come incarnazione dell’opera.

D: Un’incarnazione che avviene attraverso continue lacerazioni. Anche la ricerca dell’assoluto è nel segno di una preghiera spezzata…
R: Direi di più: l’assoluto, per lui, non ha solo il volto del bene, la luce non è solo l’elemento che genera la vita, ma anche quello che la brucia. È ciò che Lacan chiamava “la Cosa”. Nelle sue ultime opere, ad esempio quelle che ritraggono campi di ulivi, la presenza del disco inumano del sole non alimenta la vita, ma la ustiona perché la prossimità è eccessiva. L’assoluto diventa così, sempre per dirla in termini lacaniani, il luogo di un godimento che si è approssimato troppo alla scena del mondo e, approssimandosi troppo, la scompagina, la devasta. Questo elemento mi pare speciico del pensiero e della pratica di Van Gogh. C’è, in lui, un’ambivalenza ben esempliicata dal “girasole” che è al tempo stesso luce e tenebra, gloria e distruzione. È il giallo e il suo imbrunire.

TARYN SIMON: FOTOGRAFARE L’INFOTOGRAFABILE

Hymenoplasty	 Cosmetic Surgery, P.A.	 Fort Lauderdale, Florida
Hymenoplasty Cosmetic Surgery, P.A. Fort Lauderdale, Florida
Transatlantic Sub-Marine Cables Reaching Land	 VSNL International	 Avon, New Jersey
Transatlantic Sub-Marine Cables Reaching Land VSNL International Avon, New Jersey
U.S. Customs and Border Protection, Contraband Room	 John F. Kennedy International Airport	 Queens, New York
U.S. Customs and Border Protection, Contraband Room John F. Kennedy International Airport Queens, New York

Taryn Simon è un po’ la Sofia Coppola della fotografia. Newyorkese, classe 1974, parentele importanti (è la cognata di Gwyneth Paltrow) e soprattutto: piace alla gente che piace (leggi: Gagosian). La segnalo per due motivi: il primo è che dà l’impressione di una maturità di sguardo sorprendente per la sua età, il secondo è che come pochi è riuscita nell’intento di fotografare l’infotografabile. Mi riferisco soprattutto a due lavori come An American Index of the Hidden and Unfamiliar (2007) – del quale alcuni scatti sono esposti nel padiglione danese della Biennale di Venezia, e Contraband (2010). Americanissima, anche nello stile di critica sociale che avanza con la sua opera, adotta il teutonico processo di catalogazione inventato da Bernd e Hilla Becher. Lo dimostra nell’ultimo lavoro A Living Man Declared Dead and Other Chapters esposto in questi giorni alla Tate Modern (fino al 2 gennaio 2012), nel quale fotografa sedici “bloodline”, immortalando i volti dei membri di famiglie svelando contemporaneamente le storie ad essi legate, come accade, appunto, nella storia indiana dell’uomo vivo dichiarato morto.

Qui la presentazione della mostra di Londra

Qui invece la presentazione di An American Index of the Hidden and Unfamiliar

LA FOLLE MOSTRA DEGLI SPOT PAINTING DI HIRST DA GAGOSIAN

La parodia di Bansky degli Spot Paintings di Damien Hirst
La parodia di Bansky degli Spot Paintings di Damien Hirst

Il NYT riferisce che all’inizio dell’anno prossimo Damien Hirst appalterà in contemporanea tutte le undici gallerie di Larry Gagosian sparse per il mondo (Los Angeles, New York, Londra, Parigi, Ginevra, Londra, Roma, Atene e Hong Kong) per un’unica mostra dedicata ai suoi famigerati quadri a pallini, titolo: “Damien Hirst: The Complete Spot Paintings 1986-2011”.
Originariamente gli “Spot paintings” nascono come dipinti su muro realizzati direttamente nelle case dei collezionisti, successivamente l’idea è stata ripresa in diverse varianti e dimensioni (immensi quelli esposti alla grande mostra al Museo Oceanografico di Monaco). Hirst in passato aveva affermato che questi quadri erano tutti parte di un’unica grande opera concettuale senza fine. I dipinti sono stati realizzati da collaboratori e Hirst racconta che una volta la più brava di questi collaboratori nel momento di cambiare lavoro chiese di avere una di queste opere in regalo. Hirst le chiese come mai volesse uno di quei quadri visto che era più brava di lui a realizzarli, lei rispose: “Perché se li rifacessi io fuori di qui non sarebbero più degli Hirst”.
Come afferma The Art Market Monitor questa mostra, intitolata “complete spot paintings” dovrebbe chiarire uno dei misteri legati all’opera di Hirst: quanti Spot Paintings sono stati realizzati fino ad oggi? Si dice infatti che ne siano stati realizzati circa un migliaio, ma il NYT dice che in mostra ce ne saranno circa 300 e solo la metà saranno in vendita. Un’operazione simile seminerà il panico tra i collezionisti. Le opere che non saranno inserite in mostra (e nel catalogo che Gagosian ha annunciato) saranno infatti considerate dei falsi o giù di lì. Tutti i collezionisti, quindi, sgomiteranno per far inserire la propria. E se davvero si scoprirà che le opere del ciclo non sono mille ma trecento i prezzi, che oggi si aggirano tra i 100mila e 1,7 milioni, potrebbero anche triplicare. A dimostrare lo scompiglio creato dall’anticipazione del NYT sta il fatto che a meno di 24 ore dall’articolo Gagosian ha pubblicato un comunicato stampa sul suo sito alla fine del quale riporta con precisione tutti i recapiti delle sue gallerie con email e numero di telefono e per l’occasione ha creato un’email ad hoc per la mostra: spots@gagosian.com. Come dire: i collezionisti hanno già preso d’assalto i centralini…

Tra l’altro: Hirst sostiene che sta facendo realizzare uno Spot Painting con un milione di pallini e occorreranno nove anni per realizzarlo. Un’altra boutade delle sue?

