TUTTI I FOTOGRAFI DI BICE

A questa Biennale di Venezia i fotografi non hanno dovuto fare salti mortali per interpretare il tema scelto da Bice Curiger, per il semplice motivo che si trovano per vocazione a manipolare la materia, la luce, che produce “Illuminazioni” nel senso più letterale (senza la N maiuscola). È come se giocassero in casa, insomma. La selezione fatta dalla curatrice svizzera non è stata per nulla scontata e quelli presenti al Padiglione centrale dei Giardini e all’Arsenale, pur non essendo i nomi più acclamati, sono fotografi importanti su cui val la pena soffermarsi. Di seguito propongo la mia personalissima classifica, con quale nota e/o promemoria.

1) JEAN-LUC MYLAYNE

Sarà perché ho appena finito di leggere “Freedom” di Jonathan Franzen, ma questo artista-birdwatcher non può che conquistare tutta la mia ammirazione. La sua ricerca sugli uccelli è completamente fuori moda, ma l’uso funambolico dello sfuocato e la raffinatezza della composizione suscitano come un fremito in chi presta un minimo di attenzione alle sei immagini scelte per l’Arsenale. Quel lampo di luce inattesa nella foto qui sopra è come se dettasse il senso a tutto il ciclo.

2) DAYANITA SINGH


Il suo “Dream Villa slide show” all’interno del parapadiglione di Franz West è una delle maggiori sorprese della Biennale. Questi bellissimi notturni a colori mostrano tutta la forza di una fotografa che ha costruito la sua carriera su un corpus in bianco e nero. Prima di entrare nella struttura di West, l’artista presenta un altro ciclo affascinante, “File Rooms”: immagini dal passato analogico nella super digitalizzata India. In “Dream Villa” la Singh ha il coraggio di prendere le distanze dalla retorica ritrattistica dei reportage sull’India e ci mostra il suo Paese così, senza persone, liberando tutta la poesia della solitudine di questi paesaggi urbani.

3) LUIGI GHIRRI


Dovrebbe essere al primo posto della classifica, ma ha il terribile svantaggio di non aver potuto scegliere lui le foto da portare alla Biennale. Voi direte: non ha senso parlare in questo modo nella Biennale che verrà ricordata come “quella di Tintoretto”. Già, però: guardate la stanza dedicata dalla Curiger a Sigmar Polke e poi andatevi a vedere quella allestita a Punta della Dogana. Qualcosa non torna. Sono convinto che se avessero chiesto a Polke quali quadri portare ai Giardini avrebbe scelto quelli indimenticabili di Pinault. Detto questo alcune delle foto di Ghirri sono da brivido. Vi propongo questa scusandomi di non riuscire a reperirne una versione più decente.

4) DAVID GOLBLATT


Le sue immagini sono ospiti del para-padiglione più riuscito, quello di Sosnowska. Sono presenti due “cicli”: uno di vedute dall’alto di luoghi di città sudafricane, l’altro di ritratti di criminali nei luoghi dove hanno commesso i deliti per i quali sono stati puniti. Devo dire che preferisco il primo al secondo: quel picnic nella periferia di Johannesburg è davvero un’immagine commovente (qui sopra).

5) ANNETTE KELM


C’è come una grazia, un ordine sottile che segna queste sue fotografie. Ma questo è tutto quello che so dire perché si tratta di un’artista troppo concettuale per una misera mente come la mia.

6) BIRDHEAD


Due giapponesi casinari. Non so se Araki sarebbe orgoglioso di loro.

TINTORETTO ALLA BIENNALE E LA TRINITÀ

Molti hanno detto della presenza delle tre tele di Tintoretto nel salone centrale del padiglione delle esposizioni ai Giardini. Ne ha parlato bene Giuseppe qui. Evidentemente tutti si sono concentrati, Bice Curiger per prima, nel sottolineare il rapporto che questi quadri avrebbero stabilito con le opere degli artisti contemporanei presenti in Biennale. Non so però se qualcuno abbia riflettuto sul rapporto interno a queste tre immagini. Io non so dire nulla con competenza sulla pittura di Tintoretto, ma noto una cosa legata ai soggetti scelti: i tre quadri delle biennale costituiscono un ciclo sulla Trinità.

  • Il Dio creatore di Tintoretto non è un motore immobile, è un creatore che sembra accompagnare le proprie creature, ed esse si muovono nella sua stessa direzione.
  • Il Figlio, è il Divino che entra nella storia. Gesù istituisce l’Eucarestia durante un banchetto concitato, in mezzo alla febbrile quotidianità della vita dei discepoli, molti dei quali non sembrano neanche accorgersi della solennità del momento.
  • Lo Spirito Santo è il permanere della presenza di Dio nella storia che tocca alcuni, i Santi, che più intensamente mostrano la loro vita cambiata e costituiscono i pilastri della Chiesa. Che poi il culto di questi Santi risulti talvolta roccambolesco è il segno che la Chiesa è fatta di uomini e con loro condivide le avventure più impensabili.