QUANDO DAVID HOCKNEY POSÒ PER LUCIAN FREUD E VICEVERSA

David Hockney in Freud's studio, David Dawson  © David Dawson
David Hockney nello studio di Freud, David Dawson © David Dawson

Divertente e non scontato  il ricordo di David Hockney su Lucian Freud raccolto dall’Evening Standard. Fu Freud a chiedere a Hockney di posare per lui, ma per accettare il secondo mise come condizione che Freud facesse altrettanto per lui. “Accettai – racconta Hockney – nonostante sapessi che non mi avrebbe dedicato molto tempo e io avrei dovuto dedicarne molto a lui (…) Lavorava molto lentamente. Sapevo che aveva abbandonato alcuni ritratti e siccome gli stavo dedicando molto tempo non volevo che accadesse anche con il mio. Così cooperai. Gli piaceva una certa mia giacca e una camicia blue. Indossavo sempre quelle. Ero affascinato dal suo metodo di lavoro.  (…) Gli dissi che avrei voluto fumare mentre posavo. Accettò ma mi chiese di non accennare alla cosa con Kate Moss che era il suo altro soggetto di quel periodo. Vidi la Moss solo assieme a Lucian e ci fumammo una sigaretta insieme fuori da un ristorante”.
A parte questi particolari Hockney rivela l’amore di Freud per i disegni di Rembrandt che erano ritratti di persone dal vero e descrive in modo dettagliato il modo in cui Lucian mescolava i colori sulla tavolozza (ne usava otto e non chiudeva mai i tubetti con il tappo).

Non ne ho la certezza matematica, ma penso che Hockney sia stato l’unico pittore ritratto da Freud dopo Francis Bacon.

Ultima cosa: Hockeny dice che Freud quando posò per lui si addormentò…

Hockney visto da Freud e Fred visto da Hockney
Hockney visto da Freud e Freud visto da Hockney

DONNE E ASINI: MARZOLI, PIVI E ABRAMOVIC

Sono andato a vedere la mostra di Paola Marzoli al Museo Diocesano. Mi ha colpito molto il suo “Bètfage”, il quadro che raffigura l’asino. È l’asino su cui nessuno era mai salito e che porterà Gesù a Gerusalemme la domenica degli ulivi. Quella dell’asino è un’immagine bellissima, dice molte cose. O almeno le dice a me.  Mi vengono in mente altre due artiste che l’hanno usata in modo efficace: Paola Pivi e Marina Abramovic.

Paola Marzoli, Bétfage, 2009
Paola Marzoli, Bètfage, 2009
Paola Pivi, Senza Titolo (Asino), 2003
Paola Pivi, Senza Titolo (Asino), 2003
Marina Abramociv, Confession, 2010
Marina Abramovic, Confession, 2010 (film still)

RYAN MCGINLEY LASCIA INDIETRO TUTTI

Ryan McGinley, Somewhere Place, 2011

Ryan McGinley, Sly Fox, 2011


Ryan McGinley è un fuori classe. Ad ArtBasel la Allyson Jacques Gallery di Londra ha portato queste due fotografie. Impossibile non notarle. Tornato a casa ho pensato che da qualche parte dovevo aver visto qualcosa di simile. Sì, l’avevo già visto al Frieze dell’anno scorso ed era perfino finito in un mio post di “cartoline”. Queste due opere sono del 2011, ma McGinley nonostante sia del ’77 ha alle spalle una decina di anni di onorata cariera. La sua storia la spiega bene questo articolo del 2007 del New York Times ed è molto simile, forse non è un caso, a quella di un altro grande: Wolfgang Tillmans.
Il suo lavoro ruota tutto attorno al volto e al corpo umano. Sono immagini di un un vitalismo, sincero e allo stesso tempo raffinato, che non ritrovo in nessuno della sua generazione e forse neanche in quella precedente. Ecco, forse ha preso il testimone del primo Tillmans che con lui condivide la passione per la figura umana. In Italia non si è ancora visto ma negli Stati Uniti gode di una grande successo se è vero che a soli 24 anni ha realizzato una personale al Whitney Museum e l’anno scorso la Levi’s gli ha chiesto di realizzare la sua campagna pubblicitaria. La foto qui sotto, invece, in Italia è stata usata da Mondadori come copertina per il romanzo di Francesco Bianconi (il leader dei Baustelle).

Ryan McGinley, India (Coyote), 2010

Ma la cosa che più stupisce è la versatilità di questo artista che riesce a cimentarsi con il ritratto (bella questa serie sui vincitori degli Oscar del 2007) e lasciare senza parole quando punta l’obiettivo al cielo stellato.

Ryan McGinley, Night Sky (Pine), 2010