NELLA PANCIA DEL LEVIATANO DI KAPOOR AL GRAND PALAIS

Leviathan, Anish Kapoor, Grand Palais, Paris, 2011

Leviathan, Anish Kapoor, Grand Palais, Paris, 2011

Leviathan, Anish Kapoor, Grand Palais, Paris, 2011

Leviathan, Anish Kapoor, Grand Palais, Paris, 2011

Leviathan, Anish Kapoor, Grand Palais, Paris, 2011

Come Giona, Pinocchio o il capitano Achab? Che cos’è questo gigantesto mostro che Anish Kapoor ha imprigionato dentro la gabbia del Grand Palais? È il provvidenziale pesce biblico, la simpatica balena di Collodi o il feroce capodoglio di Melville? È lecito chiederselo, anche se la risposta non è necessaria per addentrarsi nel fascino di questa opera riuscitissima. “Leviathan” di Kapoor è un’apparizione misteriosa e travolgente. È lì innanzitutto: grande e enigmatico. Come molte cose che della vita non ci spieghiamo e eppure ci sono e la ingombrano e sembrano sovrastare i confini dell’esistenza. Certe paure, certe bellezze, certe insensatezze o amori travolgenti.

Non è la sua prima opera a carattere epico, anche se forse si tratta della più grande con i suoi 33metri di altezza e i 100x72metri di ampiezza. Ma più delle dimensioni colpisce, e questa secondo me è una cifra decisiva dello stile di K., la sproporzione dell’opera rispetto al suo contenitore. Qui il Grand Palais appare in tutta la sua piccolezza (!!), sembra volersi far più largo per il disagio che gli procura questa ingombrante presenza. A temperare l’aggressività del tutto è forse l’eleganza cromatica soprattutto dell’esterno (l’interno è un vero e proprio rosso sangue) dove il color melanzana si abbina benissimo, anche se in modo acrobatico, al verde salvia della struttura e il giallo delle ringhiera del Gran Palais.

Due parole invece sulle due esposizioni kapooriane a Milano. Quella della Rotonda della Besana è bellissima e la Rotonda ci mette molto del suo. “My Red Homeland” è inquietante come tutti i lavori in cera rossa, mentre gli specchi sono di una perfezione che fanno chiudere un occhio sulla deriva ludica che potrebbero prendere. Ma la visita a Parigi mi ha fatto capire tutti i limiti, invece, di “Dirty Corner” alla Fabbrica del Vapore. Innanzitutto va detto che “Dirty Corner” è il progetto che in un primo momento Kapoor voleva realizzare per Parigi. Ma era evidente che non avrebbe funzionato. Il problema è che non funziona neanche a Milano perché non riesce ad entrare in rapporto con lo spazio nel quale è collocato. Non c’è quel senso claustrofobico che suscita un’opera che se fosse stata un pochino più grande avrebbe sfondato pareti e soffitto. Il gioco della camminata al buio (coinvolgente, ma già visto alla Turbin Hall della Tate con l’opera di Miroslaw Balka nel 2009) non giustifica un investimento di forze di questo genere.

L’ultima cosa è: ha ragione o no Francesca Bonazzoli che sul Corriere scriveva che Anish Kapoor è l’artista dell’establishment, molto spettacolare e per nulla scomodo? Per nulla scomodo non direi, la cera rossa non è innocua: è un’immagine lacerante. Da establishment? Beh, questo forse sì. Ma è come rimproverare a Kapoor di essere un artista di successo.

INAUGURATE PURE LA BIENNALE. TANTO IO ME NE VADO A PARIGI

Carré d’agneau, ratatouille, pomme frites e una birretta chiara. Ottimo. Per il resto il menù della gita di sabato scorso a Parigi con Davide e la Ficcanaso è stato: “Rembrandt et la figure du Christ” al Louvre, “Manet, inventeur du Moderne” al Musée d’Orsay e “Leviathan” di Anish Kapoor al Grand Palais.
Per ora pubblico qualche scatto. Nei prossimi giorni prometto che scriverò un post per ciascuna mostra.




Leviathan, Anish Kapoor, Grand Palais, Paris, 2011
Leviathan, Anish Kapoor, Grand Palais, Paris, 2011

DISSIPATIO HG – UN ESPERIMENTO A GAVIRATE

Sono stato a Gavirate (VA) a vedere una bella mostra d’arte contemporanea organizzata dall’associazione Stralis e curata da Vera Portatadino. Si intitola “Dissipatio HG – L’uomo è un abisso” ed è visitabile fino domenica 5 giugno al Chiostro di Voltorre. Si tratta di una collettiva di artisti amici,  in parte incontrati da Vera durante i suoi studi al Chelsea College of Art and Design di Londra e in parte residenti nei dintorni di Varese, che hanno voluto riflettere sul tema dell’indentià dell’uomo. “Dissipatio HG” sta per “Dissipatio Humani Generis” che poi è il titolo di un romanzo di Guido Morselli. Della mostra mi ha colpito soprattutto il carattere spontaneo dell’iniziativa e il buon livello dell’allestimento tenuto conto di un budget che si avvicina allo zero. Alcune opere, poi, sono davvero interessanti. Per chi è nelle vicinanze, vale una visita.

LAURA X CARLÈ, Thomas, 2009, bronzo e calco in gesso, 26x73x47cm
LAURA X CARLÈ, Thomas, 2009, bronzo e calco in gesso, 26x73x47cm

VERA PORTATADINO, Fade, 2011, matita su strati di carta e graffetta, dimensioni variabili
VERA PORTATADINO, Fade, 2011, matita su strati di carta e graffetta, dimensioni variabili

GABRIELE JARDINI, Pera sospesa, 2011, inkjet su carta cotone, 150x195cm
GABRIELE JARDINI, Pera sospesa, 2011, inkjet su carta cotone, 150x195cm

Gli altri artisti in mostra sono: Blind Adam, Dimitrios Antonitsis, Mercedes Baliarda, Cesare Biratoni, Lindsey Bull, Umberto Cavenago, Pierluigi Fresia, Cristina Mariani, Ioanna Pantazopoulou, Francesco Pedrini, Luca Scarabelli, Alessandra Spranzi e Stavro Christo Vlachakis.

FARE SOLDI SULLA PELLE DI AI WEIWEI?

Settimana scorsa quei pezzi di merda (senza offesa, per carità…) di Cathedral of Shit hanno sollevato una polemica che è finita su tutti i siti di arte contemporanea riguardo l’atteggiamento dei galleristi di Ai Weiwei. Questi ultimi, secondo il blog, avrebbero buon gioco a partecipare alle manifestazioni di solidarietà nei confronti dell’artista cinese e contemporaneamente partecipare alla fiera di Hong Kong. Evidentemente più si parla di Ai Weiwei più il mercato chiede opere di Ai Weiwei. Cosa dovrebbero fare allora le gallerie (LissonNeugerriemschneider)? Boicottare la fiera? No, dicono a Cathedral oh Shit, dovrebbero andare e lasciare gli stand vuoti. Rispondono le gallerie: ma è questo il momento di mostrare, anche in Cina, il lavoro di Ai.

È un po’ di giorni che ci penso e non so da che parte stare. Voi cosa dite?

Al di là delle polemiche devo dire che la mostra di Ai Weiwei in corso alla Lisson di Londra deve essere davvero bella. Sopratutto quella sedia in marmo. Così umile e così fiera. Sembra la sedia di Van Gogh.

Per chi fosse completamente a digiuno sulle vicende di Ai Weiwei segnalo questo mio articolo

CHRISTIAN STEIN, LA SUA CASA DI TORINO ERA UNO SBALLO

La cosa più interessante della mostra “Christian Stein – una storia dell’arte italiana” al Museo Cantonale d’Arte di Lugano è il filmato curato da Bruno Corà. In mostra ci sono certamente delle opere bellissime, ma per capire chi era Christian Stein, a parer mio, è necessario guardare le immagini della sua casa torinese di piazza Vittorio Veneto che il filmato mostra in alcuni piani sequenza mozzafiato. Queste immagini, infatti, mostrano non solo lo straordinario gusto della Stein, ma anche come la semplicità e la poeticità dell’arte povera (passatemi il termine in po’ sbrigativo in questo caso) venga esaltata se collocata in un contesto quotidiano. Nelle stanze del museo alcune opere sembrano perse nella loro enigmaticità, nella casa assumono un gusto più feriale, più familiare. Ecco qui qualche immagine tratta dal catalogo della mostra.
"Christian Stein - una storia dell'arte italiana", Museo Cantonale d'Arte di Lugano
"Christian Stein - una storia dell'arte italiana", Museo Cantonale d'Arte di Lugano
"Christian Stein - una storia dell'arte italiana", Museo Cantonale d'Arte di Lugano
"Christian Stein - una storia dell'arte italiana", Museo Cantonale d'Arte di Lugano
Ora qualche osservazione più puntuale sulla mostra:
1) bellissima la terracotta di Fontana nella prima sala
2) perché portare due opere di Kounellis che prevedono l’accensione di fiammelle/candele se poi per ragioni di sicurezza queste devono rimanere spente?
3) l’igloo con albero di Merz è uno dei pezzi migliori: con le sue lastre di vetro sberciate riesce a esprimere un equilibrio tutto suo
4) Kounellis è quello che esce peggio dalla selezione, Paolini (che non amo) invece è sovrarappresentato, ma stando alle immagini di casa-Stein si capisce benissimo che era il prediletto dalla gallerista